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14 maggio 2000. Dios es del Lazio

Sono passati 25 anni da quel fatidico giorno in cui accadde l’inverosimile. Il primo scudetto della Lazio l’ho vissuto allo stadio, avevo 7 anni, ho qualche ricordo confuso, un mare di bandiere biancocelesti e poco più. Il secondo scudetto al contrario l’ho vissuto minuto per minuto, attimo per attimo e anche oggi ad un quarto di secolo di distanza ricordo ogni sensazione, ogni paura e tutta la felicità di quel folle 14 maggio. Quando El Clarin di Buenos Aires arrivò a scrivere che evidentemente quel giorno “Dio era della Lazio“!

Ho ritrovato una cosa che scrissi allora. Scritta sull’onda di quei sentimenti, la delusione dell’anno prima sovrastata dalla gioia del momento. La cronaca dell’incredulità che accompagnava quell’inverosimile epilogo, che una volta di più sottolineava quanto – nel bene o nel male – non possiamo essere preparati a quello che la vita ci riserva. Non siamo mai preparati a quello che ci capita. Ma in fondo il bello è proprio quello.

Il bello del calcio è che si ricomincia sempre da capo. Puoi essere stato il più bravo o il più scarso. Puoi aver compiuto le imprese più grandi e avere alle tue spalle stanze piene di trofei, oppure essere una semplice matricola, appena affacciatasi alla grande ribalta: in ogni caso si riparte da zero. Ai nastri di partenza si parte tutti allineati e si cancella quello che è successo solo qualche mesi prima. Magari si potesse fare così anche nella vita!

Nonostante la delusione (o forse proprio per quella) del finale dello scorso anno, abbiamo rinnovato l’abbonamento: Enrico, Gabriele ed io, il trio delle meraviglie! La squadra gira abbastanza, sia in Campionato che in Coppa procediamo bene… Dopo la pausa invernale, però, subiamo una netta flessione e, grazie anche a qualche svista arbitrale di troppo, perdiamo punti preziosi in campi sulla carta facili, mentre la Juve continua a volare: quando ricominciamo a giocare come si deve, abbiamo sei punti di distacco dalla capolista, che diventano addirittura nove il 19 marzo, quando perdiamo a Verona, mentre la Juve vince facilmente il suo derby con il Toro. È finita: anche quest’anno dovremo consolarci con qualche coppetta!

La settimana successiva siamo di fronte ai cugini giallorossi: per via delle solite scaramanzie, presto la tessera a un amico e mi chiudo in un ritiro spirituale, senza né radio, né Tv. Il sortilegio ha effetto: vinciamo due a uno, la Juve perde a Milano, torniamo a sei punti di distacco e la domenica successiva abbiamo lo scontro diretto al Delle Alpi di Torino. Non ho la benché minima speranza che la Juve sia così ingenua da cadere nelle paure che ci condizionarono lo scorso anno. E invece. Domenica 2 aprile, posticipo serale: la Lazio espugna Torino e arriva a tre punti dalla capolista. Vuoi vedere che forse ci siamo? È un caso che praticamente lo scudetto dello scorso anno lo perdemmo dopo due sconfitte con Roma e Juve e ora invece abbiamo vinto entrambe le sfide?

Dopo una domenica interlocutoria, arriviamo al secondo corso e ricorso storico: anticipo del sabato, siamo a Firenze, lo snodo decisivo, proprio come lo scorso anno. I nostri sfoderano una prestazione esaltante che sembra doverci assicurare tre punti preziosissimi, ma con Batistuta non si è mai tranquilli: al 4° minuto di recupero, con una sua punizione magistrale i Viola pareggiano e danno il via libera alla Juve che vola a più cinque, strapazzando l’Inter. È finita! Stavolta davvero ci siamo illusi, ma poi neanche tanto: io, almeno, non ci ho mai creduto!

Decisamente gli sconvolgimenti dello scorso anno a qualcosa sono serviti. È vero che mentre la Fiorentina pareggia ho una violenta crisi gastroenterica che sconvolge la mia passeggiata con Alessandra per via Ojetti, ma è niente rispetto a quello che mi sarebbe successo in passato. Forse davvero sono guarito. O forse sono cresciuto?

O semplicemente, a quattro giornate dalla fine, con cinque punti di distacco, neanche il più inguaribile ottimista darebbe una benché minima speranza alla Lazio. La domenica successiva, la Juve, seppur fortunosamente, doma proprio la Fiorentina; vinciamo anche noi e il distacco rimane inalterato. Siamo a meno tre dal traguardo: Juve e Lazio hanno due partite facili, contro Venezia e Verona. Sono talmente convinto sia su come andrà a finire, sia sull’inutilità di un’eventuale vittoria, che preferisco una gita fuori porta allo stadio. Ma mentre noi vinciamo facilmente, la Juve naufraga a Verona in maniera clamorosa: campionato riaperto?

Due punti non sono tanti, anche se mancano solo due partite alla fine. La Juve è cotta, o semplicemente si è concessa una pausa, forte del vantaggio accumulato? Domenica 7 maggio, penultima di campionato: noi a Bologna, loro in casa con il Parma. Non sono partite facili, noi dobbiamo vincere per forza e sperare nel miracolo. Ma il miracolo non arriva. Anzi. Mentre noi vinciamo a Bologna, l’arbitro di Juve-Parma, a un minuto dalla fine, annulla ai gialloblu un goal regolarissimo che avrebbe sancito il pareggio e il conseguente aggancio al vertice.

Stavolta però la cosa è talmente grossa che si scatena il finimondo. La gente è inviperita, indignata, nauseata: tra l’altro, i dirigenti juventini, invece di ammettere, come avrebbero potuto e dovuto fare, di aver avuto un inaspettato regalo (quante volte succede nel calcio come nella vita?), si impegnano in improbabili difese dell‘operato dell’arbitro, come se si sentissero in dovere di difendere un loro impiegato!

Neanche questo, però, riesce a scuotermi più di tanto. Non so perché, ma io non riesco a indignarmi, né ad arrabbiarmi oltre un certo livello. Non sarò diventato fatalista? Altro che adulto, altro che guarito: questo è puro e semplice fatalismo! Resa di fronte alla realtà. Continuo a non credere nei complotti (e forse sono rimasto l’unico). Continuo a credere nella buona fede degli arbitri (e qui sicuramente sono rimasto l’unico). E poi, se non pareggiavamo all’ultimo minuto con la Fiorentina, a quest’ora avremmo due punti in più: come l’anno scorso, nei momenti decisivi non siamo stati fortunati. Però è inutile recriminare o ipotizzare chissà quali trame segrete. Ci dice male, siamo iellati, forse siamo semplicemente della Lazio!

Domenica 14 maggio. Ultima giornata. Come l’anno scorso, lo scudetto si decide a Perugia. Peggio dell’anno scorso: allora avevamo un solo punto in meno della prima, ora ne abbiamo due. Molto peggio dell’anno scorso: se allora il Perugia era ancora, seppur marginalmente, coinvolto nella lotta per non retrocedere, quest’anno è già salvo e senza obiettivi. Che interesse ha a impegnarsi alla morte per fermare la Juve? Andiamo allo stadio: più per abitudine che altro. Sono previsti disordini, perché la gente non ha ancora sbollito la rabbia dopo il goal annullato al Parma la domenica precedente. Io quasi non vorrei andare, ma Gabriele insiste. E andiamo! Beviamo fino in fondo dall’amaro calice!

Di fronte abbiamo la Reggina, un’esordiente della serie A che ha vinto il suo campionato salvandosi con una giornata di anticipo. Dopo una fase di stallo, in cui mi aspetto da un momento all’altro che il tabellone luminoso dello stadio comunichi il goal della Juve a Perugia, l’arbitro fischia un dubbio rigore a nostro favore. Uno a zero. La partita continua in modo stanco, quasi al rallentatore: anche in campo sono più impegnati ad aspettare notizie da Perugia, che a giocare. Passano pochi minuti e l’arbitro concede un altro rigore a nostro favore, anche questo abbastanza dubbio. Evidentemente, dopo i tanti torti compiuti, anche gli arbitri hanno la coscienza sporca e vogliono farsi perdonare qualcosa: in più di vent’anni di stadio, a memoria mia, mai la Lazio ha avuto a favore due rigori di questo genere. Ci stanno anche prendendo in giro! Così potranno dire: “Che vi lamentate! Lo vedete? Avete anche avuto due rigori a favore!”. La sensazione dell’inutilità di tutto ciò diventa sempre più forte.

Vorrei andare via, non vedo l’ora che finisca. Che finisca questa partita inutile, che finisca questo strano campionato. Intanto finisce il primo tempo e da Perugia nessuna notizia; anzi, la radio dice che continua a piovere in maniera esagerata: il campo è diventato un vero e proprio acquitrino. Guardo in su: non sarà proprio una giornata fantastica, c’è un po’ di foschia estiva, ma nuvole non ce ne sono. Per fare in modo che le partite siano quanto più sincronizzate fra loro, il nostro secondo tempo non comincia finché non inizia anche la partita di Perugia. Passano i minuti, i giocatori sono in campo che palleggiano e fanno il torello, tanto per non raffreddarsi del tutto. Dalla radio giungono notizie allarmanti: se continua così, la partita andrà rinviata, il campo è completamente allagato. Continuo a guardare il cielo: neanche una nuvola all’orizzonte.

Dopo una mezz’oretta passata così, a guardarsi in giro, in attesa che qualcuno decida qualcosa, la partita ricomincia, ma davvero a nessuno sembra importare: siamo tutti mentalmente proiettati a Perugia. Ecco qui, la solita fortuna bianconera: la Juve non è riuscita a segnare per tutto il primo tempo, ma se l’arbitro decide per la sospensione, la partita dovrà essere rigiocata dal primo minuto. Inaspettatamente, però, a Perugia smette di piovere e la partita può ricominciare. E mentre da noi la partita sta finendo, io cerco di chiamare Ale con il cellulare, per avvisarla che tarderò a rientrare a casa. Ovviamente non riesco a prendere la linea, ma mentre sto lì componendo e ricomponendo il numero, un urlo devastante sconquassa l’Olimpico: il Perugia è passato in vantaggio!

Non è possibile: guardo Gabriele che in quel momento si è alzato per sgranchirsi le gambe. Lui mi guarda: non è possibile. Guardo Enrico che sta urlando mentre abbraccia un vicino occasionale: non è possibile. La gente grida, salta, sembrano tutti impazziti. Io sono gelato. Fermi! Zitti! Cosa esultate? Tanto ora la Juve si sveglia e gliene fa quattro! È inutile che vi agitiate.

Ma intanto fermiamo il tempo: per i prossimi tre quarti d’ora che mancano alla fine della partita di Perugia, Sandro rimarrà immobile in piedi, così com’era al momento del goal, io rimarrò con il mio cellulare in mano ripetendo all’infinito il numero di casa, Fra’ abbracciato al vicino. Tutto deve rimanere com’era: neanche una virgola deve cambiare.

E aspettiamo. La nostra partita è finita. C’è stata anche una mini invasione di campo, ma ormai la partita vera si gioca a centocinquanta chilometri di distanza. E noi aspettiamo. Gabriele in piedi, io con il cellulare in mano, Enrico attaccato al vicino che forse comincia a sospettare strane tendenze sessuali di mio fratello, per nulla intenzionato a mollarlo. Aspettiamo così…

La gente si gasa ogni minuto che passa: urla, salta, applaude, “Campioni! Campioni!”. Zitti, zitti, non fiatate! Guardo Gabriele, guardo Enrico: non è possibile.

“Quanto manca?”

“Trentacinque minuti”.

Un’eternità. La Juve se lo può ancora divorare questo piccolo Perugia. Sicuramente… Ma state un po’ zitti! Improvvisamente mi sale un odio profondo per tutti quelli che mi stanno accanto, potrei fare una strage, è inutile che esultiate! Destino infingardo, perché? Perché ci illudi in questo modo? Perché?

“Quanto manca?”

“Mezz’ora.”

“Ma a Perugia che sta succedendo?”

Silenzio. Gli occhi cercano gli altri occhi di quelli che hanno la radio. Non serve chiedere, non serve che dicano nulla. Si crea una specie di telepatia. Ogni minimo sussulto dei possessori di radio è un attentato alle nostre coronarie. Io continuo a massacrare il cellulare, Gabriele continua a stare in piedi con una faccia inespressiva, Enrico con il braccio intorno al collo del sempre più perplesso vicino ha tanta di quella elettricità in corpo che accenderebbe un’alogena da 220. L’altoparlante invita alla calma. “Stiamo cercando di metterci in contatto con il campo di Perugia per trasmettere le immagini della partita. Restate ai vostri posti!”.

Ma intanto metà dello stadio si è ormai riversata in campo e tutti sono lontani con la mente, attendendo la fine della partita. A Perugia un sussulto della Juve: Inzaghi ha la palla del pareggio… Non lo sento, ma lo leggo negli occhi dell’uomo con la radio. Spero dentro di me che questo collegamento non si faccia mai: meglio non sapere, meglio non vedere, meglio non sentire. Aspettiamo. Manca solo un quarto d’ora. Certo, se la Juve non segna subito, forse… No! Scaccio via questo pensiero: è inutile farsi illusioni. Aspettiamo.

Riesco a prendere la linea giusto in tempo per beccarmi qualche insulto da Alessandra: “Hai visto? Ce l’avete fatta! Una volta tanto la tua scaramanzia ha funzionato! Avevi detto che oramai era tutto finito!” Ma che dice? Quale scaramanzia? Mi sta prendendo in giro?

“Quanto manca?”

“Cinque minuti.”

Possono ancora pareggiare. E magari nel tempo di recupero segnano un’altra volta e buonanotte ai suonatori. Improvvisamente, dagli altoparlanti dello stadio si sente la voce del telecronista di Perugia: non sono riusciti a trasmettere le immagini, ma hanno pensato bene di stabilire il contatto radio. “Tre minuti più recupero. La Lazio è a un passo dal secondo scudetto: forcing finale della Juve che si riversa nella metà campo del Perugia”.

E a quel punto io sono morto. Non so come sia successo: forse il cuore non ha retto. Sì, decisamente dev’essere stato il cuore. Continuo a tenere in mano il cellulare, Gabriele è sempre lì, in piedi come una statua di sale: probabilmente è morto anche lui, perché sono almeno dieci minuti che non fiata. Enrico no. Non è morto, ha smesso di abbracciare il vicino, ma sta piangendo: vedo chiaramente le lacrime che lentamente scendono sul suo viso. La voce continua la telecronaca, ma io non sono più lì. Non sento più freddo, né caldo. Ho il telefono in mano, ma non riesco neanche più a comporre la sequenza di numeri. Ho perso la cognizione del tempo e dello spazio. Dove mi trovo? Perché c’è tutto questo silenzio? Il tempo, che aveva rallentato fino a far diventare quei tre quarti d’ora più lunghi di un secolo, si è definitivamente fermato. La terra non gira più. Mi vedo seduto in mezzo alla gente: oramai mi sono separato dal corpo e vago nell’aria come puro spirito. Che strano! Non pensavo che morire fosse così!

“Sono le 18.04 del 14 maggio del 2000: la Lazio è Campione d’Italia”

L’urlo di Enrico, che mi prende e mi travolge in un abbraccio travolgente, mi riporta sulla terra. “Abbiamo vinto, abbiamo vinto, abbiamo vinto!” Quello che è successo dopo stento un po’ a ricordarlo. Abbiamo faticato a rianimare Gabriele: è stata dura, ho quasi pensato che ce lo fossimo giocati per sempre, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. È tornato fra noi! Siamo scesi in campo: ci siamo tuffati in quel prato verde sommersi da migliaia di persone completamente ubriache di gioia. C’era la necessità di toccare la terra, di capire che quello non era un sogno, che non c’eravamo inventati tutto, che non eravamo vittime di un’allucinazione collettiva.

Ma no, era tutto vero, eravamo Campioni d’Italia, anche se sembrava tutto così assurdo. Non ero preparato. Ma perché non sono mai preparato a quello che succede? Lo scorso anno ero sicuro che avremmo vinto e ho dovuto ricacciarmi in gola la gioia; quest’anno ero arcisicuro che avremmo fallito e invece…Non ero pronto! Volevo urlare, impazzire, esplodere tutta la tensione accumulata in più di venticinque anni, ma non ce l’ho fatta. Sono imploso! Ancora non riesco a capire bene né come possa essere successo, né cosa sia realmente successo.

Sono sicuro che qualcosa di strano sia accaduto, di anomalo, di assurdo. A Perugia un diluvio universale che inonda il campo, lavando via tutte le polemiche di questo campionato avvelenato, tagliando le gambe alla Juve, esaltando i padroni di casa. In Vaticano viene svelato il terzo segreto di Fatima, dopo decenni di silenzio. Sì, è fuor di dubbio che in questo 14 maggio sia successo qualcosa al di fuori dei canoni della normalità. Spero che ne vinceremo altri di campionati, ma sarà difficile ripetere quello che è accaduto in questa pazza domenica.

La morale della favola non c’è. Potreste sentir dire che ci siamo meritati di vincere questo campionato come ci meritammo di perdere quello dello scorso anno: potreste sentir dire che il calcio premia chi si impegna, chi ci crede fino alla fine, chi non molla mai. Che è stato giusto vincere e vincere così. E potrete sentirlo perché alla fine chi vince ha ragione, ha sempre ragione e se non ce l’ha se la crea. Solo chi vince merita di farlo. Balle! Non meritavamo di perdere l’anno scorso, come forse non meritavamo di vincere quest’anno. O forse è giusto così. Perché probabilmente è il nostro concetto di “merito” che va rivisto. Come ho già detto, il calcio, come la vita, non è una bilancia. Spesso castiga gli errori, spesso premia gli sforzi: ma questo non avviene in modo automatico, come quando mettiamo una monetina in un distributore di bibite fredde. Forse per questo è così imprevedibile. Forse per questo è così bello.

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