Liberazione

Non sei mica fascista?” – mi disse. Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai. “Lo siamo tutti, care Cate, – dissi piano. – Se non lo fossimo, dovremmo rivoltarci, tirare bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s’accontenta è già un fascista“. (Cesare Pavese, “La casa in collina”).

Il 19 aprile e le storie d’amore

E’ tornato anche il 19 aprile. L’inizio della fine della storia. E allora mi sono chiesto: ma dove vanno a finire le storie d’amore? Ogni storia ha un inizio ed una fine, quelle che durano una vita e quelle solo di una notte, quelle vissute sulla pelle e quelle solo raccontate nei libri. Sarebbe bello avere un album dove raccoglierle tutte, per poterle sfogliare come fossero fotografie o quadri di una galleria. Perché piccole o grandi che siano, le storie d’amore sono come pezzi di un puzzle che vanno a comporre un insieme, l’insieme delle cose più importanti, quelle che davvero fanno la differenza. Piccole o grandi nessuna di esse andrebbe dimenticata, non importa come o quando siano terminate, ci sono state, hanno acceso una luce che ha brillato, che ha scaldato, che ha dato senso.

E quindi, inevitabilmente, in questo 19 aprile, mi torna in mente la vostra storia, quella di Maria e Pietro, la storia di due ragazzi degli anni 50, dell’Italia del boom (loro sì boomer, altroché noi!), della 600, di Lascia o Raddoppia, delle minigonne e delle canzoni di Mina. Il giorno delle nozze Maria non voleva l’abito lungo perché a 32 anni si sentiva vecchia e Pietro di anni ne aveva 37, pensava di non sposarsi più. La loro storia è stato un frutto maturo, per questo forse ha dato così tanti frutti. Una storia piena, fatta di alti e bassi come tutte le storie, ma ancora oggi luminosa. La loro storia è come un film di cui conosco a memoria i passaggi e le battute, ma che ogni volta adoro rivedere.

Nelle storie d’amore certo sono importanti i momenti forti, l’eccitazione dell’inizio, quando tutto è nuovo, quando tutto ti sorprende perché tutto è ancora da scrivere. Oppure il finale, dolce e struggete a volte triste. Ma in realtà tra la fine e l’inizio, tra la partenza e il traguardo c’è tutto il resto. E tutto il resto è il giorno dopo giorno, il costruire silenziosamente, sapendo rinunciare alla perfezione, come mi ha ricordato una mia saggia amica qualche tempo fa. Ed è quello che fa la differenza.

Tu, amor mio, chi ti ha amato in questo mondo, solo io. Io invece io, sono stata troppo amata. Ma noi due, amor mio, che siamo poco insieme, siamo un pò di più. Tu, tu sei tu, più qualcosa che ti arriva da lassù. Amor mio, per amico c’è rimasto solo Dio. Ma Lui lo sa e sorride, Lui ci guarda e sorride. Amor mio
basto io, grandi braccia grandi mani avrò per te, stretto al mio seno freddo non avrai, no tu non tremerai, non tremerai. Amor mio, basto io, no tu non tremerai al riparo del mio amore.

Una pietra nel cuore

La morte dell’innocente è uno scandalo. Non ci sono discussioni, non ci sono spiegazioni, non ci sono consolazioni. La morte dell’innocente è un cazzotto in piena faccia. E la fede nella resurrezione aiuta a raggiungere risposte, solo nel momento in cui sei disposto ad esasperare le domande. Senza sconti, senza scorciatoie, senza frasi consolatorie. Una bara bianca ci lascia così. Confusi, stanchi, incapaci di essere d’aiuto, impotenti ed arrabbiati. E non può non essere così. Con l’amaro in bocca che non va via.

Come già scrivevo altrove su questo blog, il Principale lassù ce ne dovrà di risposte. Ah, se ce ne dovrà! San Paolo scrive che non saranno la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada a separarci da Lui. Voglio crederci, ma certo ci faranno molto male, ci feriranno nel profondo, ci toccheranno fino alle ossa e niente e nessuno potrà darci conforto. Del resto anche Lui sul Golgota ha vissuto la croce sentendosi abbandonato. Questo forse può non bastare come risposta, ma almeno possiamo dire di aver condiviso la domanda.

E dopo il Golgota il giorno dopo rimaniamo anche noi con una pietra nel cuore, una pietra troppo grande, che da soli non riusciremo mai a spostare. Le donne si incamminano, chiedendosi chi le aiuterà, non sanno come fare, ma vanno lo stesso, sperando l’insperabile. E forse è proprio questo quello che siamo chiamati a fare. Mettersi in cammino, sperando di avere qualcuno che voglia condividere con noi questo percorso. Con tante domande, nessuna risposta e un’illogica speranza che qualcuno rotolerà quella pietra per noi.

Per ogni notte buia che, il cuore oscurerà, poi ci sarà un’alba nuova in più…Amici miei, venite qui, cantate insieme a me. Qualcuno c’è, che sta lassù e non ci lascerà mai soli.

Peccati di armocromia

Non avrei voluto tornare sugli eventi calcistici recenti, anche perché perdere un derby non fa mai piacere. Qui nella capitale i risultati sportivi scarseggiano e quindi il dominio cittadino resta spesso l’unica soddisfazione che le nostre due squadre riescono a darci. Di conseguenza il peso di una sconfitta o di una vittoria è esageratamente maggiore rispetto ad altre città, dove al contrario i traguardi sono più alti e gli obiettivi più elevati.

Non a caso dico esageratamente perché poi insieme al sano sfottò, ormai da anni, attorno ai derby si concentrano tutte le peggiori situazioni legate al calcio: episodi di razzismo, ma soprattutto di violenza che sono incomprensibili ed ingiustificabili sotto tutti i punti di vista. Quale romanista non ha un amico laziale e viceversa? Nulla può giustificare la violenza, figuriamoci per una gara di calcio. Calcio che, se ti fermi per un attimo a pensare razionalmente allo sproposito di soldi che fa girare, ai privilegi che garantisce, alle sperequazioni su cui si basa, al Sistema (nella peggiore accezione del termine) che lo muove, bisognerebbe chiedersi come faccia a muovere ancora l’interesse di tanta gente.

Ma proprio la rivalità cittadina è una delle poche cose che continua a farmi appassionare a questo sport, che ormai tutto è tranne sport. Il gusto di confrontarsi con l’amico di sempre, gli scherzi e le prese in giro, restano davvero fra le poche che danno senso ad una cosa che in realtà non ce l’ha. E quindi veniamo a quello che è successo sabato dopo la partita.

L’autore del goal della Roma, onesto gregario che diventa eroe per un giorno, festeggia a fine partita sventolando una bandiera datagli dai suoi tifosi, sotto la curva festante. Una bandiera con i colori dei rivali e l’effige di un topo. Sventola, sventola, qualcuno gli avrà detto che forse non era proprio la cosa più elegante da fare e quindi nella successiva intervista, meglio di uno Scajola qualsiasi, si è subito prodigato a dire che lui non sapeva, non voleva, nessuna offesa, me l’hanno data i tifosi, non avevo visto cos’era.

Ripeto, lo sfottò è il condimento essenziale dei derby. Ci sta tutto: l’ironia, la presa in giro, persino le offese (magari eviterei di tirare in ballo i morti, ma poi ognuno si regoli come vuole). E’ lo stesso discorso della satira: il politicamente corretto riserviamolo alle cose serie. Facciamoci una risata sopra, oggi sei incudine, domani sarai martello. Quindi va bene la bandiera o quello che ti pare. Avrei evitato le scuse, perché non dovute, non volute, non apprezzate e autentiche come una moneta da tre euro.

In quella rivalità di cui sopra ognuno concentra nella squadra avversaria tutto ciò che ritiene negativo, tutto quello che non gli piace: voi coatti, voi burini, noi nati prima, noi unici veri romani, e potrei continuare per ore. La semplificazione del noi e voi, dei buoni e cattivi è automatica in una realtà con due facce contrapposte ed insieme inseparabili come questa. Poi, ripeto, fra i miei migliori amici, fin da bambino, ci sono romanisti e a parte vedere il derby insieme, non rinuncerei mai a stare insieme una serata con loro.

Però se nella credenza vedo due bicchieri giallo e rosso vicini (tipo quelli di plastica di Ikea), io li devo separare. O quando ci sono i panni stesi, se ci sono due mollette o qualsiasi altra cosa che metta insieme quei due colori, via via per carità. E’ una questione estetica, che tracima nell’etica: quell’accostamento per me è raccapricciante, come il gesso sulla lavagna, il sale nel caffè, una scoreggia in ascensore. Quindi quello che mi domando è come vi viene di sventolare una bandiera con i colori di “quegli altri”? Non vi fanno male gli occhi? Non avete un senso di repulsione, di fastidio a livello fisico? O forse, sotto sotto, anche se non lo ammettereste mai, riconoscete che i nostri colori, i colori del cielo e del mare, sono i più belli che esistano?

Ma Gesù che cristiano sarebbe?

Sarà questo tempo di Pasqua, sarà l’ennesimo Jesus Christ Supestar, o forse uno degli ultimi post della mia amica Vitty, mi è venuto questo dubbio: se Gesù tornasse oggi sulla terra, che cristiano sarebbe? Penso difficilmente sarebbe un ortodosso come Putin o un evangelico come Trump. Ma neanche un cattolico come lo era Berlusconi! Certo lui era ebreo, ma non penso come Netanyahu. Il dubbio resta, anzi, cresce: siamo sicuri che tornasse oggi sarebbe cristiano?

Non voglio disquisire qui sulla genuinità della fede dei personaggi che ho nominato. La fede di Putin, di Trump o del compianto Silvio sono affari loro. Il dubbio che mi è venuto è più radicale. Come molto radicale era il messaggio di Gesù che i Vangeli ci raccontano. Gesù che frequentava gente di dubbio affare, che non rispettava i precetti: Gesù che affidava totalmente la sua vita al Padre, che diceva di vivere come gli uccelli del cielo e i gigli nei campi, senza preoccuparsi del domani, che non temeva la morte, che non reagiva ad offese o insulti.

Altro che Putin e compagni bella. Chi oggi (io per primo) che si professa cristiano, vive davvero così? Chi è che riesce a vivere senza preoccupazioni? Senza aver paura del domani, in questa vita e dopo di essa? E non parliamo del non reagire ad insulti o offese. Chi riesce a vivere affidandosi in modo assoluto e totale al Padre? Perché quella è la questione di fondo. Dal suo annuncio abbiamo creato una religione, con norme precetti, regole. Abbiamo creato più di una religione, a dire il vero, ma chi riesce a seguirlo veramente nella sua fede?

D’altra parte un dubbio era venuto per primo anche a lui: “Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra? (Lc 18,8)

Le spinte gentili e l’importanza di fare centro

In mezzo al traffico del lunedì mattina, ascoltavo per radio l’importanza dei cosiddetti “Nudge”, che potremmo tradurre in italiano come “spinte gentili”. Interventi che tendono a cambiare il comportamento delle persone per migliorare il loro benessere o il benessere sociale senza alterare le loro opzioni di scelta. I nudge nascono dalla constatazione che, sebbene razionalmente dovremmo scegliere l’opzione preferita tra quelle disponibili, in realtà le nostre decisioni sono spesso frutto di pulsioni emotive e altri fattori che ci allontanano dalla scelta migliore.

Perdere peso, smettere di fumare, fare sport o utilizzare i mezzi pubblici. Tutti buoni propositi che si scontrano poi con la realtà delle nostre pigrizie o cattive abitudini. Purtroppo o per fortuna siamo esseri sociali, influenzabili nel bene come nel male. i Nudge sono spinte positive che i decisori possono mettere in campo per aiutarci a fare e farci del bene. Sfruttando ad esempio la nostra stessa pigrizia, il tendere a non cambiare le situazioni di fatto. Oltre l’80% delle persone si dichiara favorevole alla donazione di organi: ma quando viene chiesto di effettuare la scelta per diventare donatori la percentuale precipita. In alcuni Paesi la “spinta gentile” è stata fatta invertendo il corso delle cose, per cui bisogna scegliere esplicitamente di non essere donatori.

Ma ci sono molti esempi di questo tipo di influenze. Ad esempio sfruttando l’emulazione con gli altri, inserendo premi in base ai risultati, ma anche l’innato spirito di competizione. In quest’ambito raccontavano un classico esempio di spinta gentile messo in campo nell’areoporto di Amsterdam. I responsabili hanno fatto applicare delle decalcomanie negli orinatoi maschili con l’immagine di una mosca. La pulizia dei bagni è aumentata di oltre l’80% perché noi maschietti abbiamo in automatico la tendenza a “prendere la mira”.

Però mi chiedo, possibile che serva un bersaglio? Non ci arriviamo da soli che bisognerebbe fare la pipì dentro? Ma in generale, la vera domanda è, possibile che siamo così stupidi? O peggio, possibile che basta così poco per manipolarci? In ogni caso, se avete in casa la stessa difficoltà, niente paura. Su Amazon con 6,95 almeno per un po’ risolvete il problema!

Compagna luna

Agli inizi di marzo è morta Barbara Balzerani, leader storica della colonna romana delle Brigate Rosse, coinvolta nel rapimento Moro e in altri fatti di sangue di quel periodo, fu una delle ultime ad essere catturata. Figura controversa, come molti brigatisti, pur non essendosi mai pentita, né dissociata dal terrorismo, dichiarò conclusa quell’epoca e prese le distanze dai fatti di sangue successivi compiuti dalle cosiddette nuove Brigate Rosse. Scontata la pena aveva cominciato un’intensa attività di scrittrice, con 8 libri al suo attivo.

Ho vissuto quel periodo nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, ricordo bene l’aria avvelenata che si respirava, le tensioni, gli scontri, forse per quello sono sempre stato molto interessato a quelle vicende, sia per i tanti lati oscuri che ancora ci sono, sia perché fanno parte della nostra storia e nel bene o nel male ne hanno determinato l’evoluzione che ci ha portato alla situazione attuale.

Così mi è venuta voglia di leggere il suo libro più famoso, Compagna Luna, una sorta di autobiografia nella quale racconta la sua storia, soffermandosi proprio sulle scelte più importanti e più tragiche di quegli anni. Una lettura non facile, scritta a volte in terza persona, a volte in prima, a volte con un linguaggio poetico, spesso, ahimè, con quella oscura verbosità tipica di quegli anni e di quegli ambienti: mi sembrava quasi di essere tornato fra le aule di villa Mirafiori, in qualcuna di quelle innumerevoli assemblee dei gruppi Troskisti che ancora nei tardi anni 80 erano presenti nella mia facoltà di Filosofia (la stessa in cui si laureò la Balzerani).

Un libro che purtroppo non aggiunge e non chiarisce nulla di quel periodo. Da una parte sottolinea le ingiustizie sociali, la povertà, le disparità economiche, dall’altra l’aspirazione ad un mondo migliore, l’idea di portare avanti una guerra di liberazione contro lo Stato, con la pretesa di proseguire in qualche modo la lotta portata avanti dalla Resistenza. Da qui la “necessità” di prendere le armi, l’inevitabilità di uccidere i nemici. Tra le righe si legge l’amarezza della sconfitta ed il rammarico per le vite spezzate. Anche nei confronti di Moro, emerge un qualche rimpianto, ma la sua tragica fine nella sua ricostruzione sembra quasi un fatto ineluttabile, una cosa già scritta dagli eventi, soprattutto dal non voler trattare da parte dello Stato. E in ogni caso non c’è traccia di dubbio: furono sconfitti, ma quella guerra era giusta e andava fatta. Ma perché?

Una volta di più, rimanendo ai ricordi universitari, devo dare ragione al mio professore di Filosofia del linguaggio, il compianto Tullio De Mauro: il linguaggio influenza il pensiero, lo determina. Se non riusciamo ad esprimere è perché non abbiamo le idee chiare. E la Compagna Luna, così come molti dei brigatisti di cui mi è capitato di leggere, non ce le aveva le idee chiare o comunque non è stata capace di esprimerle. Ed è un peccato, uno spreco, un’occasione mancata. Perché quell’entusiasmo, quella rabbia verso le ingiustizie, quella voglia di cambiare il mondo, la mia generazione non ce l’ha mai avuta così forte, così trascinante. Anzi, probabilmente proprio la deriva autodistruttiva e gli esiti catastrofici di quelle aspirazioni, hanno portato al disincanto e al disimpegno delle generazioni successive.

Se quell’entusiasmo fosse stato indirizzato diversamente, se si fosse incanalato per sentieri più chiari, per obiettivi più raggiungibili chissà come sarebbe andata la storia. Mi resta la sensazione che qualcuno fece di tutto invece perché le cose andassero esattamente così come sono andate. Così come mi rimane la convinzione che per quanto alti possano essere gli obiettivi, per quanto importanti le finalità, ci sono buone ragioni per dare la propria vita per raggiungerli, molte meno per toglierla a qualcun altro.

Compagno di scuola, compagno di niente, ti sei salvato dal fumo delle barricate? Compagno di scuola, compagno per niente, ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?

Metasemantica Sarriana

E così anche il Comandante Sarri ha dovuto archipattarsi alla situazione. Proprio lui che affistellava gli altri con un eloquio sdareddo, che non lasciava mai sostiri o malgiurisdi, si è dovuto mastrappare venendo meno ai grandi sogni. I giocatori da parte loro si sono subito affistellati a sdolgiornare la loro posizione, forse scantesi che un domani qualcuno potesse asdordinare proprio a loro l’accaduto. E in parte è così. Così come in parte la responsabilità è pure nell’ostigaria che Sarri ha sempre messo nelle scelte. Ma lui è malverscio, si sapeva, pensare di ordinizzarlo era pura pancrasia!

In ogni caso sappiamo tutti chi è il vero e quasi unico distorgabile di quanto successo: l’immanordabile Lotito, che passa pure per concleso, come se non fosse contento di risparmiare un po di sderenghi e ricominciare con qualche altro maltorvisato. Ora si parla di Tudor. Certo, visto mai si scegliesse un caripante col DNA laziale!

Noi comunque lo accoglieremo con la solita sdarenga bentornista e l’entropismo che non ci manca, perché in fin dei conti, hai voglia a dire che è solo un torgio e che le cose sdruse sono altre, ma cos’è che ci fa sdremare il cuore, cos’è che allonia o sdirupa le nostre giornate, se non le sorti della nostra beneamata? E quindi, che sarà sarà, in alto i cuori fratelli biancocelesti, che prima o poi l’astragante ci sorriderà.

Lo chiederemo agli alberi

“Lo chiederemo agli alberi come restare immobili tra temporali e fulmini, invincibili” (S. Cristicchi)

Il mio amico Nietzsche, quando ancora non era partito per altri lidi, in uno dei rari momenti in cui ha usato un linguaggio semplice, ha scritto che fondamentalmente il suo pensiero poteva ridursi a questo: smettere di umanizzare la natura e tornare a naturalizzare l’uomo. In estrema sintesi il sovvertimento di tutti i valori, l’eterno ritorno, la volontà di potenza, quasi tutto il suo pensiero poteva sintetizzarsi in questo “ritorno alla natura”.

Il fatto è che la natura riesce spesso a sorprenderci. E’ matrigna e crudele quando osserviamo la lotta per la sopravvivenza che emargina gli individui malati, che lascia per strada chi non ce la fa e allo stesso tempo sembra pietosa e caritatevole nel sacrificio che certi individui compiono per il gruppo di cui fanno parte. Lo stesso istinto materno può essere spietato nell’abbandonare dei cuccioli più deboli e in altre circostanze pieno d’amore fino al proprio sacrificio.

D’altra parte noi uomini non siamo certo esempi di coerenza assoluta, anzi il più delle volte siamo pieni di contraddizioni. Perché allora pretende coerenza dalla realtà che ci circonda? Martiri e carnefici, eroi e codardi, avari e generosi, quante volte ci troviamo spiazzati di fronte alle incongruenze altrui (ma anche nostre!). Per non parlare delle conseguenze accidentali, che portano le migliori intenzioni a determinare disastri involontari (anche se non meno rovinosi). Ci preoccupiamo, vorremmo stare vicino e invece soffochiamo. Vorremmo lasciare liberi e invece abbandoniamo nel momento della difficoltà. Presi dalle nostre vicende rischiamo di non vedere, di non ascoltare, di non capire.

Torniamo alla natura dunque? Qualche giorno fa una mia amica carissima, nonché assidua viaggiatrice ermeneutica, ha postato su FB un video straordinario (che purtroppo wordpress non mi permette di condividere, quindi fidatevi). Un coltivatore, presumibilmente emiliano dall’accento, racconta che nel suo campo di alberi di pero sta succedendo una cosa assolutamente sorprendente: ci sono degli alberi senza più radici, staccati dal terreno, che quindi in teoria dovrebbero essere morti, che invece continuano ad essere vivi e vegeti, con tanto di nuovi frutti, perché si sono avvinghiati e quindi innestati su quelli vicino. Vicini che non soffrono affatto di questa “intrusione”, anzi ne creano i presupposti. Non so dirvi quanto sia “normale” questo fatto, (dall’enfasi con la quale lo raccontava forse non lo è), ma in ogni caso l’ho trovata una metafora bellissima.

Qualche tempo fa vi avevo raccontato il dilemma del porcospino, per parlare della giusta distanza che andiamo ricercando fra di noi. Forse davvero dovremmo imparare dagli alberi. Come si fa a donare senza ragione, come si fa a chiedere senza pretendere, come si fa a dare vita senza perdere nulla e come si fa a restare in vita senza essere più attaccati alla terra.

Ultima chiamata

Quando anni fa i miei figli parteciparono (non per loro iniziativa personale, ma semplicemente per essercisi trovati) alle occupazioni scolastiche mi ricordo che provai a mettermi in ascolto delle ragioni delle proteste studentesche. Ne dedussi che in estrema sintesi avevano la coscienza politica di un koala su un eucalipto. Sono cresciuti, ma il loro impegno politico continua ad essere pari a zero. Mi conforta il fatto che sono invece molto interessati ai temi legati ai diritti e su questi hanno un’intransigenza tipica dell’età giovanile. Sulla politica però continuano ad avere una distanza siderale. Non concepiscono proprio il collegamento, né lo vogliono cercare, anzi sono infastiditi dall’idea che la politica possa entrare nella sfera dei diritti individuali.

Non credo che sia una prerogativa dei miei due giovin virgulti, anzi penso sia un discorso molto generalizzato, basta vedere le percentuali di voto e le suddivisioni che emergono dalle analisi di tutte le ultime votazioni. Discorsi sentiti mille volte. Poi succede che per una volta che il contesto internazionale li porta ad uscire dal loro guscio, a prendere una posizione, a scendere in piazza, qualcuno si becca una manganellata dal poliziotto di turno. D’altra parte tutti a rimpiangere i grandi ideali del passato, i sogni di un mondo migliore, l’impegno politico attivo, ma me li ricordo solo io gli scontri degli anni 70? I lacrimogeni, le cariche, i morti sulle strade?

Qualcuno potrà dirmi che quelle erano esagerazioni da combattere, che non sono necessariamente collegate con la passione politica. Può essere. Sta di fatto che paradossalmente dobbiamo riconoscere che ci voleva un governo di destra e autoritario per riavvicinare i giovani alla politica. Ed ora la questione potrebbe diventare decisiva: quando e se mai volessero passare dalla protesta alla proposta, chi sarà in grado di intercettare le loro istanze e i loro bisogni? Esiste qualcuno in grado di elaborare un progetto politico che li coinvolga? Perché questa potrebbe essere davvero l’ultima chiamata per la politica, per non perdere definitivamente il senso della sua stessa esistenza.