Sembra scontato, sembra banale, in fondo si ripete ogni anno e non c’è nulla di così straordinario. Si dormirà un’ora in meno, nei prossimi giorni sarà più dura svegliarsi, eppure, dite quello che volete, ma a me la luce del sole fino alle otto di sera, sembra sempre una piccola, grande meraviglia.
Many moons have risen and fallen long, long before youve came So which way is the wind blowin’ And what does your heart say? So follow, follow the sun And which way the wind blows When this day is done
Ci sono mode anche nelle parole. Desueto, ad esempio, è un aggettivo che non si usa più, non va di moda. E’ desueto, di nome e di fatto. Sostenibile invece va molto di moda. La moda sostenibile, l’energia sostenibile, l’economia sostenibile, lo sviluppo sostenibile. Che poi, ovviamente, quando qualcosa diventa così popolare, travalica, si moltiplica, diventando qualcosa di diverso da ciò che era inizialmente.
Cos’è sostenibile? Originariamente, qualcosa che si può sostenere, che si può “portare sopra” o anche sop-portare, senza fare troppo sforzo. Non necessariamente è una cosa che si porta piacevolmente: ci sono disturbi, fastidi, rotturedicoglioni sostenibili. E si differenziano proprio da quelli insostenibili, perché nonostante non siano proprio il massimo per noi, però ci si riesce a convivere.
Capite quanto siamo lontani dal senso comune che ha assunto il termine? Che nella sua forma sostantivata è diventata la panacea di tutti i mali. La sostenibilità sembra essere la meta ambita da tutti, la nuova America da scoprire e raggiungere con tutti i mezzi. Anzi, pardon, solo con quelli sostenibili. La sostenibilità è diventata sinonimo di lotta agli sprechi, energia pulita, ricircolo, crescita intelligente, opposto di tutto ciò che è invece esagerato, fuori controllo, eccessivo, smodato.
Dovremmo orientare tutta la nostra vita alla sostenibilità. Dovremmo lavorare, riposare, mangiare, divertirci in modo sostenibile. E allo stesso modo, dovremmo stancarci, annoiarci, arrabbiarci in modo sostenibile. Ma come si fa? Come si riesce, nel bene e nel male, a controllare le emozioni senza fargli oltrepassare la soglia di guardia? E poi, siamo sicuri che sarebbe un bene riuscirci? Ad esempio, si può amare, ci si può innamorare in modo sostenibile? E al contrario, non è proprio l’insostenibilità di certe situazioni negative che ci porta a reagire, a cambiare, a voltare pagina?
Insomma, non facciamo prendere troppo dalle mode, non anestetizziamo i sentimenti, perché un po’ come Venezia, la sostenibilità è bella, ma non ci vivrei.
Non sentite anche voi questo profumo di primavera? In quest’ultimo week end in realtà, in alcune parti d’Italia sembrava già estate, ma io resto umile e mi accontento del clima mite che fa spuntare i primi germogli sulla Capitale e invita di nuovo a prendere la bicicletta chiusa in cantina ormai da troppo tempo. Ma il bel tempo, almeno a me, non toglie certo la voglia di tuffarsi in un bel romanzo e quindi ecco a voi una raffica di consigli di lettura, rigorosamente non richiesti, ma comunque spero utili.
Cominciamo col botto, come si suol dire in queste occasioni. Un romanzo fra i più belli letti in questi ultimi anni, una storia molto particolare, raccontata in modo ancora più particolare, La breve favolosa vita di Oscar Wao di Junot Diaz. Protagonista un immigrato domenicano ciccione, sfigato, molto nerd, appassionato di fantasy e fumetti. E attorno a lui gli altri componenti della sua famiglia, attuali e passati. La storia si svolge tra il New Jersey e la Repubblica Domenicana, quest’ultima descritta soprattutto nel corso del 900, lungo la feroce dittatura di Trujillo Molina. Romanzo divertente e romantico, pieno di citazioni fumettistiche e fantasy, raccontato in un linguaggio mezzo inglese e mezzo spagnolo, tipico degli immigrati dominicani, che solo in parte può essere reso dalla traduzione (ma sono molto accurate le note al margine). Si ride e ci si commuove, soprattutto ci si innamora di Oscar e dei suoi familiari.
Il secondo consiglio riguarda un classico romanzo da epopea americana, con i suoi miti, le sue legende e le sue grandi contraddizioni. Come il vento di Geraldine Brooks si svolge in due epoche differenti: la prima ambientata nel 1850 racconta le gesta di un cavallo eccezionale, capostipite di una razza di campioni, quando le corse erano ancora quasi agli albori ed i primi ippodromi erano luoghi di aggregazione per tutte le fasce sociali. L’altra linea narrativa è dei giorni nostri e si intreccia alla prima in modo sempre più profondo. Al di là della trama, bella, appassionante, travolgente, il messaggio che c’è dietro è purtroppo molto amaro e riguarda la situazione razziale, ancora irrisolta dopo oltre 150 anni di storia.
E di questioni razziali parla anche il terzo ed ultimo romanzo, Non dimenticare chi sei di Yaa Gyasi. A partire da uno sperduto villaggio dell’Africa nel 1700 circa, due donne e la loro discendenza vengono raccontate come gli anelli di un’unica catena di eventi, fino ai giorni nostri. Con qualche similitudine a Radici, il romanzo da una prospettiva diversa al tema schiavitù, coinvolgendo in modo diretto anche alcune popolazioni africane: la differenza di fondo quindi non è fra bianche e neri, ma fra sfruttati e sfruttatori. La lunga rincorsa alla ricerca di un’identità perduta diventa così in realtà la costruzione di un’identità nuova, che assume in sé le caratteristiche passate, di tutti coloro che ci hanno preceduti, ma che si apre anche ad un qualcosa di diverso, perché appunto la storia ama ripetere gli stessi percorsi, ma in modi sempre sorprendentemente nuovi.
Ci mettemmo in viaggio verso un mondo migliore? In realtà alcuni di noi lo credevano davvero. Solo alcuni però, i sognatori, quelli che avevano più immaginazione. Tutti però fuggivamo dall’inferno. E quando ti lasci alle spalle l’inferno, non è detto che riesci già ad intravedere il paradiso. Fuggi perché hai nostalgia di ieri, hai la nausea dell’oggi e non vedi più un domani.
Qualcuno qui da voi ha detto che non si deve fuggire per senso di responsabilità verso il proprio Paese, ma questo non è più il mio Paese. L’hanno distrutto, cancellato, hanno messo al suo posto un fantoccio. E così volevano fare anche a noi. Hanno ucciso i nostri figli, violentato le nostre donne, distrutto i nostri progetti. Che altro potevamo fare? Abbiamo chiuso i nostri sogni e li abbiamo imbarcati su una nave, sperando nella clemenza del mare e degli uomini.
Ma gli altri uomini pensano di doversi difendere da noi, forse ci vedono come un rischio, come una possibile minaccia al loro benessere. Uomini nati dalla parte fortunata del mondo che in realtà non dovrebbero temere altro che loro stessi, non certo dei poveri diseredati come noi. Il pericolo ai loro privilegi ce l’hanno in casa e non lo sanno. Ma basterebbe poco, solidarietà, compassione, un piccolo aiuto e la nostra nave avrebbe toccato la riva, anzi forse non avrebbe mai avuto la necessità di salpare.
Qualcuno ha detto che partire è un po’ morire, ma noi lo sapevamo bene. Come sappiamo bene che morire non è la peggior cosa che possa capitare e in ogni caso, se questo è il rischio che si corre per inseguire i propri sogni, vorrà dire che non saremo morti invano.
Non è una novità, più o meno l’abbiamo sempre saputo, che quella che studiamo a scuola è la storia raccontata dai vincitori. Poi ci sono storiografie alternative che cercano di far emergere altre narrazioni: i nativi americani sterminati dall’avanzata degli europei, la strage silenziosa degli armeni, la verità dietro al colonialismo europeo in Africa. Ma anche a casa nostra, i filoborbonici che leggono la storia dell’unità d’Italia come una conquista del nord verso il sud, i nostalgici di Salò che difendono l’indifendibile.
Ormai da anni si è consolidata questa impostazione relativista della storiografia, che vuole mettere in luce punti di vista e quindi ricostruzioni diverse da quelle ufficiali. Ancora di più. Queste narrazioni diverse portano avanti una teoria della verità direi più drastica: non esiste un’unica verità, perché a seconda di come la racconti la realtà può diventare tutt’altra cosa rispetto a quella che credevi in un primo momento. Gli aggressori possono diventare liberatori, gli estremisti si confondo con i martiri, i migranti possono essere raccontati come invasori.
Ma se questo vale per la storia con la S maiuscola, quella che studiamo nei libri, vale anche per le storie più semplici, quelle che coinvolgono ognuno di noi personalmente e nell’interazione con gli altri. Qual è la vera storia della nostra famiglia? Le cose sono andate veramente come ce le hanno raccontate? Spesso queste narrazioni vengono fuori da un ricordo condiviso, quindi se anche inizialmente ci sono stati punti di vista differenti, con il tempo si sono mischiati fra loro, fino a consolidare una storia che possiamo considerare ufficiale, che alla fine diamo per scontata. A volte invece succede che il ramo materno viva le situazioni in un certo modo, che non è esattamente uguale a quello paterno. E allora nascono storie differenti, che possono addirittura andare a confliggere fra loro e noi possiamo essere sballottati e tirati per la giacca da una parte e dall’altra, così da entrare in uno dei due schieramenti.
La storia racconta storie e allo stesso modo tante storie raccontano la storia. Anche la nostra personalissima.Se rivediamo indietro gli anni passati, tramite i ricordi possiamo creare una narrazione di quello che ci è successo. Ma siamo certi che quella sia la storia autentica? Non sarà, come dice De Gregori, che tendiamo a confondere gli alibi e le ragioni e a costruirci la storia che ci fa più comodo? I ricordi e la nostalgia del passato sono spesso cattivi consiglieri, così come i rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. E così diventa facile riscrivere la storia, raccontarla come più ci fa comodo, mentre invece servirebbe un po’ più di sincerità. Soprattutto con noi stessi.
Mentre tu sei l’assurdo in persona e ti vedi già vecchio e scadente, raccontare a tutta la gente del tuo falso incidente…
“…evitando le curve più dure, senza per questo cadere nelle tue paure, gentilmente, senza strappi, con amore. Dolcemente sciare, rallentando per poi accelerare, con un ritmo fluente di vita nel cuore”
Chissà se Lucio sapeva sciare: le discese ardite e poi le risalite mi farebbero pensare di sì, ma chi lo sa. Ma poi cosa importa? Se lo sapeva fare o se l’era solo immaginato, in ogni caso penso che le sue canzoni siano la colonna sonora ideale mentre sei sugli sci (non solo sugli sci, ovviamente, io lo ascolterei ovunque ed in qualsiasi situazioni, come avrete intuito se frequentate questo blog).
La cosa bella dello sciare è che non si perde nulla. Come una costruzione del lego, ogni passo avanti è un mattoncino in più, che puoi lasciare lì anche per anni: quando rimetti gli sci, ricominci esattamente dove avevi lasciato e aggiungi un mattoncino in più. L’inglese se non lo eserciti lo dimentichi. Così anche il pianoforte, se smetti di suonare le mani non rispondono più ai comandi. Non parliamo di altri sport: quando non ti alleni perdi pian piano tutto quello che eri riuscito a raggiungere. Per lo sci non è così.
Io imparai con le settimane bianche della scuola, quarant’anni fa. Per qualche anno ho continuato a sciare, senza diventare un campione, ma comunque riuscendo a scendere in quasi tutte le piste. La mia dolce metà non aveva la mia stessa passione e quindi, pur avendo una casa in montagna, per anni non ho più sciato. Anche i figli sembravano non essere interessati, finché lo scorso anno, mia figlia mi propose di rimettere gli sci: “dopo trent’anni? Ma non sarà un azzardo?” Invece, vinta qualche paura, ci ho riprovato e dopo mezz’ora sapevo scendere esattamente come trent’anni prima. Anche quest’anno, sfruttando la già citata casetta, abbiamo rifatto una settimana bianca e oggi posso dire che non ho mai sciato così bene, perché appunto, a quello che sapevo fare allora, ho aggiunto altri due mattoncini.
Per questo mi sembra che lo sci possa essere una bella metafora. Per sciare bisogna vincere la paura, bisogna avere equilibrio, ma bisogna sapersi buttare. Bisogna bilanciare il peso, senza mai esagerare da una parte o dall’altra. Si può correre a per di fiato o si può scendere dolcemente, si può andare da soli, ma trovare qualcuno che abbia il tuo stesso passo è molto più bello. Bisogna stare ben saldi attaccati al terreno, ma con lo sguardo rivolto in avanti. Soprattutto, le esperienze accumulate non si disperdono col tempo, ma fanno parte di noi: i successi, le cadute, quello che abbiamo faticosamente imparato, è il nostro bagaglio, siamo noi, è la nostra vita. Ah, ma perché, pensavate che stessi continuando a parlare solamente di sci?
Cambiano cielo, non l’animo, coloro che vanno per il mare (Orazio)
Chi cambia la password e chi cambia le taglie, chi cambia la macchina e chi cambia le foglie. Chi cambia idea e chi cambia mestiere, chi cambia la rotta e chi cambia le sere.
Chi cambia passo e chi cambia sesso, chi cambia la pelle, chi cambia le palle. Chi cambia lavoro, chi cambia indirizzo, chi cambia rotta, chi cambia il prezzo.
Chi cambia la musica e chi cambia la mimica, chi cambia la casa e chi cambia la carica. Chi cambia valuta e chi cambia partito, chi cambia abitudini e chi cambia marito.
Chi cambia sognando, chi cambia vento, “chi cambia la barca felice e contento“. Chi cambia il futuro, chi cambia il finale, chi cambia il presente per non dover più cambiare.
E poi ci son io che non cambio mai dovunque tu andrai dalla stessa parte mi troverai
E così anche queste elezioni regionali ce le siamo tolti di mezzo. Nessun risultato inatteso, se non un’affluenza ancora minore rispetto alle più nere previsioni: complessivamente nel Lazio e in Lombardia ha votato il 42% degli aventi diritto, con punte estreme come a Roma del 33%. Nella capitale 2 elettori su 3 sono rimasti a casa.
E’ vero che ormai le grandi ideologie sono tramontate, siamo di fronte ad un voto liquido, basti vedere la grande differenza tra una votazione ed un’altra, con astri nascenti che prendono migliai di voti e poi alle elezioni successive subiscono disfatte clamorose. E’ vero pure che forse in democrazie mature, quando le differenze si assottigliano perché le politiche proposte non si discostano poi le une dalle altre, non c’è più l’esigenza di identificarsi con un partito o uno schieramento. In America, da decenni ormai le percentuali di voto non raggiungono neanche lontanamente la metà degli aventi diritto, perché tra democratici e repubblicani a volte le differenze neanche si percepiscono.
Ancora non sono uscite le distinzioni per fasce d’età, sarei molto curioso di conoscere la percentuale dei votanti sotto i 25 anni. I miei due figli (21 e 24 anni), nonostante i miei rimbrotti, non sono andati a votare e a sentir loro nessuno dei loro amici ha sentito il bisogno di esercitare questo diritto/dovere fondamentale. Se penso alla mia adolescenza, quando per l’appartenenza politica si rischiava la vita e gli scontri fra chi era da una parte e chi era dall’altra lasciavano i morti per le strade, devo riconoscere che viviamo in una fase più matura, più equilibrata.
Eppure questo disinteresse, figlio del disincanto (sono tutti uguali), dovrebbe far riflettere tutti quanti. Sono convinto che la classe politica sia lo specchio della società che la esprime, quindi non credo debba partire da loro, non credo che sarebbero capaci di autorinnovarsi, neanche se lo volessero. Ma se queste forme di rappresentanza tradizionali non intercettano più i bisogni delle persone (e dei giovani in particolare), il vuoto che si crea necessariamente sarà riempito da qualcos’altro. I giovani che non vanno a votare perché non si riconoscono nei partiti non è vero che non hanno delle idee sui diritti civili, sul lavoro, sulla guerra o più in generale sul futuro. A loro (e a noi con loro) resta il compito di non farsi manipolare, perché nella società attuale, fra social, web e influencer il rischio è molto alto. Ma io voglio credere che non siano così sprovveduti come a volte pensiamo.
Già da tempo assistiamo a forme di mobilitazione alternative rispetto a quelle tradizionale (pensiamo ai friday for future o alle iniziative che rientrano nel cosiddetto “voto con il portafoglio”), in cui le scelte individuali del cittadino si uniscono per dare un indirizzo preciso, per mandare un segnale forte a chi decide, forse anche più incisivo rispetto a quello che si esprime con una scheda elettorale. Chi saprà intercettarlo, chi sarà capace di esprimerlo meglio e in maniera più organica di altri, avrà compiuto un passo importante, forse decisivo, per interpretare la volontà della maggioranza delle persone.
“C’è chi guarda il Festival di San Remo e chi mente.”
Lo so, lo so, ora tutti a fare i distinguo, “no io no”, “non lo vedo dall’87”, “piuttosto mi butto dalla finestra”. Ma anche non volendo, durante questa settimana il Festival dei fiori si prende la ribalta e come in uno specchio enorme riflette quello che ha intorno. Quindi è inutile che te ne tiri fuori, e fra polemiche e canzoni, a meno che tu non sia un’eremita che vive in una grotta delle Alpi Carnie, non puoi non essere toccato dalle lunghe spire della kermesse canora.
Che da qualche anno a questa parte, senza entrare nel merito della qualità delle canzoni, è realmente diventato il festival della canzone italiana. Mi spiego meglio. Quando ero più giovine mi chiedevo sempre del perché al festival della canzone italiana non ci andassero i cantanti italiani. O almeno quelli normali, quelli che ascoltavo quotidianamente e come me la gran parte dei miei coetanei. Perché Battisti, Bennato, De Gregori, Venditti, ma ne potrei citare altre decine, (Baglioni, Finardi, Daniele,) perché se ne tenevano alla larga? Perché dovevamo sorbirci Mino Reitano o Gianni Bella, cantanti sconosciuti o gente improbabile che mai al mondo avremmo ascoltato al di fuori di quelle serate? Nel corso degli anni ci fu qualche sporadica eccezione: Vasco Rossi (che infatti fece un fiasco clamoroso), Ron, Renato Zero, Cocciante, i Pooh, ma erano appunto delle eccezioni (ce ne erano state anche prima, persino il mio amato Rino Gaetano che spopolò con Gianna).
Tra il Festival e il pubblico (soprattutto quello giovane) c’era un abisso, uno scollamento enorme. Da qualche anno a questa parte non è più così e ora insieme alle vecchie cariatidi i miei figli ascoltano i cantanti che seguono normalmente. Cantautori indie, musica trap (per me inascoltabile, ma io sono decisamente boomer), personaggi che fino a qualche tempo fa sarebbe stato impossibile vedere sul palco dell’Ariston. E questo, ripeto, a prescindere dalla qualità delle canzoni proposte, non può che essere un elemento positivo. Poi certo, ci tocca vedere un cretino che “per divertirsi” distrugge un palco prendendo a calci i fiori (dice, ma dai in fondo ha vent’anni! Ma perché tu a vent’anni andavi in giro a spaccare tutto per divertimento?) o un comico che santifica la costituzione (bello, bravo ma anche basta) e uno la prostituzione (occhio che questo tra vent’anni fonderà un partito, con buone probabilità di vincere le elezioni).
“Tutto quanto fa spettacolo”, diceva il sottotitolo di una trasmissione di quando ero giovane (se sapete il titolo siete boomer anche voi). Ed è davvero così. Dalla provocazione per parlare della discriminazione sessuale agli appelli contro le dittature, dalle dirette sui social per commentare con le amiche (come farei senza di voi!), ai fantagiochi costruiti ad hoc, il tutto inframezzato dalle pubblicità di Poltrone&Sofà (ma solo fino a domenica), San Remo siamo noi, è lo specchio dell’Italia, con i suoi vizi e le sue virtù. E alla fine vinca il migliore, anche se sappiamo bene che poi vincere non conta nemmeno tanto, perché magari arriva ultimo il futuro Vasco Rossi. Un po’ come nella vita vera.
Quindi, come dicevo all’inizio, se anche non guardate San Remo, non importa. E’ lui che guarda noi.