Conversazioni rubate alla letteratura (winter version)

Ovindoli, una domenica di marzo, sulla spianata in fondo alle piste da sci, incontriamo nuovamente i nostri amici Umberto e Cristina di cui qui vi avevo raccontato qualche perla di saggezza estiva.

LUI. Umberto, già lo conosciamo è grosso, tanto grosso, del resto la palestra è la sua principale occupazione. D’inverno non può sfoggiare i suoi mitici tatuaggi, ma la bandana in testa non manca, occhiali da sole, tuta da sci verde ramarro con inserti gialli e arancioni. Praticamente uno stabilo boss ambulante.

LEI. Cristina è bionda tinta, è più minuta, ma il fisico palestrato non è da meno. Anche lei bandana in testa, occhiali da sole, tuta da sci fucsia e celeste (gli altri due colori degli evidenziatori che mancavano a lui, perché certa gente ci tiene ad essere precisa).

LEI. Aho! Sei arivato, ma quante piste te sei fatto, me ne stavo annà. Poi tu me lasci tutta sola, nun sai ch’ è successo…io stavo qua tutta tranquilla a ripià fiato e ce stava uno che me guardava. Sai quanno te guardeno come pe’ dì, ma io te conosco, ma io mica o conoscevo. Allora s’avvicina e me fa, “Ciao bionda, ma dove ci siamo già visti? Che per caso d’estate stai ar Trocadero a Ladispoli?”  “No, guarda, te stai proprio a sbaja. Io vado a Torvaianica”  “Però me pareva, senti io comunque so Cristian e tu come t’antitoli”  “Eva”  “Aho, bello è un nome bibblico, come Abramo e Eva!”  “No, come evapora, che mo’ ariva er ragazzo mio e si te vede qua ‘ntorno t’appiccica ar muro come ‘na gomma da masticà.” Ma n’hai capito, amo’? Ce stava a prova’. Amò, ma me stai a sentì?

LUI.  Eh? Sì, amò hai fatto proprio bene.

LEI. Er fatto è che tu me lassi sempre sola, te ne vai de qua e dellà, cori, ma che te cori? Che te credi da esse Arberto Tomba, io nun je la faccio mica a statte dietro.  E poi manco ce volevo venì, oggi a Porte de Roma ce staveno pure le svendite da eccendemm, Giorgia m’aveva detto e dai, viecce pure tu, che ce vai a fa, a te la neve manco te piace, giusto perché tu madre ha ‘nsistito “e dai, annate a scià, c’abbiamo casa, nun ce va mai nessuno, allora me la vendo” Ma anfatti, perché nun s’avendono sta casa? Eh amò, secondo te?

LUI. Eh? Sì, amò t’ho detto che hai fatto bene.
LEI. Seeee ciao ni. Umbè o vedi come fai? Io parlo ma tu mica me stai a sentì.
LUI. A Cristì io devo annà ar bagno, dev’esse stato er cappuccino co la bomba calla. Nun te sto a sentì, perché se no me caco sotto.
LEI. Amo, sei propio ‘na bestia.

Gli amici al tempo del bisogno

Questo post è stato quanto meno sollecitato da quello del mio amico Gintoki, dove si/ci chiedeva, cosa dire a qualcuno nel momento di difficoltà, cosa fare nel momento del bisogno.

Certamente le cosiddette “frasi di circostanza” lasciano il tempo che trovano. Fanno parte della convivenza civile e sono quindi un po’ un cliché a cui ricorriamo, appunto nelle situazioni in cui non sappiamo cosa dire. Come quando sei in ascensore con uno sconosciuto, oppure con qualcuno che conosci ma con cui hai poca confidenza e non sai dove guardare e cominci a giocare con le chiavi. Ecco, cose tipo “vedrai che il tempo lenisce ogni cosa” o similari, sono come quel mazzo di chiavi.

Forse meglio sarebbe non dire nulla oppure, semplicemente, “se vuoi io sono qui”. In modo un po’ drastico commentavo però che solitamente diciamo così quando all’altra persona non frega una beneamata ceppa se ci siamo o no. I veri amici, le persone che stanno dentro le nostre vite sul serio, non hanno bisogno di dire “ehi, ci sono”. Come non hanno bisogno di dire grazie, ma questo è un altro discorso, non divaghiamo.

Perché secondo me non è vero che gli amici si vedono nel momento del bisogno. O comunque non è del tutto vero. Quelli sono i medici. Gli amici preferirei vederli anche in altre situazioni. Gli amici veri, quelli che fanno parte delle nostre vite sanno parlare e sanno tacere. Sono quelli che ci sono sempre: che c’erano ieri e siamo abbastanza confidenti che ci saranno anche domani, nelle situazioni favorevoli e in mezzo alle tragedie. Se dovessi pensare ad un ideale di amico vero non credo sarebbe quello a cui telefonerei in piena notte se mi si è rotta la macchina. Quello si chiama carroattrezzi. Il mio ideale di amico vero è quello che sta lì in macchina con me e magari mi prende per il culo perché ho una macchina di merda oppure perché sono il solito cazzone che non controlla il livello dell’olio.

E quando lo incontri in ascensore sai benissimo cosa raccontargli e non hai bisogno di tirar fuori le chiavi. A meno che tu non abbia un altro bisogno, perché te la stai facendo sotto e non vedi l’ora di arrivare nel tuo pianerottolo per andare in bagno. Ma anche questo è un altro discorso.

Conversazioni rubate alla letteratura

LUI. Gigantesco, bandana in testa, tatuatissimo (sirene, forme geometriche, scritte varie), costume a pantaloncino rigorosamente arrotolato per far sì che l’abbronzatura arrivi dove altrimenti non arriverebbe.

LEI. Biondissima, bandana in testa, tatuatissima (sirene, forme geometriche, scritte varie, ma in più anche due ali sulla schiena. Sì, proprio due ali. Da angelo, anche se forse da gallina sarebbero state più azzeccate), costumino “chiappadefori” e “siserialzate”.

IO. Seduto sotto l’obrellone vicino, assorto nella lettura dell’articolo domenicale di Scalfari che, individuati i tipi, a mo’ di giaculatoria ripetevo tra me e me…Speriamo che siano dei loro, speriamo che siano dei loro, speriamo che siano dei loro…

LEI. So indecisa se prende l’s4, anche perché er mio s3 è pieno de applicazioni ‘na cifra importanti pe’ me. E me dovrei ariscaricà tutte, amo’ tu che dici? Ma e’ vero che uozzap mo se paga amo’? Comunque amo’ me ce porti aaaaromanina da mediauord a vedello e se me pia bene me o faccio, eh amo’? Che dici? Sai quante applicazioni ciò amo’? Tooo dico? Amo’ me senti? Me ne so scaricate 56! Hai capito amo’, CINQUANTASEI APPLICAZIONI!!!!! (N.d.R. con la mano rigorosamente a conchetta vicino la bocca) Ao’ ma me stai a sentì amo’?
LUI. A Cristì l’unica applicazione che te dovevi scarica’, nun taaaa sei scaricata
LEI. Quale amo’?
LUI. L’applicazione pe nu rompe er cazzo! Ma noovedi quanto fa cardo?
LEI .Sei ‘na bestia amo’

IO. Speriamo che siano dei loro, speriamo che siano dei loro, speriamo che siano dei loro…

LUI. Amo’, certo che str’artranno nun je lo damo mica er Circomassimo ai rollinston
LEI. E perché amo’?
LUI. Perché ciannamo a festeggià o scudetto daamaggica!!!

E il mondo torna a sorridere.

30 maggio 1984. Il fuoco amico dei ricordi

Notte di sogni, di coppe e di campioni…

E’ difficile ricordare, a trent’anni di distanza, una giornata in ogni singolo momento, come se l’avessi vissuta ieri. E infatti capita raramente e sempre quando il ricordo è legato a qualche evento particolare: il giorno in cui morì Kennedy, il giorno in cui rapirono Aldo Moro. O più recentemente l’11 settembre. Qui nella capitale, per le persone che hanno diciamo dai 40 anni in su, il 30 maggio 1984 è una di quelle giornate. Per me poi ci sono anche elementi in più del tutto personali. E allora, trent’anni dopo, cado sotto i colpi del fuoco amico dei ricordi (leggete l’ultimo di Piperno e poi ne riparliamo).

Bang! Il primo colpo mi riporta ad una mattinata di sole. Le 8,30, prima campana, e spegni quella sigaretta…17 anni, secondo classico, per chi non lo sa, 4 anno (sapete perché noi del classico siamo delle seghe in matematica? ma è normale, prima facciamo il 4 e 5 e poi il 1, 2 e 3!), con la scuola agli sgoccioli, c’era il rito della foto di classe. Come ogni anno, il più fortunato con la bandiera in mano, avremmo salutato l’anno che se ne andava, già proiettati al prossimo e all’esame di maturità che ci aspettava.

Bang! Il secondo colpo dei ricordi vola al pomeriggio, all’Aventino, alla clinica Salvator Mundi, per la precisione. mamma quel giorno doveva uscire. Finalmente! Due settimane prima aveva subito un’operazione e fortunatamente era andato tutto bene. Quello stesso tumore che poi se la sarebbe portata via qualche anno dopo, quella volta fu sconfitto. Un piccolo contrattempo fece slittare la dimissione il giorno dopo. “E va be’ – pensai – il peggio è passato, cosa vuoi che cambi un giorno in più o in giorno in meno”? L’importante è che si poteva ricominciare a vivere, a cazzeggiare, a pensare alle ragazze. E al calcio!

Bang! Il terzo colpo, quello che rende indimenticabile quella giornata, che la fa entrare nella storia. Allo stadio Olimpico la Roma si gioca la possibilità di entrare nella storia, di arrivare sul tetto del mondo. Mio padre, mio fratello ed io, laziali fino al midollo, come tutte le sere in quel periodo siamo a cena dal fratello di papà, in una casa di romanisti agguerriti e pronti a festeggiare. E sarà per riconoscenza verso i nostri ospiti, sarà perché anche noi percepivamo di trovarci di fronte alla Storia, con la S maiuscola, non potevamo tifare contro come avevamo fatto fino a quel giorno e come avremmo continuato a fare dal giorno dopo in poi.

Dario e Paolo, i miei migliori amici erano allo stadio, mio cugino lì a fianco a me, più della metà della città con il fiato sospeso, ad un passo dal traguardo. E certo, sapevo bene l’inferno che avrebbero scatenato, i mesi e mesi di festeggiamenti e di rosicamenti che stavo per subire. Avrebbero invaso la città, l’avrebbero messa a ferro e fuoco con i loro orrendi colori come avevano fatto pochi mesi prima con lo scudetto. Anzi, molto di più: Campioni d’Europa! Ma io la mia coppa dei campioni l’avevo già vinta. Mia mamma l’aveva vinta e tutto il resto contava davvero poco. Per questo avevo uno stato d’animo altalenante, un po’ rassegnato all’ineluttabile, un po’ rinfrancato comunque dallo scampato pericolo. E quasi impassibile, con una calma atarattica, assistetti alla disfatta dei cugini, al clamoroso harakiri che li portò a perdere la finale di fronte al proprio pubblico.

E così torno al primo colpo e torno a guardare quella foto. Ma pensa se avessero inventato la macchina del tempo. Pensa se si potesse andar lì ad interrogare quelle belle facce, a farsi raccontare i loro sogni, le loro speranze. Per esempio quello lì dietro con gli occhiali, il nano della compagnia. “Ehi tu? Che mi dici?” Chissà se tu potessi vedermi oggi come io posso vedere te. Perché io mi ricordo chi eri e cosa avevi in testa e ora posso giudicarti. Ma tu? Tu come mi giudicheresti? E quell’altro là, con la bandiera in mano e quell’orrida maglietta? Che direbbe oggi quello lì, che aveva tanta fretta quel giorno perché doveva correre allo stadio? Chissà se pure lui questa sera è stato colpito dal fuoco amico dei ricordi…

 

classe

 

 

Questo blog non è un albergo!

Un blog al giorno toglie il medico di torno. Qui una volta era tutto un blog. Il blog è bello ma non ci vivrei. Non ci sono più i blog di una volta. Chi blog l’aspetti. Rosso di sera, bel blog si spera. Piove! Blog ladro. Aiutati che il blog ti aiuta. Moglie e buoi nei blog tuoi.  Blog avvisato è mezzo salvato. Chi blog, l’aspetti. Blog che abbaia non morde. A blog estremi, estremi rimedi. Buon blog non mente. Il blog del vicino è sempre più verde.

Ma io non ci sto più, grido il blog e poi! Perché blog o non blog, arriveremo a Roma. E che ne sai tu di un blog di grano? Perché vedrai anche tu un blog in mezzo al cielo, e poi il blog è sempre più blu. Blogga, blogga bloggherino, tutta la notte ed al mattino. Secondo blog a destra, questo è il cammino.

E quindi, visto che lo scrivete tutti, lo vogliono scrivere pure io! Se qualcuno avesse avuto ancora qualche dubbio della totale inattendibilità di quanto scritto qui, vengo con questa mia addirvi, che questo blog non è una testata giornalistica. Ma neanche una crociata giornalistica. Arrivo a dire che non è neanche una testata nucleare, ma nemmeno una testata al muro. Potrebbe sembrare, ma non è nemmeno una testata del letto e dubito possa essere una testata del motore.

Dunque, sempre questo blog, non può considerarsi prodotto editoriale ai sensi della L. n.62/2001. Ma nemmeno ai sensi della L. n.63/2002, o della 64/2003, 65/2004 e così via, se volete, fino ai sensi unici, i sensi vietati e perfino i cinque sensi.

Tanto vi dovevo, distinti saluti. Vi lovvo a tutti.

V.M. 18 anni

“Chino, su un lungo e familiar bicchier di vino 
partito per un viaggio amico e arzillo 
già brillo. Certo, perché io non gioco mai a viso aperto 
tremendo il mio rapporto con il sesso, che fesso!”

In questo post si parlerà di sesso. Oh, finalmente, dirà qualcuno! Vi interessa? Facciamo un rapido test. Se uno vi dice che ha un appuntamento al reparto di trombofilia vi compare improvvisamente un sorriso un po’ ebete sul volto? Allora proseguite nella lettura. Altrimenti passate oltre.

Entrare a far parte di una blog community, mio malgrado o forse, come direbbe Scaiola, a mia insaputa, ha dei riflessi davvero divertenti. Dicevo mio malgrado perché come ho già scritto in precedenza, nella mia crassa ignoranza di web, aprendo un blog pensavo che avrei scritto. Non che avrei letto! Non avevo dunque la minima idea che invece aprire un blog sarebbe stato come un biglietto di invito ad una festa di liceali. Quelle feste in cui arrivi, non conosci nessuno, ti imbuchi, prendi un bicchiere e ti butti nella mischia. Si incontrano davvero soggetti strani, personaggi nati dalla fantasia malata dei propri autori, supereroi con e senza calzamaglia, visionari, poeti, santi e navigatori. E come appunto nelle feste liceali, cominci ad andare in giro e a scambiare quattro chiacchiere con questo o con quello. Fra tutte le cose, debbo ammetterlo, quella che più mi ha sorpreso è quanta gente e con quanta perizia, parla di sesso. Ora, va be’, non è che non se ne parli al di fuori dei blog, ma qui ho trovato una concentrazione davvero singolare. Soprattutto, la cosa più singolare, è il fatto che ne parlino le donne. Per carità, si parla anche d’altro, ovviamente, però insomma l’argomento è senza dubbio molto gettonato.

E invece qualcuno/a mi ha fatto notare che nel mio blog, al contrario, se ne parla molto poco. Come mai? C’hai qualche problema? Un blocco psicologico? Un’esperienza negativa da piccolo?

Non lo so. Non so proprio perché non mi viene da parlarne. O forse  sì che lo so. Perché, devo ammettere, io non sono fra quelli che quando ascoltano De Gregori cantare “ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo” pensano che in realtà stia facendo un ermetico elogio del Cunnilingus. Né, ad esempio, ho mai pensato che Battisti, cantando “e tu amica cara mi consoli perché ci ritroviamo sempre soli”, vaticinava trent’anni prima la figura del trombamico.

Secondo me è questo il problema. Diciamola tutta. So antico! Ai miei tempi, soprattutto con le ragazze, non si parlava di sesso. Per fortuna non avevamo i bimbiminkia, ma nemmeno appunto i trombamici. Ce le avevamo le amiche, certo. Ma se erano amiche, non solo non ci facevamo sesso, ma neanche  se ne parlava. Noi eravamo quelli su cui venire a piangere quando lui faceva l’infame. L’orecchio disponibile per le lunghe filippiche su quanto la vita fosse ingrata, su quanto nessuno le capisse. Con le più intime potevamo parlare di calcio o ruttare a bocca aperta. Ma sesso nisba. Perché ovviamente, almeno ai miei tempi, alle donne piacevano gli stronzi. Non ho mai capito bene come e perché si sviluppasse questa strana forma di masochismo. Ma insomma, era così. Un dato di fatto. Avendo la possibilità di scegliere fra l’amico fidato e disponibile e il criminale conosciuto in uno sordido pub, lei decideva immancabilmente per il secondo. E quindi o eri stronzo o eri l’amico. E all’amico non gliela davano. Mai! Se avevi la ragazza era diverso (mica sempre, anzi, di solito non te la davano lo stesso). In ogni caso avere una trombamica non esisteva neanche nelle nostre fantasie più sfrenate. Negli anni 80 avere una trombamica sarebbe stato meno probabile di uno scudetto della Lazio.

E quindi, vi posso assicurare, con le amiche non si parlava di sesso. Di sesso si parlava fra noi maschi. Spesso. Anzi, direi molto spesso. L’argomento era probabilmente inversamente proporzionale a quanto lo si faceva. E noi che ne parlavamo assai, andavamo inconsapevolmente d’accordo con Woody Allen, che dice che “il sesso è come giocare a carte: se non hai un buon partner, spera almeno in una buona mano”. Ecco quindi che le uniche amiche con cui si parlava (!) di sesso erano Federica la mano amica e le sue varianti più o meno fantasiose: Adele la mano fedele, Alberta la mano esperta, Veronica la mano supersonica, Francesca la mano che ti rinfresca. Figure mitologiche, immancabilmente associate ad un ideale di donna legato alla purezza. Oddio a voler essere precisi, più che alla purezza, alla pulizia: la Fenech che si faceva la doccia nelle svariate versioni delle commedie di quegli anni. Ma con le amiche, quelle vere no.

Forse per questo a livello inconscio, m’è rimasto questo blocco dello scrittore. O forse è un argomento su cui ho poco da dire. Più probabilmente, lo ritengo un tema su cui sia meglio tacere. Un po’ come il calcio (che com’è noto è il più diffuso succedaneo al sesso): c’è chi ama star lì a parlarne, a vedere trasmissioni che discutono della rava e della fava di questo o quel giocatore e c’è chi invece preferisce solo correre appresso ad una palla (anche se magari, come il sottoscritto, non ne avrebbe più l’età!).

È per questo che posso ammettere che la frequentazione dei blog mi ha aperto nuove prospettive.

Concludendo questo post un po’ anomalo, scrittrici e scrittori più navigati di me in siffatte tematiche, solamente un dubbio mi resta: ma sul serio secondo voi, l’amica cara non lo consolava con una pacca sulla spalla e un bicchiere di amaro Montenegro?

 

Ma l’amore vero esiste per davvero?

La domanda delle domande – ma esiste l’amore vero? – a pensarci bene, è una domanda assai strana. Come dire, esiste la Basilicata vera? Se esistesse l’amore vero si distinguerebbe dall’amore falso, come dire appunto che se esistesse la Basilicata vera, esisterebbe anche la Basilicata falsa. Ma considerato che darei per certo il fatto che non esiste una Basilicata falsa, si darebbe che non esiste neanche una Basilicata vera. Voi mi direte, ma che c’entra la Basilicata con l’amore?  Nulla. A meno che voi non siate nati a Montalbano Jonico e non abbiate trovato lì la donna della vostra vita. Ma non divaghiamo.

Esiste l’amore vero? E quello falso? L’amore falso sarebbe un cosa che finge di essere tale, ma in realtà è qualcos’altro? Interesse, attrazione…pensavo fosse amore, invece era un calesse. Ma se è qualco’altro, allora non è amore. Dunque il falso amore non esiste.

Ma secondo me non esiste neanche l’amore vero. Esiste l’amore, né vero, né falso. Un po’ come la Basilicata. Esiste, è un dato di fatto assodato. Com’è? Vero? Falso? Quanto dura? Per sempre? Fino a che non ci stufiamo? Da uno che sta insieme ad una persona da quasi 30 anni ci si aspetterebbe un bel pippone a favore dell’amore con la A maiuscola, quello che dura per sempre e che esclude tutto e tutti…l’amore vero, appunto. E allora?

Allora sono arrivato ad una convinzione diversa. L’amore ha la memoria di un pesce rosso. E guai se non fosse così. Se amassimo una persona perché l’anno scorso l’amavamo o perché vent’anni fa aveva un bel culo, oppure perché quella volta che è morta la pora nonna è stata tanto caruccia, sarebbe l’inizio della fine. L’amore è oggi, forse domani. Fosse ieri, sarebbe tutt’al più riconoscenza. Quella che sentiamo per il nostro commercialista, perché ci ha evitato quella multa con l’agenzia delle entrate. O con quel medico che ci ha detto, “no, la colonscopia non è necessaria”.

La verità è forte. L’amore è debole, va protetto come una piantina di peperoncini in pieno inverno. La verità segue percorsi chiari, l’amore se ne va per sentieri tortuosi, quelli che si inerpicano in mezzo ai boschi in montagna. La verità è logica. L’amore è logico quanto un’intervista di Totti. La verità si nutre di certezze. L’amore non riesce a spiegarsi neanche i più piccoli dubbi. La verità riesce a giustificarsi con prove e controprove. L’amore…lasciam perdere!

L’amore improvvisa, non pianifica. E’ irragionevole, inspiegabile, immotivato, ingiusto, sproporzionato, imprevisto. E’ cuore e cervello sì, ma solo perché le budella prendono il cervello per le palle e lo portano dove vogliono loro. Potrebbe mai essere vero? Amore vero è un ossimoro. E’ come dire ghiaccio bollente, Berlusconi onesto. Non stanno bene insieme.

Smettiamola dunque di cercare l’amore vero. Smettiamola di interrogarci se quello che sentiamo durerà per sempre o solo fino a domani. In fondo nessuno può saperlo. A parte noi stessi. E smettiamo anche di pensare che se non l’abbiamo ancora trovato, allora non esiste. Altrimenti corriamo il rischio di vedercelo passare sotto il naso, senza riconoscerlo, andando a cercare chissà cosa, quando magari è sotto i nostri occhi.

Un po’ come la Basilicata.

Danzando sul ciglio di un vulcano

The music’s playing, the notes are right. Put your left foot first and move into the right. The edge of this hill is the edge of the world. And if you’re going to cross you better start doing it right. Better start doing it right!

Sarà stato aprile. O maggio. No, era aprile. Una calda serata di un giovedì di aprile. Solita partita a calcetto, solita sudata e conseguente inappetenza e insonnia da accumulo di adrenalina. Avevamo ancora il piumino, perché Ale terrebbe il piumino anche ad agosto.

Mi sveglio intorno alle due, sudato come un piede dentro uno scarpone da sci, con una sete come mi fossi ciucciato una clessidra con tutta la sabbia. Mi alzo mezzo rintontito e senza accendere luci per non svegliare nessuno passo per il bagno per fare pipì. L’ultima cosa che ricordo è che stavo lì, di fronte al water. Mi risveglio per terra, con Ale che nel frattempo ha sentito un botto (ricostruendo poi il mio capoccione, anzi la mia mascella che sbatte sulla porta). Mi aiuta a rialzarmi in piedi e mi accompagna in cucina, ma intanto mi gira tutto, non riesco a svegliarmi? No, sono sveglio, solo che non riesco a parlare. Sudo, ma ho freddo, le provo a spiegare, ma le parole non mi escono, strascico come fossi ubriaco e penso quanto sia comica questa situazione. Vedo tutti pallini. Erano anni che non vedevo i pallini! E l’ultima volta (sarà stato il capodanno di antanni fa) aveva un bel sapore di pino. Sono seduto in cucina, provo ad alzarmi, ma non ci riesco, inciampo e mi rimetto seduto.

Forse la situazione non è così comica come mi era sembrato.

Infatti vedo chiaramente la sua espressione terrorizzata e quella è la cosa che mi fa capire che non sono ubriaco e che non c’è niente da ridere. Ed è allora, quando le gambe non rispondono e la lingua non ubbidisce, quando ti senti quasi in un sogno da cui non riesci più a svegliarti che un pensiero stranamente molto chiaro si fa strada nella tua mente. Capisci quanto sia facile morire.

Sarebbe bello poter raccontare che ti passa per la mente la tua vita, le partite a subbuteo con Enrico, le lezioni di guida con Edo, le corse dietro al motorino di Dario, i primi baci, le partite di calcio, le cose belle e quelle brutte, il giorno del matrimonio e la nascita dei figli, la morte di mamma e Andrea e tutto il resto. Cazzate. In quei momenti non ti passa per la mente proprio un bel nulla. La sensazione è quella di danzare sul ciglio di un vulcano. Capisci che ci manca poco, che basta un attimo e cadi giù. Basta un nulla e finisce tutto. Tutto e nulla.

Ale mi dà qualcosa che riesco a buttare giù (poi mi dirà che era semplicemente acqua e zucchero, ma per me poteva essere anche una pozione magica) e pian piano ho come l’impressione di tornare da un viaggio fuori me stesso. Nel giro di una manciata di secondi spariscono i pallini e con loro la sensazione lisergica. Ricomincio a parlare in maniera comprensibile e non dico che sarei in grado di improvvisare un passo double di danza, ma almeno riesco a tornare a letto camminando normalmente.

Il dottore il giorno dopo mi disse che non era stato nulla. Forse un collasso, probabilmente causato da una carenza di liquidi. Ovviamente la mia ipocondria mi avrebbe suggerito di sottopormi a tutte gli esami clinici conosciuti, ma mi fidai di lui e in effetti dalle analisi del sangue non risultò nulla.

Da quell’episodio mi rimase la mascella fortemente indolenzita per una settimana. Ma soprattutto la sensazione, poco piacevole, che non possiamo programmare e pianificare il futuro come vorremmo. Che basta un nulla per farlo essere diverso rispetto a quanto avevamo previsto.

Ed è vero che, non bisogna aver paura di nulla, tranne “che il cielo ci cada in testa” (cit.), ma è anche vero dell’altro. Che la vita è bella e fragile e breve.

È troppo breve “per provare ad imparare il tedesco” (cit.), ma anche per sprecarla appresso alle minchiate che ci angustiano le giornate.

Troppo fragile per pensare di essere eterni.

Troppo bella per sprecare anche un solo giorno, per non provare ad amare con tutto l’amore possibile, per trascurare anche una sola amicizia, per rinunciare anche ad un solo sogno da inseguire.

Apocalissauria

“Is this the real Life, is this just Fantasy?”

E poi ci fu un gran botto. Fortissimo. Rimanemmo tutti perplessi, solamente i più coraggiosi, così tanto per darsi un tono, cominciarono a cantare cori da stadio. Qualcun altro invece preferì buttarsi su “Walk on the wild side”, perché il ritornello era facile “E du dudu dudu du du du du dudu”, faceva molto fico e poi, non sapendo l’inglese (mica l’avevano inventato l’inglese nel giurassico), non capiva tutte le porcate che stava cantando.

Il boato si protrasse a lungo, come un peto di brontosauro, che in effetti si chiama così mica perché brontola. Io però glielo dicevo che tutta quell’erba mica gli faceva così bene. “Dammi retta, Bronty! Fumatela, piuttosto”, ma lui niente, continuava imperterrito a ingurgitare, e rideva e toccava, sembrava lui il padrone.

Dopo il botto arrivò un lampo. Molto forte pure quello che accecò tutti, tranne quelli che avevano esagerato con le pratiche manuali da piccoli, perché quelli erano già un pezzo avanti. Allora una velocirapta di facili costumi cominciò a intonare “oh oh, oh, oh” e tutte le amiche in coro “a far l’amore comincia tu”. La cosa andò avanti un altro po’, finché quello di sopra (perché c’è sempre uno di sopra, anche nel mesozoico) zittì tutti urlando che il giorno dopo lui doveva guidare il camion “eccheccazzo, basta co’ sto casino”.

Tra l’altro la melodia era anche caruccia, ma la parole erano davvero idiote, ma così idiote che i più se ne andarono in cerca di un domani diverso, ma se qualcuno gli chiedeva “Chissà, chissà domani, su che cosa metteremo le mani” loro rispondevano “nessuno mi può giudicare, nemmeno tu”. Che poi, qualche anno più tardi sarebbe diventato l’inno delle Stegosaure vergini (no, un attimo come vergini? Ahhh! Perché erano di settembre!) che si infilavano di soppiatto in tutte le feste solo per rubare due pizzette e un bicchiere di coca cola, attaccare qualche caccola sotto il tavolo e non sapere se gli mancava di più quella carezza della sera o quella voglia di avventura. Intanto però avevano svoltato il sabato pomeriggio. Senza mandare via il passerotto.

Dopo il lampo arrivò di gran carriera la meteorite. “Cheeeee? E’ arrivata la meteorina con la corriera?” Nonno rimetti l’apparecchio acustico che mi fai perdere il filo. La situazione si stava facendo seria. Radunammo il Gran Consiglio Dinosauro che provvedisse… no, provveditte… no provvedò, va be’ si prese in carico la situazione e ordinò (tiè, al primo colpo) l’evacuazione. Il brontosauro subito per primo “Io, io professoressa, io evacuo meglio di tutti” e per avvalorare la tesi sganciò uno scoreggione che avrebbe gonfiato una mongolfiera.

Ma a quel punto Ferri aveva battuto il record di autogol e le liste del giudizio universale erano già sui titoli di coda, posso salutar mammà, posso salutar papà, posso salutar Fefè. Anche se a me il Liga ha un po’ stufato e a costo di passare per finocchiosauro, affermo e dichiaro, sotto la mia responsabilità che Freddy Mercury era proprio un gran fico. Distinti saluti, comincia fare un po’ freddino e qualcuno ha spento la luce. Non fate scherzi stupidi mentre moriamo eh! Guardate che vi vedo! è buio, ma vi vedo!

“Nothing really matters, anyone can see. Nothing really matters, nothing really matter to me. Anyway the Wind blows…”

65 milioni di anni fa un asteroide precipitò nell’attuale America centrale con la forza di un miliardo di volte la bomba di Hiroshima, creando un cratere con un diametro di circa centosettanta chilometri. La nube di polvere sollevata oscurò il cielo per mesi facendo precipitare la temperatura sulla terra per un periodo talmente lungo che il gelo sterminò tutti i dinosauri.

Crescere i figli, evitando le buche

L’altro giorno, andando a trovare una coppia di amici che ha auto un bambino da pochi giorni, ci sono inevitabilmente tornati alla mente i periodi in cui nacquero Lele e Elisa.

Confrontando le esperienze ci è tornato in mente l’alba di quel mercoledì di 15 anni fa, quando ci mettemmo in strada per arrivare in ospedale. Ale era in uno stato tale che ogni buca della strada era una specie di coltellata. Ogni crepa, ogni piccolo sobbalzo era un “ahia”, che faceva più male a me che a lei. L’obiettivo finale era l’ospedale, ma quello immediato era evitare le buche!

Evitare la buche. Ti sembra facile? Tutta Roma è una buca! Anche nei punti dove la strada sembra intatta, in realtà non esistono dieci metri di asfalto liscio. Lo si sente dire, tutti lo sanno, ma ne siamo così abituati che non ci rendiamo conto di quanto sia vero finché qualcosa o qualcuno non ci obbliga a farci caso.

Mi è tornato in mente questa cosa perché in fondo, quell’evitare le buche è una perfetta metafora di quello che è l’essere genitore. Anche con i figli cerchiamo di evitare le buche. Cerchiamo di evitare errori, incomprensioni, delusioni. Come a dire evitare l’inevitabile. Non per noi, ma per loro. Anche se sappiamo bene che evitare le buche è impossibile. Come sappiamo altrettanto bene che evitare sconfitte, dolori, fallimenti è irrealizzabile. Ma poi,se anche per assurdo ci riuscissimo, sarebbe giusto? Sarebbe “sano”, per loro? Li aiuterebbe a crescere?

Eppure ci proviamo.

E ce la mettiamo tutta. Anche perché sappiamo, dentro di noi, che ogni buca in cui inciamperanno sarà nostra la responsabilità. Non sarà stata colpa del Comune che non ha riparato la strada. No, la colpa sarà stata la nostra che non siamo riusciti a evitarle.

Quella volta arrivammo in ospedale che Ale era dilatata di 9 centimetri. L’ostetrica voleva ucciderci, ma poi andò tutto bene.

Nonostante le buche.