I fiori finti non crescono mai

“Vieni padre mio, usciamo a fare un giro e guida tu e guarda avanti e non parliamo più, albero padre con un ramo solo ”

Adoro le giornate fresche che arrivano all’improvviso a spezzare la calura imperante. Adoro la montagna perché ti sa regalare questi cambi repentini. Ma allo stesso modo adoro quegli sprazzi di tepore inaspettati nelle mattinate assolate di dicembre, promesse di un’estate ancora lontana. Mi piace quando il tempo mi sorprende, in vestiti inadeguati, troppo caldi o troppo leggeri. Il rischio è un raffreddore, ma è un rischio che vale la pena correre.

Quella sensazione di inadeguatezza, che spiazza il nostro orientamento, come una via sconosciuta nata chissà come proprio nel bel mezzo di un itinerario che pensavamo di conoscere. A volte è una via senza uscita, altre volte invece può diventare una scorciatoia. Oppure, ancora meglio, la strada per posti inesplorati. Il rischio è perdersi,  ma è un rischio che vale la pena correre.

La verità è che dovremmo imparare a restituire responsabilità. Soprattutto io, che come sempre predico bene e razzolo demmerda con risultati abbastanza insoddisfacenti.

Dovremmo smetterla di pianificare ogni singolo istante del futuro o di tentare di prevedere quello che potrà succedere (tanto non ci si riesce mica). E proprio io che vorrei coprire ogni imprevisto, sia che sia fatto per amore, sia che sia fatto per paura, dovrei proprio smettermela. Bisogna restituire la responsabilità, dando fiducia alle persone e quindi alle situazioni. Il rischio è rimanere delusi. Ma anche questo è un rischio che vale la pena correre.

Altrimenti come possiamo sperare di essere sorpresi? Se non restituiamo responsabilità, se non lasciamo per un attimo il comando, per quanto gravoso ci possa sembrare, per quante vertigini possiamo provare, non solo gli altri non riusciranno mai a sorprenderci. Rischiamo di soffocarli. Corriamo il rischio che come fiori finti non crescano mai. E questo è forse l’unico rischio che non possiamo correre.

Il genio della lampada

Diffidate di chi ama tutti. Una persona veramente perbene deve avere almeno 10 persone che gli stanno sul cazzo. 

No, tranquilli, non è l’ennesimo post sulle 10 cose (anche se…un post sulle 10 persone che mi stanno sul cazzo mica sarebbe male). No, stasera faccio la persona seria (disse quello che aveva un boccale di birra nell’immagine del profilo…). Partiamo dalla prima affermazione. E’ possibile amare tutti? Cristianamente parlando, chi è questo benedetto prossimo che dovremmo amare come noi stessi?

Francamente non penso si possa amare tutti. Io penso che il prossimo siano, banalmente, quelli che ci capitano a portata di mano. A portata di naso, di orecchie, di occhi. Non possiamo salvare il mondo. Pur nella mia infinita presunzione devo ammettere che no, non ce la posso fare. Ma quelli che mi stanno intorno, quelli che Dio o chi per lui ha messo sulla mia strada, almeno quelli, certo che posso. O almeno ci posso provare. Pagando eventualmente lo scotto della sconfitta, laddove il risultato non sia poi quello sperato.

Io penso che bisogna imparare dagli errori, anche se è la cosa più difficile del mondo. Senza cercare alibi o giustificazioni, senza scuse. Anche perché come dicevo qui https://giacani.wordpress.com/2014/05/16/con-le-migliori-intenzioni/, non frega una beneamata ceppa a nessuno delle intenzioni con cui fai le cose. I risultati sono importanti. Se hai fatto bene o se hai fatto una cagata. Questo importa.

Quindi penso, anzi, mi impegno ogni giorno, per cercare di far bene e soprattutto di essere attento a quello che capita intorno a me. Penso che, come dicevo sopra, il mondo no, ma chi sta intorno a me, chi è vicino al mio cuore, debba avere il meglio e io devo fare di tutto per fargli avere il meglio. Soffro della sindrome del genio della lampada: fare felici gli altri (non tutti, quelli più prossimi, come dicevo sopra) credo sia l’unica vera ragione per essere al mondo.

Infine, penso che a volte bisogna fare un passo indietro. Pur nella già citata smisurata presunzione penso che a  volte basta chiedere scusa e poi starsene in silenzio. Perché c’è sempre il pericolo di voler fare i protagonisti anche nelle situazioni in cui sarebbe meglio fare i comprimari, anzi sarebbe meglio proprio lasciare la scena ad altri.

Con le migliori intenzioni

Ma non l’ho fatto apposta! E dunque? Questo che vorrebbe dire? E’ una scusante o un aggravante? Non sarà che le intenzioni delle azioni siano un po’ sopravvalutate? Non sarà che dietro il paravento delle intenzioni (che noi autodichiariamo buone) ci si senta liberi di fare quel che si vuole? E sì, lo so, il codice civile, il codice penale, colposo, preterintenzionale…ma nella vita di tutti i giorni, è così decisivo davvero sapere con quali intenzioni si è fatto (o detto), non fatto (o non detto) quella determinata cosa?

L’ho fatto con le migliori intenzioni! E pensa se invece volevi fa’ lo stronzo! La verità è che le intenzioni spesso vengono prese come attenuanti: io volevo far bene, (all’inizio, nella mia testa) se poi ne è uscita fuori una cagata pazzesca, in fondo non è mica colpa mia. Sei tu che te la prendi, è il destino cinico e baro, non mi sono spiegato/non mi hai capito.

E’ vero quello che dice la mia amica V. è verissimo: per avere cose mai avute, bisogna fare cose mai fatte. Per averle bisogna averne il coraggio, bisogna crederci fino in fondo. Bisogna andare oltre, trovare nuove strade e un po’ di coraggio in più. Ma bisogna anche valutarne le conseguenze, perché poi non ci saranno buone o cattive intenzioni da prendere come scuse. Perché in fondo, diciamocelo chiaramente: non frega una benamata ceppa a nessuno delle intenzioni con cui fai o non fai, dici o non dici una determinata cosa. Come cantava Bertoli, bisogna avere un piede nel passato, ma lo sguardo dritto e aperto nel futuro. Le intenzioni con cui facciamo qualcosa, nel bene o nel male, sono il passato. E quindi sticazzi! Sticazzi se hai fatto o non fatto detto o non detto quella cosa perché avevi (forse, chissà) un bel fine nobile ed altruistico. Non importa a nessuno. Le conseguenze sono importanti. Le cose che costruisci o le rovine che lasci. Di queste sei responsabile.

Ma come mi chiedevo qualche post addietro…c’è ancora qualcuno che, al di là delle intenzioni, si prenda le responsabilità di dire “sì, sono stato io” senza distinguo, senza attenuanti, o giustificazioni di sorta? Come dicono quelli bravi, “senza se e senza ma”? C’è qualcuno che ammetta infine di essere lui, sì, esclusivamente lui, il mandante delle sue azioni?

 

Crescere i figli, evitando le buche

L’altro giorno, andando a trovare una coppia di amici che ha auto un bambino da pochi giorni, ci sono inevitabilmente tornati alla mente i periodi in cui nacquero Lele e Elisa.

Confrontando le esperienze ci è tornato in mente l’alba di quel mercoledì di 15 anni fa, quando ci mettemmo in strada per arrivare in ospedale. Ale era in uno stato tale che ogni buca della strada era una specie di coltellata. Ogni crepa, ogni piccolo sobbalzo era un “ahia”, che faceva più male a me che a lei. L’obiettivo finale era l’ospedale, ma quello immediato era evitare le buche!

Evitare la buche. Ti sembra facile? Tutta Roma è una buca! Anche nei punti dove la strada sembra intatta, in realtà non esistono dieci metri di asfalto liscio. Lo si sente dire, tutti lo sanno, ma ne siamo così abituati che non ci rendiamo conto di quanto sia vero finché qualcosa o qualcuno non ci obbliga a farci caso.

Mi è tornato in mente questa cosa perché in fondo, quell’evitare le buche è una perfetta metafora di quello che è l’essere genitore. Anche con i figli cerchiamo di evitare le buche. Cerchiamo di evitare errori, incomprensioni, delusioni. Come a dire evitare l’inevitabile. Non per noi, ma per loro. Anche se sappiamo bene che evitare le buche è impossibile. Come sappiamo altrettanto bene che evitare sconfitte, dolori, fallimenti è irrealizzabile. Ma poi,se anche per assurdo ci riuscissimo, sarebbe giusto? Sarebbe “sano”, per loro? Li aiuterebbe a crescere?

Eppure ci proviamo.

E ce la mettiamo tutta. Anche perché sappiamo, dentro di noi, che ogni buca in cui inciamperanno sarà nostra la responsabilità. Non sarà stata colpa del Comune che non ha riparato la strada. No, la colpa sarà stata la nostra che non siamo riusciti a evitarle.

Quella volta arrivammo in ospedale che Ale era dilatata di 9 centimetri. L’ostetrica voleva ucciderci, ma poi andò tutto bene.

Nonostante le buche.

 

Chi è Stato alzi la mano

Ma se invece tornassimo, ognuno per parte sua, a ridiventare responsabili di quello che facciamo? Come si fa a dire “non odio nessuno, ma ero disperato”. Eri disperato? Embè? Questo giustifica l’andare in piazza a sparare al primo che passa? E vogliamo parlare dei giornalisti che vanno ad intervistare il figlio undicenne di questo poveraccio? Diritto di cronaca? Ma che razza di Paese siamo diventati? Un Paese in cui 101 deputati votano contro l’elezione a presidente del fondatore del proprio partito, senza ovviamente avere il coraggio poi di dirlo. Un Paese governato da 20 anni da un uomo che ha innalzato la ricerca delle attenuanti a metafora dell’esistenza. Un Paese in cui la novità politica è un movimento fatto di portavoce, più che di individui, ambasciatori della volontà della rete. E come si sa ambasciator non porta pena. Né responsabilità.

Sì, professoressa, è vero, non sono preparato, ma ieri dovevo andare…dal dottore, ecco sì, dal dottore! E’ dai tempi di scuola che cerchiamo giustificazioni a quello che facciamo (o non facciamo). In ogni caso, a scanso di equivoci, nella misura in cui…c’è sempre un “sì però”, un “ma anche” che fa sì che la responsabilità non sia mai del tutto nostra, che le conseguenze delle nostre azioni non siano realmente attribuibili a noi. In fondo anche i nazisti che mandavano gli ebrei nei forni dicevano semplicemente di ubbidire ad un ordine dall’alto.

Ma ce n’è uno che si prenda le responsabilità di dire “sì, sono stato io” senza distinguo, senza attenuanti, o giustificazioni di sorta? C’è qualcuno che ammetta infine di essere lui, sì, esclusivamente lui, il mandante delle proprie azioni?