L’insostenibile pesantezza della sostenibilità

Ci sono mode anche nelle parole. Desueto, ad esempio, è un aggettivo che non si usa più, non va di moda. E’ desueto, di nome e di fatto. Sostenibile invece va molto di moda. La moda sostenibile, l’energia sostenibile, l’economia sostenibile, lo sviluppo sostenibile. Che poi, ovviamente, quando qualcosa diventa così popolare, travalica, si moltiplica, diventando qualcosa di diverso da ciò che era inizialmente.

Cos’è sostenibile? Originariamente, qualcosa che si può sostenere, che si può “portare sopra” o anche sop-portare, senza fare troppo sforzo. Non necessariamente è una cosa che si porta piacevolmente: ci sono disturbi, fastidi, rotturedicoglioni sostenibili. E si differenziano proprio da quelli insostenibili, perché nonostante non siano proprio il massimo per noi, però ci si riesce a convivere.

Capite quanto siamo lontani dal senso comune che ha assunto il termine? Che nella sua forma sostantivata è diventata la panacea di tutti i mali. La sostenibilità sembra essere la meta ambita da tutti, la nuova America da scoprire e raggiungere con tutti i mezzi. Anzi, pardon, solo con quelli sostenibili. La sostenibilità è diventata sinonimo di lotta agli sprechi, energia pulita, ricircolo, crescita intelligente, opposto di tutto ciò che è invece esagerato, fuori controllo, eccessivo, smodato.

Dovremmo orientare tutta la nostra vita alla sostenibilità. Dovremmo lavorare, riposare, mangiare, divertirci in modo sostenibile. E allo stesso modo, dovremmo stancarci, annoiarci, arrabbiarci in modo sostenibile. Ma come si fa? Come si riesce, nel bene e nel male, a controllare le emozioni senza fargli oltrepassare la soglia di guardia? E poi, siamo sicuri che sarebbe un bene riuscirci? Ad esempio, si può amare, ci si può innamorare in modo sostenibile? E al contrario, non è proprio l’insostenibilità di certe situazioni negative che ci porta a reagire, a cambiare, a voltare pagina?

Insomma, non facciamo prendere troppo dalle mode, non anestetizziamo i sentimenti, perché un po’ come Venezia, la sostenibilità è bella, ma non ci vivrei.

La nave dei sogni

Ci mettemmo in viaggio verso un mondo migliore? In realtà alcuni di noi lo credevano davvero. Solo alcuni però, i sognatori, quelli che avevano più immaginazione. Tutti però fuggivamo dall’inferno. E quando ti lasci alle spalle l’inferno, non è detto che riesci già ad intravedere il paradiso. Fuggi perché hai nostalgia di ieri, hai la nausea dell’oggi e non vedi più un domani.

Qualcuno qui da voi ha detto che non si deve fuggire per senso di responsabilità verso il proprio Paese, ma questo non è più il mio Paese. L’hanno distrutto, cancellato, hanno messo al suo posto un fantoccio. E così volevano fare anche a noi. Hanno ucciso i nostri figli, violentato le nostre donne, distrutto i nostri progetti. Che altro potevamo fare? Abbiamo chiuso i nostri sogni e li abbiamo imbarcati su una nave, sperando nella clemenza del mare e degli uomini.

Ma gli altri uomini pensano di doversi difendere da noi, forse ci vedono come un rischio, come una possibile minaccia al loro benessere. Uomini nati dalla parte fortunata del mondo che in realtà non dovrebbero temere altro che loro stessi, non certo dei poveri diseredati come noi. Il pericolo ai loro privilegi ce l’hanno in casa e non lo sanno. Ma basterebbe poco, solidarietà, compassione, un piccolo aiuto e la nostra nave avrebbe toccato la riva, anzi forse non avrebbe mai avuto la necessità di salpare.

Qualcuno ha detto che partire è un po’ morire, ma noi lo sapevamo bene. Come sappiamo bene che morire non è la peggior cosa che possa capitare e in ogni caso, se questo è il rischio che si corre per inseguire i propri sogni, vorrà dire che non saremo morti invano.

La storia racconta storie

Non è una novità, più o meno l’abbiamo sempre saputo, che quella che studiamo a scuola è la storia raccontata dai vincitori. Poi ci sono storiografie alternative che cercano di far emergere altre narrazioni: i nativi americani sterminati dall’avanzata degli europei, la strage silenziosa degli armeni, la verità dietro al colonialismo europeo in Africa. Ma anche a casa nostra, i filoborbonici che leggono la storia dell’unità d’Italia come una conquista del nord verso il sud, i nostalgici di Salò che difendono l’indifendibile.

Ormai da anni si è consolidata questa impostazione relativista della storiografia, che vuole mettere in luce punti di vista e quindi ricostruzioni diverse da quelle ufficiali. Ancora di più. Queste narrazioni diverse portano avanti una teoria della verità direi più drastica: non esiste un’unica verità, perché a seconda di come la racconti la realtà può diventare tutt’altra cosa rispetto a quella che credevi in un primo momento. Gli aggressori possono diventare liberatori, gli estremisti si confondo con i martiri, i migranti possono essere raccontati come invasori.

Ma se questo vale per la storia con la S maiuscola, quella che studiamo nei libri, vale anche per le storie più semplici, quelle che coinvolgono ognuno di noi personalmente e nell’interazione con gli altri. Qual è la vera storia della nostra famiglia? Le cose sono andate veramente come ce le hanno raccontate? Spesso queste narrazioni vengono fuori da un ricordo condiviso, quindi se anche inizialmente ci sono stati punti di vista differenti, con il tempo si sono mischiati fra loro, fino a consolidare una storia che possiamo considerare ufficiale, che alla fine diamo per scontata. A volte invece succede che il ramo materno viva le situazioni in un certo modo, che non è esattamente uguale a quello paterno. E allora nascono storie differenti, che possono addirittura andare a confliggere fra loro e noi possiamo essere sballottati e tirati per la giacca da una parte e dall’altra, così da entrare in uno dei due schieramenti.

La storia racconta storie e allo stesso modo tante storie raccontano la storia. Anche la nostra personalissima.Se rivediamo indietro gli anni passati, tramite i ricordi possiamo creare una narrazione di quello che ci è successo. Ma siamo certi che quella sia la storia autentica? Non sarà, come dice De Gregori, che tendiamo a confondere gli alibi e le ragioni e a costruirci la storia che ci fa più comodo? I ricordi e la nostalgia del passato sono spesso cattivi consiglieri, così come i rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. E così diventa facile riscrivere la storia, raccontarla come più ci fa comodo, mentre invece servirebbe un po’ più di sincerità. Soprattutto con noi stessi.

Mentre tu sei l’assurdo in persona e ti vedi già vecchio e scadente, raccontare a tutta la gente del tuo falso incidente…

Sì, sciare

“…evitando le curve più dure, senza per questo cadere nelle tue paure, gentilmente, senza strappi, con amore. Dolcemente sciare, rallentando per poi accelerare, con un ritmo fluente di vita nel cuore

Chissà se Lucio sapeva sciare: le discese ardite e poi le risalite mi farebbero pensare di sì, ma chi lo sa. Ma poi cosa importa? Se lo sapeva fare o se l’era solo immaginato, in ogni caso penso che le sue canzoni siano la colonna sonora ideale mentre sei sugli sci (non solo sugli sci, ovviamente, io lo ascolterei ovunque ed in qualsiasi situazioni, come avrete intuito se frequentate questo blog).

La cosa bella dello sciare è che non si perde nulla. Come una costruzione del lego, ogni passo avanti è un mattoncino in più, che puoi lasciare lì anche per anni: quando rimetti gli sci, ricominci esattamente dove avevi lasciato e aggiungi un mattoncino in più. L’inglese se non lo eserciti lo dimentichi. Così anche il pianoforte, se smetti di suonare le mani non rispondono più ai comandi. Non parliamo di altri sport: quando non ti alleni perdi pian piano tutto quello che eri riuscito a raggiungere. Per lo sci non è così.

Io imparai con le settimane bianche della scuola, quarant’anni fa. Per qualche anno ho continuato a sciare, senza diventare un campione, ma comunque riuscendo a scendere in quasi tutte le piste. La mia dolce metà non aveva la mia stessa passione e quindi, pur avendo una casa in montagna, per anni non ho più sciato. Anche i figli sembravano non essere interessati, finché lo scorso anno, mia figlia mi propose di rimettere gli sci: “dopo trent’anni? Ma non sarà un azzardo?” Invece, vinta qualche paura, ci ho riprovato e dopo mezz’ora sapevo scendere esattamente come trent’anni prima. Anche quest’anno, sfruttando la già citata casetta, abbiamo rifatto una settimana bianca e oggi posso dire che non ho mai sciato così bene, perché appunto, a quello che sapevo fare allora, ho aggiunto altri due mattoncini.

Per questo mi sembra che lo sci possa essere una bella metafora. Per sciare bisogna vincere la paura, bisogna avere equilibrio, ma bisogna sapersi buttare. Bisogna bilanciare il peso, senza mai esagerare da una parte o dall’altra. Si può correre a per di fiato o si può scendere dolcemente, si può andare da soli, ma trovare qualcuno che abbia il tuo stesso passo è molto più bello. Bisogna stare ben saldi attaccati al terreno, ma con lo sguardo rivolto in avanti. Soprattutto, le esperienze accumulate non si disperdono col tempo, ma fanno parte di noi: i successi, le cadute, quello che abbiamo faticosamente imparato, è il nostro bagaglio, siamo noi, è la nostra vita. Ah, ma perché, pensavate che stessi continuando a parlare solamente di sci?

Cambiavento

Cambiano cielo, non l’animo, coloro che vanno per il mare (Orazio)

Chi cambia la password e chi cambia le taglie, chi cambia la macchina e chi cambia le foglie. Chi cambia idea e chi cambia mestiere, chi cambia la rotta e chi cambia le sere.

Chi cambia passo e chi cambia sesso, chi cambia la pelle, chi cambia le palle. Chi cambia lavoro, chi cambia indirizzo, chi cambia rotta, chi cambia il prezzo.

Chi cambia la musica e chi cambia la mimica, chi cambia la casa e chi cambia la carica. Chi cambia valuta e chi cambia partito, chi cambia abitudini e chi cambia marito.

Chi cambia sognando, chi cambia vento, “chi cambia la barca felice e contento“. Chi cambia il futuro, chi cambia il finale, chi cambia il presente per non dover più cambiare.

E poi ci son io che non cambio mai dovunque tu andrai dalla stessa parte mi troverai

San Remo cosa saresti senza di noi?

“C’è chi guarda il Festival di San Remo e chi mente.”

Lo so, lo so, ora tutti a fare i distinguo, “no io no”, “non lo vedo dall’87”, “piuttosto mi butto dalla finestra”. Ma anche non volendo, durante questa settimana il Festival dei fiori si prende la ribalta e come in uno specchio enorme riflette quello che ha intorno. Quindi è inutile che te ne tiri fuori, e fra polemiche e canzoni, a meno che tu non sia un’eremita che vive in una grotta delle Alpi Carnie, non puoi non essere toccato dalle lunghe spire della kermesse canora.

Che da qualche anno a questa parte, senza entrare nel merito della qualità delle canzoni, è realmente diventato il festival della canzone italiana. Mi spiego meglio. Quando ero più giovine mi chiedevo sempre del perché al festival della canzone italiana non ci andassero i cantanti italiani. O almeno quelli normali, quelli che ascoltavo quotidianamente e come me la gran parte dei miei coetanei. Perché Battisti, Bennato, De Gregori, Venditti, ma ne potrei citare altre decine, (Baglioni, Finardi, Daniele,) perché se ne tenevano alla larga? Perché dovevamo sorbirci Mino Reitano o Gianni Bella, cantanti sconosciuti o gente improbabile che mai al mondo avremmo ascoltato al di fuori di quelle serate? Nel corso degli anni ci fu qualche sporadica eccezione: Vasco Rossi (che infatti fece un fiasco clamoroso), Ron, Renato Zero, Cocciante, i Pooh, ma erano appunto delle eccezioni (ce ne erano state anche prima, persino il mio amato Rino Gaetano che spopolò con Gianna).

Tra il Festival e il pubblico (soprattutto quello giovane) c’era un abisso, uno scollamento enorme. Da qualche anno a questa parte non è più così e ora insieme alle vecchie cariatidi i miei figli ascoltano i cantanti che seguono normalmente. Cantautori indie, musica trap (per me inascoltabile, ma io sono decisamente boomer), personaggi che fino a qualche tempo fa sarebbe stato impossibile vedere sul palco dell’Ariston. E questo, ripeto, a prescindere dalla qualità delle canzoni proposte, non può che essere un elemento positivo. Poi certo, ci tocca vedere un cretino che “per divertirsi” distrugge un palco prendendo a calci i fiori (dice, ma dai in fondo ha vent’anni! Ma perché tu a vent’anni andavi in giro a spaccare tutto per divertimento?) o un comico che santifica la costituzione (bello, bravo ma anche basta) e uno la prostituzione (occhio che questo tra vent’anni fonderà un partito, con buone probabilità di vincere le elezioni).

“Tutto quanto fa spettacolo”, diceva il sottotitolo di una trasmissione di quando ero giovane (se sapete il titolo siete boomer anche voi). Ed è davvero così. Dalla provocazione per parlare della discriminazione sessuale agli appelli contro le dittature, dalle dirette sui social per commentare con le amiche (come farei senza di voi!), ai fantagiochi costruiti ad hoc, il tutto inframezzato dalle pubblicità di Poltrone&Sofà (ma solo fino a domenica), San Remo siamo noi, è lo specchio dell’Italia, con i suoi vizi e le sue virtù. E alla fine vinca il migliore, anche se sappiamo bene che poi vincere non conta nemmeno tanto, perché magari arriva ultimo il futuro Vasco Rossi. Un po’ come nella vita vera.

Quindi, come dicevo all’inizio, se anche non guardate San Remo, non importa. E’ lui che guarda noi.

Febbraio

Febbraio gioioso ma breve, diceva una filastrocca di quando ero piccolo. Febbraio della Candelora, di San Remo, di San Valentino, del carnevale, delle settimane bianche. Febbraio che ormai da anni è il mese più freddo (almeno a Roma) ed insieme quello che ci regala promesse di una bella stagione che sta per arrivare. E in effetti i vecchi dicevano che il 21 febbraio era “primavera a mare”, perché lì il tempo corre di più e anticipa quello che sarà.

Le giornate che si allungano mi trasmettono un buonumore quasi immotivato, ma quello che mi sorprende sempre sono le mimose, che con il freddo imperante sono già fiorite. Non a caso è il fiore delle donne. E le donne capiscono le cose prima e meglio di noi e pure che piove o nevica, lo sanno che la primavera è dietro l’angolo.

Resta qui ancora un minuto, se l’inverno è soltanto un’estate, che non ti ha conosciuto

Presto, presto o con tutta calma?

Fra le tante possibili classificazioni/diversificazioni delle persone, mi ha sempre incuriosito quella fra chi corre e chi se la prende comoda. Chi è pieno di adrenalina già alle 7 della mattina e chi invece alle 10, dopo il terzo caffè, ancora galleggia fra il sogno e la realtà. Ma possiamo fare mille esempi. Chi appena ha finito di mangiare si alza e sparecchia la tavola e chi invece rimane ancora un po’, per una chiacchiera, un dolcetto, il caffè e l’amaro e poi magari una sigaretta e non la finisce mai.

Voi in quale categoria vi sentite di appartenere? Siete fra quelli che il 7 gennaio, appena messi i Re Magi, vogliono sbaraccare tutte le luminarie natalizie, oppure siete quelli che cominciano a togliere gli addobbi a carnevale? Siete fra quelli che appena suona la sveglia riescono a tirarsi su, oppure siete fra coloro che amano fare GoroGoro? Siete maniaci della puntualità o avete abituato i vostri amici ai vostri ritardi? In ogni caso, come ci comportiamo nelle situazioni, dalle più banali a quelle più impegnative, dice molto di noi, forse anche più di quello che vorremmo si vedesse.

E infatti, queste due categorie, in questi piccoli atteggiamenti, rivelano come approcciamo la vita. Chi vive proiettandosi al futuro, pensando di poter guadagnare tempo e chi invece sta fermo nel presente, pensando che di tempo ce ne sarà sempre a sufficienza. I primi si nutrono di stress, lo alimentano e si alimentano con lui: una convivenza forzata, che però spesso diventa quasi ricercata. I secondi non sanno neanche cosa sia lo stress, in compenso rischiano a volte di cadere nella noia.

Io ho una posizione ambivalente. Mi piace svegliarmi presto, ma mi piace anche attardarmi a tavola. Non vivo con l’esigenza di pianificare, ma spesso mi ritrovo a farlo. Odio arrivare in ritardo, anche se da sempre vivo con una persona che invece fa del ritardo un abitus permanente. Lo stress non mi fa mai compagnia, tranne forse quando ho la sensazione di sprecare tempo.

E voi, dove vi ritrovate? Di quale categoria fate parte?

Insegna bene ai tuoi bambini

You, who are on the road, must have a code that you can live by
And so, become yourself, because the past is just a goodbye
Teach, your Children well, their father’s hell did slowly go by
And feed them on your dreams, the one they pick’s the one you’ll know by

L’altro giorno la mia amica Chiara riportava nel suo Blog, una serie di affermazioni dei suoi alunni (bambini delle scuole elementari), da cui veniva fuori un quadro che fa riflettere. Sintetizzando, i bambini (quelli in particolare? Direi proprio di noi. Anche la mia dolce metà lavora in una scuola elementare e mi racconta aneddoti simili) hanno già a quell’età dei pregiudizi molto ben articolati, dei confini come li chiama giustamente Chiara, nei quali rinchiudono “il noi”, per lasciare fuori “gli altri”.

Quindi i bambini sono razzisti? Forse no, a meno ché non provengano da famiglie con idee malate, però hanno ben chiara (o almeno, pensano di averla) l’idea su chi siano quelli che non fanno parte del loro gruppo. E sono molto drastici al riguardo. Chiara si domandava appunto quando comincia questo processo di selezione e perché. E’ colpa della società, della famiglia, della scuola? E’ un fatto “culturale”? In realtà io penso sia al contrario, un fatto molto “naturale”.

Molti hanno questa idea poetica della natura innocente, come se poi fosse invece la cultura, con i suoi pregiudizi a creare le differenze, ad alzare gli steccati fra il noi ed il voi. Ma se pensiamo agli animali, è molto difficile trovare l’accettazione dell’altro. E’ vero, può capitare che una gatta allatti un cagnolino, ma di solito i leoni stanno con i leoni, le scimmie con le scimmie. E anche all’interno della stessa razza, le logiche del branco portano ad escludere gli elementi di altri gruppi. Forse non sarà un pensiero condiviso, ma io credo che al contrario, l’accettazione della diversità, l’inclusione dell’altro, sia un processo culturale che distingue l’uomo da qualsiasi altro essere vivente.

Non a caso l’identità di gruppo (branco, tribù, razza, popolo, religione) è presente in ogni società, di qualsiasi tipo ed è solo grazie ad un lungo processo di evoluzione culturale, che si riesce (quando ci si riesce!) a superarlo. Il bambino è un’anima semplice, ma proprio per questo si sentirà sicuro quando si trova fra i suoi simili ed i confini del suo gruppo saranno i confini della sua sicurezza. Per abbattere questi confini bisogna vincere le paure ed aprire le porte alla diversità. L’unica cosa di cui aver paura è proprio la paura stessa: chi insegna, a qualsiasi livello, dovrebbe fare dell’inclusione la prima regola, dovrebbe testimoniare che la diversità è una ricchezza ineguagliabile. Ma per farlo ci vuole una maturità che pretendiamo nei bambini, ma che spesso purtroppo non hanno nemmeno le persone mature.

P.S. Un pensiero al grande Davis Crosby, che ci ha lasciato la scorsa settimana: adesso sei in un posto dove nessuno ti chiederà più di tagliarti i capelli!