Los Angeles: the End of Trial / 5

Los Angeles l’avevamo scelta principalmente perché era la tappa più semplice per rientrare in Italia. Nel viaggio di 25 anni fa eravamo stati a San Francisco, rimanendo lì per una decina di giorni ospiti di parenti, ora quindi avevamo qualche curiosità per la città degli angeli ed i suoi miti cinematografici. Diciamo subito che ci ha deluso molto. Dopo le grandi bellezze dei parchi e le follie di Las Vegas avevamo pensato di riposarci un paio di giorni nelle spiagge dell’oceano e quindi avevamo preso un appartamento alla famosa Venice Beach. E mal ce ne incolse! Purtroppo ingannati da qualche commento evidentemente pilotato siamo finiti in un posto assurdo, sporco, decadente, lontano parente rispetto a quello presentato nelle foto. Lezione da imparare e tenere a mente: le recensioni vanno lette tutte e soprattutto vanno valutate! Infatti fra i diversi giudizi positivi (tutti americani) ce ne era anche qualcuno molto negativo (guarda caso francesi e spagnoli). Morale della favola, nonostante avessimo già pagato l’intero importo, abbiamo deciso di andare via, scegliendo un albergo in un’altra zona.

Infatti, oltre ad essere una catapecchia la casa che avevamo scelto, siamo rimasti inorriditi anche dalla località. Speriamo che la nostra Venezia non si riduca mai come la sua omonima americana! Evitate di andarci e se proprio volete dargli un’occhiata vi consiglierei di farlo di giorno. Il ché non vi impedirà di vedere tossici e sbandati buttati per le strade, ma forse vi eviterà qualche guaio peggiore!

In effetti, come capita anche ad altre grandi città, ma in particolare in questo caso, parlare di Los Angeles è davvero un’astrazione. Basti pensare che la sua estensione geografica è pari alla regione Lazio: in realtà sono tante città messe insieme, l’una totalmente differente dall’altra, attraversate da strade gigantesche sempre, costantemente piene di un traffico senza regole se non quello del limite di velocità. Per il resto in quelle 5 o 6 corsie ognuno fa quel che vuole, superando sulla destra oppure uscendo o cambiando direzione senza mettere frecce. Il traffico è la metafora di come vivono gli americani: ognuno fa quel che vuole, (apparentemente) nessuno controlla, il più forte va avanti, gli altri rimangono indietro. In questo Los Angeles con i suoi eccessi e le sue contraddizioni è assolutamente esemplificativa. Puoi trovare le magnifiche ville di Beverly Hill ed insieme lo squallore più assoluto di Venice. Ma anche nella stessa Hollywood Boulevard, accanto o direttamente sopra le famose stelle delle star, incontri dei relitti umani abbandonati a se stessi come fossero rifiuti.

Personalmente sono sempre stato antiproibizionista. Ritengo che la legalizzazione delle droghe sarebbe un colpo mortale per le mafie di qualsiasi latitudine e non cambio opinione. Però girando per Las Vegas e ancor più a Los Angeles capisci che in ogni caso qualsiasi legalizzazione non dovrebbe mai significare un libero smercio senza regole. Quello che ho visto lì, la quantità di larve umane ad ogni angolo delle strade non può non farti riflettere. Ma passiamo alla descrizione di questi ultimi due giorni di viaggio.

Come detto il primo giorno, arrivati verso l’ora di pranzo, l’abbiamo perso per trovare una sistemazione migliore di quella già prenotata, poi in serata abbiamo fatto un giro a Manhattan Beach, altra località di mare, meno famosa, ma decisamente più frequentabile. Il giorno dopo ci siamo diretti al Griffith Observatory, uno dei punti migliori per vedere dall’alto la città e per ammirare la famosa scritta Hollywood che la contraddistingue.

Nel pomeriggio poi ci siamo spostati prima in Hollywood Boulevard, la già citata via delle stelle del cinema e poi a Rodeo Drive, la famosa via della moda di Beverly Hill.

In serata poi ci siamo spostati nuovamente al mare, stavolta a Santa Monica dove termina la Route 66.

Il giorno dopo, avendo il volo in tarda serata, abbiamo continuato il giro della città. In mattinata abbiamo visto Downtown, girando un po’ fra i grattaceli (niente a che vedere con New York) e alcune cose caratteristiche, come la biblioteca in stile tempio egizio, famosa per essere stata set di Ghostbuster.

Nel pomeriggio abbiamo fatto un tuffo in Messico, visitando il caratteristico El Pueblo, un mercatino etnico molto simpatico e poi ci siamo spostati nella famosa Melrose Avenue con i suoi caratteristici murales.

Voi direte, tutto qui? Ebbene sì! Certo, poi si potrebbero visitare gli Studios di Hollywood o andare a Disneyland, il primo parco a tema di questo genere, altrimenti  mi dicono molto bello anche il Getty Museum, il museo di arte contemporanea, ma al di là di questo, la – o meglio – le città che compongono Los Angeles non offrono molto altro. E così, 18 giorni e 6300 chilometri dopo, abbiamo lasciato la nostra macchinona al parcheggio della Alamo e ci siamo imbarcati per Roma, dove siamo atterrati quasi 24 ore dopo (11 di volo, 2 di ritardo, 9 di fuso orario).

Che dire in conclusione? Senza dubbio un viaggio indimenticabile, che ti lascia nella mente dei paesaggi indimenticabili e qualche interrogativo sull’America e gli americani.  Rispetto a 25 anni fa, per certi versi ho notato meno differenze: mi ricordo che rimasi letteralmente sconvolto dalla quantità di persone grasse, ma soprattutto dalla tipologia, perché gente in carne ce n’è anche da noi, ma persone così sformate dall’adipe è raro vederne. Allora erano molto più frequenti di oggi. In questo sono migliorati, anche se continuano ad avere un alimentazione esagerata di zuccheri e di grassi.

Basti pensare che la coca cola costa meno di un acqua minerale e soprattutto – delizia dei miei figli – il secondo (ma ho idea anche il terzo o il quarto) bicchiere di qualsiasi bibita gassata è gratuito, compreso nel prezzo del primo. A me certe cose sembrano contraddizioni enormi, come la lotta che fanno contro il fumo: le sigarette sono vietate ovunque, poi però come dicevo trovi tossici e sbandati al primo incrocio. Non esiste una mentalità ecologista di massa, non abbiamo trovato raccolta differenziata dei rifiuti da nessuna parte, in nessuno dei 6 Stati che abbiamo visitato. Però in compenso ho visto cani…con le scarpe!

Insomma, se è vero che loro sono qualche anno avanti a noi, auguriamoci di andare in un’altra direzione, perché non credo proprio che la loro sia quella giusta.

Spero di aver dato qualche suggerimento utile per chi volesse ripercorrere anche solo in parte il nostro percorso. Ovviamente se avete domande o curiosità specifiche su qualcuna delle località raccontate sarò ben felice di darvi qualche consiglio in più.

Viva Las Vegas! / 4

Las Vegas sembra uscita fuori dalla mente fantasiosa di un disegnatore di fumetti. Non mi sarei stupito se mi avessero detto che in realtà era nata come set di un film di Walt Disney! Di fatto, più che una città, è un gigantesco Luna Park con attrazioni ad ogni angolo della strada. E non a caso ho usato il singolare, perché in realtà la città è solo una strada “The Strip” lunga una decina di chilometri, con molte traverse che però di fatto non portano da nessuna parte. Tutto si svolge lì, lungo questa interminabile giostra, dove hanno riprodotto le più grandi opere architettoniche del mondo: dal Colosseo, alla Sfinge egizia, la Torre Eiffel o il campanile di San Marco.

Arrivando verso l’ora di pranzo, abbiamo deciso di dedicare il pomeriggio allo shopping, facendo un giro al North Premium Outlet, un grande centro commerciale dove i prezzi dei prodotti delle marche statunitensi, si trovano a prezzi inimmaginabili: magliette Lacoste o borse Michael Kors a meno di un quarto di quanto si trovino altrove. Una cuccagna per la parte femminile della nostra comitiva. Una specie di disgrazia per noi maschietti che non riuscivamo più a trascinarle via!

Nel tardo pomeriggio ho accompagnato il figliolo ad una meta per me sconosciuta, ma non per lui che si guarda queste trasmissioni strane che danno su Sky. Una di queste si chiama Gold & Silver Pawn – Affari di famiglia ed è girata proprio qui, in un negozio di pegni in cui si trovano grandi pezzi di antiquariato, stranezze e paccottaglie varie insieme a veri e propri cimeli: armi della guerra di secessione, piuttosto che oggetti appartenuti a quella o quell’altra star. Cinfesso che non l’avevo mai sentito nominare prima, ma mai avrei creduto di trovare una vera e proprio folla che visitava il negozio e fotografava l’insegna fuori neanche fosse un monumento famoso!

La sera poi abbiamo percorso un bel tratto della Strip, visitando qualche Casinò e quindi buttando qualche dollaro nelle famose slot machine. Che rispetto a quanto mi ricordavo hanno perso molto del loro fascino: non c’è più la famosa leva che faceva muovere il meccanismo del gioco, né ci sono più i gettoni. Tutto elettronico, tutto molto più silenzioso, ma anche molto meno “poetico”! Lo sono sempre state, ma adesso ancor più, possiamo dire che sono solamente macchinette mangia soldi. La cosa più bella sono i giochi d’acqua organizzati nella piscina del Bellagio, anche questa una perfetta ricostruzione di quello del Lago di Como.

Ogni quarto d’ora le fontane si scatenavano al ritmo di musica, ogni volta diversa: dall’immancabile Elvis al sempre azzeccato Glenn Miller, bisogna dire che è forse l’unica cosa veramente bella e non pacchiana. A parte questo il lusso degli alberghi-casino e le luci sfavillanti delle varie attrazioni fanno da stridente contraltare con tutto il resto: basta voltare un angolo, girare per le traverse che ti allontanano da questa enorme giostra e ti trovi davanti ubriachi o tossici buttati per strada, abbandonati a se stessi come da noi neanche un cane randagio. La presenza massiccia delle forze dell’ordine attutisce solo un poco il disagio e la sensazione di insicurezza che si prova, ma purtroppo questa è l’altra faccia della luna, che a Los Angeles avremo poi modo di vedere in tutta la sua drammaticità.

Ed è proprio quella la meta verso la quale ci dirigiamo il giorno dopo, per terminare il nostro lungo viaggio sulle spiagge della California!

I parchi dello Utah: Canyonland, Arches, Bryce Canyon / 3

Pur essendo Stati confinanti e tutto sommato molto simili geograficamente parlando, tra Arizona ed Utah la differenza salta agli occhi. Soprattutto se come noi passate dalla riserva Navajo! Da una parte casette mezze diroccate, baracche in legno e lamiera, terra deserta a perdita d’occhio, dall’altra villette con giardinetto e bandiera americana, campi coltivati anche in maniera intensiva. C’è poco da nascondere, purtroppo la situazione dei nativi americani è ancora molto critica, l’integrazione c’è stata solo marginalmente e la povertà generale è tangibile.

Al contrario lo Utah, terra dei mormoni, dà proprio una sensazione di prosperità, sembra quasi la nostra Emilia Romagna, gente laboriosa che ha saputo piegare la natura ai propri bisogni, senza stravolgerne le caratteristiche, ma senza dubbio cercando di trarne il meglio. Che i mormoni siano poi impaccati di soldi lo sappiamo bene anche a Roma, dove hanno costruito una cattedrale da fare invidia ai monumenti di Santa Romana Chiesa! Il primo approccio con loro ce l’abbiamo avuto a Bluff, paesino vicino al confine con l’Arizona, a circa venti chilometri dalla Monument Valley. Qui hanno creato una perfetta ricostruzione di un villagio dei pionieri che fa vedere il loro stile di vita, con tanto di filmati ed audio in tutte le lingue (compreso l’Italiano). Per i più minchioni disposti allo scherzo, c’è anche la possibilità di vestirsi come veri pionieri e posare in mezzo al villaggio (potevo perdermi l’occasione?)

Da lì ci siamo diretti a Moab, cittadina che si trova proprio nei pressi di due parchi: Canyonland e Arches. Il primo è una sorta di Grand Canyon in piccolo. Lo si riesce a visitare in un pomeriggio, sempre seguendo i percorsi in macchina che portano ai vari affacci.

Dovessi fare una classifica, fra i sei parchi che abbiamo visitato, forse questo è il meno caratteristico, però era lì a due passi, comunque offre scorci interessanti e dunque non posso dire che non ci sia piaciuto. Anche qui il fiume Colorado disegna dei percorsi molto caratteristici.

Tutt’altro discorso invece riguarda il parco di Arches, che poi era il vero obiettivo che ci aveva spinto da quelle parti. Come dice il nome, la cosa caratteristica, che si trova anche altrove ma che lì è davvero preponderante, è la presenza di archi di pietra, formati dall’erosione, dal vento e dall’azione di altri agenti naturali che si sono divertiti nel corso dei millenni a creare scenari molto suggestivi.

Anche questo parco è possibile visitarlo limitandosi a fare il giro in macchina nei vari affacci, oppure avventurandosi in alcuni sentieri che costeggiano le rocce più caratteristiche. Varrebbe la pena dedicarci una giornata intera, ma noi siamo capitati nella giornata penso più calda degli ultimi anni e quindi di passeggiate ne abbiamo fatte ben poche, perché il rischio di squagliarsi fra le rocce era tangibile. Gran peccato, perché alcune formazioni rocciose sono molto particolari e varrebbe la pena avvicinarsi il più possibile.

Hai la sensazione che un bambino gigante si sia divertito a fare delle costruzioni con dei massi enormi, come castelli di carta, mettendoli in equilibrio uno sull’altro. Per dire l’importanza di questo parco, basti pensare che il simbolo dello Utah è il Delicate Arch, una delle formazioni rocciose presenti qui, che noi abbiamo visto solo da lontano perché come vi dicevo avventurarsi a piedi sarebbe sato troppo complicato (qui sotto sulla sinistra).

Da Moab il giorno dopo di nuovo in macchina per l’ultima destinazione di questo giro naturalistico: il parco di Bryce Canyon. Sempre seguendo quella ipotetica classifica di cui vi dicevo, sarei tentato di mettere questo parco al primo posto fra tutte le bellezze che abbiamo visitato perché i colori che si vedono in quelle rocce, dal rosso all’arancione aragosta non hanno paragoni in nessun altro parco.

Anche in questo caso abbiamo fatto bene ad arrivare il giorno prima, in modo da avere poi una giornata completa per la visita. Come per il Grand Canyon l’organizzazione del posto è molto efficiente: anche qui ci sono delle navette che ti portano in quasi tutti gli affacci e poi da lì c’è la possibilità di scendere lungo sentieri oppure costeggiare il Canyon lungo un sentiero quasi sempre asfaltato. Che poi in realtà non si tratta di un Canyon vero e proprio, ma piuttosto di un enorme anfiteatro dentro il quale ci sono queste formazioni rocciose (chiamate Hoodoos), che sembrano gigantesche stalagmiti, formate nel corso dei millenni dall’erosione dell’acqua. Infatti originariamente tutta l’area era sommersa dal mare che poi, sempre a causa dei cambiamenti climatici, si è ritirato, lasciando questo spettacolo di rara bellezza.

Avremmo voluto scendere per i sentieri fino a raggiungere il fondo valle, ma il caldo anche in questo caso ci ha fatto desistere. Abbiamo percorso un tratto per un’oretta e debbo dire che poi risalire è stata davvero dura! Anche perché non bisogna dimenticare che ci troviamo a circa 2400 metri di altitudine e quindi anche l’aria è molto rarefatta (mi dicono che in inverno con la neve lo spettacolo è ancora più impressionante).

E così possiamo dire senza ombra di dubbio di aver concluso in bellezza la parte naturalistica del viaggio. Per chi volesse ripercorrere questo giro, riassumo mete e giorni:

  1. Visita di Williams e Seligman e arrivo nel pomeriggio a Grand Canyon
  2. Visita del grand Canyon
  3. Mattina visita del Grand Canyon, pomeriggio spostamento ad Holbrook
  4. Visita del Deserto Dipinto
  5. Spostamento con visita alla Monumenti Valley
  6. Visita di Bluff e spostamento a Moab, pomeriggio visita a Canyonland
  7. Visita di Arches
  8. Spostamento verso Bryce Canyon
  9. Visita Bryce Canyon

Se come vi dicevo aveste la possibilità di aggiungere un paio di giorni, così da vedere il Canyon de Chelly e Lake Powell, avreste chiuso il cerchio, visitando le maggiori attrazioni di Arizona e Utah. In ogni caso, con una macchina a disposizione, una decina di giorni sono sufficienti per girarli tutti. Ovviamente avendo qualche giorno in più si può decidere di fermarsi per visitare in modo più approfondito Grand Canyon e Brice Canyon, che sono quelli che offrono più possibilità.

Noi, prima del ritorno in Italia, abbiamo ancora altri due Stati da visitare con due mete, stavolta più civilizzate (“c’hai portato a vedere dieci giorni di sassi“…quel poeta di mio figlio): la prima è l’incredibile Las Vegas!

I parchi dell’Arizona: Grand Canyon, Foresta Pietrificata e Monument Valley / 2

La cosa più seccante di questo viaggio, l’unico vero inconveniente sono stati i ritardi aerei: sia il Roma NY che il NY Phoenix ci hanno fatto perdere più di sei ore! Così, dopo una lunga attesa siamo arrivati in Arizona in tarda serata. Il tempo di familiarizzare con un macchinone gigantesco e via a dormire in albergo. Dopo il gran caldo sofferto a NY dovendo girare per deserti e praterie temevamo un po’ le temperature che invece ci hanno piacevolmente stupito: una leggere pioggerellina ci ha fatto compagnia nel tratto che da Phoenix ci ha portato verso la mitica Mother Road, la Route 66, che con i suoi 3000 chilometri collega Chicago a Los Angeles. Prima di arrivare al Grand Canyon quindi ci siamo tuffati nelle atmosfere del mito americano, alla scoperta del west lungo questa celeberrima strada, visitando un paio di cittadine caratteristiche: Seligman e Williams.

Una delle idee iniziali per questo viaggio era proprio quella di percorrere tutta la Route 66. Si può fare, con qualche difficoltà perché in alcuni punti è quasi nascosta e in altri è stata soppiantata da alcune Interstate (diciamo, le nostre autostrade): avevo fatto un itinerario, con le varie tappe che coprivano i 18 giorni di viaggio attraverso i 3000 chilometri che la compongono, però alla fine ho desistito. Sarebbe stato bello, ma probabilmente vale la pena farla se si hanno più giorni a disposizione, altrimenti rischi di stare sempre in macchina. Al termine del viaggio abbiamo fatto più del doppio dei chilometri, ma spesso utilizzando le Interstate, che comunque hanno dei limiti velocità quasi accettabili (in media 110 km ora), mentre nelle strade normali non si va a più di 80.

Visitare il Grand Canyon si può fare in molti modi, a seconda del tempo che si ha e della voglia di scarpinare: noi arrivando la sera prima, avevamo poi un giorno e mezzo a disposizione. Diciamo subito che in teoria ci sono tre lati da cui si può visitare: il lato sud, che è quello più famoso, il più comodo ed il più attrezzato, il lato nord, più selvaggio e meno accessibile e poi recentemente sono stati aperti degli affacci su cosiddetto lato ovest, anche questo abbastanza scomodo da raggiungere. Come quasi la totalità dei visitatori quindi ci siamo concentrati sul South Rim.

L’entrata di tutti i grandi parchi è a pagamento, sempre intorno ai 30 dollari a macchina. Era un’informazione che non avevo raccolto prima di partire, altrimenti avrei fatto senza dubbio la tessera da 80 dollari che ti permette di entrare in tutti i parchi nazionali degli States (tranne la Monument Valley che si trova all’interno della riserva ed è gestita esclusivamente dai Navajo). In ogni caso, il biglietto di entrata è valido per una settimana, quindi ti permette di visitare il Parco con comodità. Rispetto a come ce lo ricordavamo 25 anni fa è molto cambiato: non certo nei panorami mozzafiato, ma nelle strutture di accoglienza. Oltre alla possibilità di girare con la propria macchina ora c’è un comodissimo servizio navetta, che ti porta in tutti gli affacci più importanti con una frequenza da fare invidia alla metropolitana di Roma: durante le ore diurne ogni quarto d’ora i pullman delle navette ti portano da un punto all’altro come fossero appunto stazioni della metro. I vari affacci sono raggiungibili anche a piedi, lungo un sentiero per la maggior parte dei tratti anche asfaltato.

Certo, la cosa più bella sarebbe scendere da uno dei diversi sentieri che si avventurano all’interno del Canyon ed arrivano al fondo valle, lungo il corso del fiume Colorado che nei millenni ha scavato le rocce formando questo scenario da sogno. Per percorrerlo tutto fino al fiume ci voglio tra le 10 e le 12 ore, ma arrivati ad un certo punto ci sono dei rifugi che – prenotando per tempo – danno la possibilità di dormire gratuitamente, per poter quindi risalire il giorno successivo. Ovviamente sono sentieri impegnativi, che non avevamo né il tempo, né la voglia di percorrere:  ci siamo limitati a scendere per un tratto, così per farci un’idea e toglierci anche questa curiosità.

Se ci si limita al percorso lungo il Rim, una giornata e mezza sono sufficienti. Il primo giorno abbiamo utilizzato la nostra macchina, per percorrere i 40 chilometri di affacci che vanno dal campo base alla Torre indiana (ricostruita negli anni 30 del secolo scorso). Nella mattinata del secondo giorno invece, con le navette (in questo tratto la circolazione dei veicoli privati è interdetta nei mesi estivi) abbiamo visitato la parte ad ovest del campo base, fino all’ultimo affaccio, Hermits Rest.

Lo spettacolo è davvero incredibile. Ci si scopre piccoli e quasi inermi di fronte a questo scenario imponente dove la natura sembra aver voluto dare sfoggio della sua maestosità.

Lasciato il Grand Canyon ci siamo diretti ad Holbrook, un’altra caratteristica cittadina lungo la Route 66. Da qui il giorno dopo abbiamo visitato il secondo parco, la Petriefed Forest and Painted Desert. Tutt’altro scenario rispetto a quello dei giorni precedenti: qui lasciati alle spalle i boschi del Grand Canyon e l’immensa prateria che costeggia la Ruote, ci troviamo proprio in mezzo al deserto, un deserto “dipinto”, grazie alle diverse stratificazioni rocciose che lo compongono, ma sempre deserto!

Nella parte conclusiva del parco poi si trovano tutta una serie di alberi letteralmente pietrificati. Il rapido quanto radicale mutamento climatico avvenuto qualche milione di anni fa ha determinato questo stranissimo fenomeno.

Una mattinata è sufficiente per compiere in macchina l’intero tragitto all’interno del Parco, compresa anche qualche breve passeggiata per vedere alcuni punti caratteristici. Nel pomeriggio abbiamo ripreso un po’ di fiato e di forze, girando per i negozietti di Holbrook, nuovamente dedicati alla Mother Road!

Il giorno successivo ci aspettava il terzo parco dell’Arizona, quello reso celebre da tanti film western, la Monument Valley. Come dicevo ci troviamo all’interno della riserva anzi della nazione indiana dei Navajo, la più grande degli Stati Uniti, anche se gran parte desertica. Anche questa l’avevamo visitata allora, ma qui le cose rispetto al Grand Canyon non sono cambiate più di tanto. Il percorso possibile è su per giù sempre lo stesso, attraverso una pista non asfaltata che corre lungo tutta la valle, incorniciata da queste strutture rocciose davvero bellissime.

Già che ci sono, due parole voglio spenderle anche per gli altri due parchi dell’Arizona che vedemmo venticinque anni fa. Stavolta non ci siamo stati perché abbiamo preferito vedere posti in cui non eravamo stati, ma doveste pianificare un viaggio lì, avendo un altro paio di giorni a disposizione, ve lo consiglio. Si tratta del Canyon de Chelly, un bellissimo Canyon molto più piccolo, in cui è possibile scendere ed attraversare con la propria macchina e il Glen Canyon, che sarebbe la parte alta del Grand Canyon, dove una gigantesca diga ha bloccato le acque del Colorado creando Lake Powell, un grande lago visitabile con dei barconi che risalgono il fiume fino al famoso Raimbow Bridge, un gigantesco arco di pietra, che sembra appunto un arcobaleno. Due scenari molto particolari, differenti dagli altri, che vale la pena visitare. Lasciata la Monument Valley si trova il punto esatto in cui il mitico Forrest Gump decide di smettere di correre. Inutile dire che ora è una meta imperdibile per una foto e dopo tanto girare, anche io ero “un po’ stanchino!”

Come dicevo purtroppo i giorni a disposizione non erano sufficienti per vedere tutto (ed altro ancora ci sarebbe!) e per noi era tempo di lasciare l’Arizona e dirigersi verso nord, per visitare i parchi dello Utah!

Resoconto semiserio di 3 giorni a New York / 1

Il nostro soggiorno a New York comincia in un altro Stato e più precisamente a Hoboken, ridente cittadina del New Jersey che si affaccia di fronte a Manhattan da cui è divisa dall’Hudson. Un amico che ha dei parenti lì mi aveva suggerito questa soluzione, che ha alcuni benefici, ma anche degli indubbi svantaggi. Avevamo preso un bell’appartamento ad un prezzo che senza dubbio a Manhattan non avremmo trovato e la sera eravamo nella cittadina che ha dato i natali a Frank Sinatra, in una zona molto tranquilla, a cinquanta metri dal famoso Mago delle torte, di cui abbiamo saggiato le indubbie capacità.

Lo svantaggio maggiore è stato il fatto che, pur essendo a 15 minuti di metro dal centro di Manhattan, le linee che collegano Hoboken non fanno parte del circuito cittadino di New York. Hanno lo stesso prezzo (una corsa 2,75 dollari), ma non rientrano nell’abbonamento settimanale, che con 30 dollari è indubbiamente la soluzione più economica per girare la Grande Mela. E poi certo, girando tutto il giorno, una volta tornati a casa la sera, difficilmente ti vien voglia di uscire nuovamente e tornare a NY per un giro notturno. Insomma, pro e contro. Non so se rifarei la stessa scelta, però doveste fare un giro da quelle parti, comunque un salto lì ve lo consiglio.

Vedere NY in tre giorni, se escludiamo i musei come avevamo deciso fin da subito, è abbastanza soddisfacente. Ovviamente ci si potrebbe rimanere una settimana e più e non correresti il rischio di annoiarti, ma con un programma ben definito, si riescono a vedere le maggiori attrazioni anche con soli tre giorni. Il primo giorno abbiamo girato a piedi nella zona centrale di Manhattan: Broadway, Times Square e zone limitrofe, partendo ovviamente dalla mitica 5th Avenue.

Rispetto a 25 anni fa mi ha fatto tutta un’altra impressione: caotica, piena di gente, ma tutto sommato tranquilla. Quell’inquietudine generale che ricordavo aver provato allora, quel senso di insicurezza generale, non l’ho proprio avvertito, né girando per le strade, né in metropolita. Sarà che allora eravamo giovani e sprovveduti, che non avevamo poi girato il mondo più di tanto, sarà che ormai con internet e un telefono in mano azzeri qualsiasi distanza, in ogni caso mi è sembrata quasi familiare. Nel pomeriggio siamo saliti sulla Freedom Tower, il grattacielo che ha preso il posto delle Torri Gemelle, con un panorama mozzafiato su tutto il circondario.

Nella salita in ascensore fino al 101 piano viene proiettato sulle pareti l’evoluzione dello skyline di NY ad un ritmo accelerato, dagli inizi del 900 ad oggi: il tutto in meno di 30 secondi! Veramente emozionante.

Il secondo giorno l’abbiamo dedicata a Upper Manhattan. Siamo arrivati ad Harlem, visitando la grande cattedrale cattolica costruita dalla fine dell’800 fino agli anni 50: la più grande Chiesa del mondo la definiscono. Non so se sia così, ma indubbiamente è gigantesca (come quasi tutto, del resto).

Abbiamo girato un po’ per il quartiere e poi ci siamo infilati nel Central Park, dove abbiamo fatto un bel percorso fra i luoghi più famosi del parco.

La mattina del terzo giorno siamo andati a Downtown, visitando il World Trade Center e il Memorial delle Torri Gemelle

Poi un po’ di shopping a Century 21 un outlet fornitissimo dove soprattutto i marchi americani si comprano ad ottimi prezzi. Nel pomeriggio immancabile giro in barca alla Statua della Libertà e poi a Ellis Island, il punto in cui gli immigrati erano tenuti in quarantena e dove veniva deciso il loro destino: accolti o rifiutati!

Il quarto giorno avevamo l’aereo per Phoenix dove sarebbe cominciato il nostro giro per i parchi, ma nella mattinata abbiamo fatto in tempo a fare un ulteriore salto a NY per vedere più da vicino il famoso Ponte di Brooklin

Come dicevo, NY si fa conoscere ed apprezzare anche con un tempo così ridotto. Le distanze non sono poche, ma con la metropolitana si gira abbastanza bene in tempi ragionevoli e poi ovviamente si cammina tanto! Gli efficientissimi smartphone ci hanno documentato una media di 13 kilometri al giorno, con il picco di 18 il primo giorno. Ci ritorneremo, perché vale la pena calarsi meglio nella realtà cittadina, ma come primo assaggio soprattutto per i ragazzi, possiamo ritenerci soddisfatti. E poi questo era appunto solo il trampolino di lancio verso la meta vera e propria: nel pomeriggio siamo tornati a Newark e ci siamo imbarcati per la tanto desiderata Arizona!

Te la do io l’America

Quello che abbiamo viaggiato insieme, nessuno potrà più portarcelo via

Se c’era un sogno nella mia vita, che prima o poi ero certo di realizzare, era quello di tornare in Arizona. C’ero stato in viaggio di nozze, venticinque anni fa, il viaggio della vita. E così non mi sono lasciato scappare l’occasione dei festeggiamenti per la ricorrenza per tornare. “Ma con tutte le mete e le destinazioni esistenti. Con tutti i posti che non hai ancora visto, perché tornare dove sei già stato?”

Bella domanda. A cui però non c’è una risposta. Non lo so perché: forse perché il viaggio più autentico è sempre un ritorno, forse perché ognuno di noi ha un posto del cuore ed è lì che vuole sempre ritornare. Oppure magari è vero che ho letto troppi fumetti western! In ogni caso se mi avessero chiesto, potendo fare un viaggio, dove vorresti andare? Non avrei avuto dubbi, in Arizona! E così da un annetto circa ho cominciato a pianificare il viaggio, scegliendo l’itinerario, individuando le cose da vedere, monitorando le tratte aeree e le sistemazioni migliori. Per l’occasione anche i figli, dopo qualche discussione e qualche concessione, hanno deciso di seguirci e poi si sono agginti anche alcuni amici carissimi. Alla fine eravamo in sette: come i magnifici sette, le sette meraviglie i giorni della settimana o se preferite i nani di Biancaneve.

Fosse stato per me avrei concentrato il viaggio nel selvaggio west, ma che fai, vai in America e non passi a New York? E così la prima tappa era scontata. Per rientrare in Italia poi bisognava comunque arrivare in California e non vuoi fare un salto a Las Vegas? E così anche la penultima e l’ultima tappa erano stabilite e direi quasi obbligate: 18 giorni in tutto, perché di più non avrebbero retto né il nostro portafogli, né la pazienza dei figli che volevano essere in Italia per Ferragosto.

E’ stato un viaggio fantastico, quasi meglio di come me l’ero immaginato, con qualche contrattempo, che però è quasi inevitabile, ma con moltissime cose belle che ci rimarranno dentro per molto tempo. Dividerò il resoconto a tappe, seguendo il nostro itinerario, così da non appesantire la lettura dei miei pazienti viaggiatori ermeneutici. Per cominciare confermo quello che scrivevo qui riguardo l’America e gli americani, per il resto vi rimando alla prima tappa, che ovviamente riguarderà la grande mela: New York City!

 

 

Dittico Western. 2 – Knockin’ on the Heaven’s Door

 Ci sono due modi per tornare da una battaglia: con la testa del nemico o senza la propria

 

Domenica 25 giugno 1876. C’era un ombra fra le tue certezze. Fra le tue certezze di uomo di successo. Di uomo abituato a raggiungere tutti gli obiettivi con il massimo dei voti. Con il massimo dei voti e il plauso degli astanti. La tua lunga chiamo bionda, i tuoi baffi, tutto trasuda successo, anche il più piccolo particolare. L’immagine conta, eccome se conta e tu lo sai bene. Hai costruito la tua immagine giorno per giorno, senza tralasciare nulla, per arrivare ad essere quello che sei. Un mito, un eroe. E hai faticato per arrivarci, hai lavorato sodo, perché nessuno ti regala nulla. Ma c’era un’ombra. Ero io.

Mi hai difeso, hai cercato di proteggermi a volte. E mi hai spronato, hai provato a tirar fuori il meglio da me. Hai provato a darmi fiducia, mi hai insegnato a non accontentarmi perché c’è sempre da migliorare. Ma io non ero come te. Io non sono e non sarò mai al tuo livello. Tu sei una montagna troppo alta da scalare. Alla tua ombra mi sono riposato quando mi sentivo stanco e mi sono protetto quando fuori era troppo dura per stare. Ma non puoi chiedermi di essere alla tua altezza, di essere montagna come te.

Ci hai guidato tutta la notte, come sempre sei stato il primo, quello che ha dato l’esempio. Oggi ci sarà battaglia, hai detto. Oggi entreremo nella storia.  Ma stavolta George hai fatto male i tuoi calcoli. Stavolta il grande George ha sbagliato! Lo vedo nei tuoi occhi, l’ho visto tante volte quando guardavi me. Quando mi compativi e mi disprezzavi, perché non ero come avresti voluto. Ma ora finalmente è diverso. Ora stai guardando te stesso e la tua sconfitta.

Pensami come qualcuno che non ti sei mai immaginato. Ricordami come un eroe incompiuto.  C’ho provato George, fino all’ultimo, ma non ci riesco. Per essere eroe devo essere te. Per questo ora, nel giorno della tua sconfitta, ti salverò. E’ stato facile colpirti alle spalle, ti fidavi di me. E facevi bene, perché io non ti ho mai tradito. Deluso sì, forse, ma tradito mai. Ecco, ora che sei qui inerme sembri quasi un bambino. Ho tagliato i tuoi capelli mentre dormivi, nessuno si accorgerà dello scambio.  Finalmente potrò restituirti un po’ di quello che mi hai dato. Io guiderò il 7 cavalleggeri al massacro, io ti farò entrare nella storia e nella gloria. E mio sarà lo scalpo che stasera adornerà la tenda del nemico.

 

Dittico western. 1 – Liliwhite Lilith

Cantami o diva dei pellerossa americani, le gesta erotiche di squaw pelle di luna.

Piccolo Falco non era ancora mai stato con una donna.

Sempre in giro per il selvaggio west con il suo papà, il grande capo dei Navajo, il mitico Aquila della notte, a combattere indiani cattivi, fuorilegge, banditi, rapinatori e chi più ne ha più ne metta. Sparatorie, scazzottate, risse, pericoli di ogni genere. Anche volendo, quando avrebbe avuto il tempo di inseguire qualche gonnella? Mica come quel gran furbone dello zio Kit, che da giovane aveva fatto stragi di cuori. Almeno a sentir lui. Certo, nonostante gli anni e il pizzetto bianco le donne ancora lo attiravano. Eccome se lo attiravano. Il padre no. Morta la moglie aveva chiuso con certe cose. Aveva ben altro a cui pensare!

Ed il regime monastico a cui si era votato era stato esteso automaticamente anche al giovin virgulto che lo seguiva come un ombra adorante. E così, Piccolo Falco cresceva forte e intrepido, leale e generoso come un cavaliere medievale, ma casto come un monaco di clausura. Ma non era mica giusto! Anche il fedele Tiger Jack gliel’aveva detto tante volte:

Smettila di portartelo sempre dietro! Fagli frequentare giovani e soprattutto fanciulle della sua età.

Alla lunga qualche dubbio si era insinuato anche nel grande capo, che aveva chiesto consiglio al saggio Sakem del villaggio Nuvola Rossa. Quest’ultimo convocò il giovane e lo fece sedere intorno al fuoco sacro, interrogandolo:

Piccolo Falco, sei diventato ormai un guerriero, forte e coraggioso, quasi come tuo padre. Adesso è ora però che diventi uomo.

Grande Sakem, ma io sono già un uomo!

Non ancora!

Ma, che devo fare ancora?

Parti verso ovest, nella direzione del sole che tramonta, parti da solo e vedrai che il grande spirito ti illuminerà e ti dirà che cosa dovrai fare.

Così Piccolo Falco partì sul far del tramonto, seguendo il percorso del sole che andava a morire dietro le colline. Sopraggiunse la notte e lui trovò riparo in una radura sul limitare del bosco. Si era appena addormentato quando fu svegliato dal rullo di un tamburo in lontananza. Per il suo orecchio abituato era fin troppo chiaro cosa volesse dire: qualcuno in quel momento era al palo della tortura. La curiosità superava ogni prudenza, doveva vedere chi era il malcapitato. Con tutte le accortezze che la lunga esperienza gli aveva insegnato si avviò verso il suono e…non si era sbagliato. In una radura poco distante una trentina di indiani stavano intorno ad un palo a cui era legata una vecchia orripilante.

Strega dei boschi, ormai non ci scappi più! Questa notte te ne tornerai nell’inferno da cui sei uscita e così finirai di tormentare i prodi guerrieri Apache!

E così dicendo fecero per dare fuoco agli arbusti messi ai piedi della vecchia legata, che da parte sua urlava sempre più. Ma come detto la prudenza non era fra le virtù principali di Piccolo Falco, che senza pensarci due volte si precipitò lì in mezzo, armi in pugno.

Vi ci sapete mettere, in trenta contro una povera vecchia eh! Ma dovrete fare i conti con me.

Il suo arrivo improvviso colse tutti di sorpresa e per un momento calò un silenzio che poteva essere preludio di uno scontro. Piccolo Falco era pronto a battersi, ogni muscolo teso per parare i possibili colpi, quando inaspettatamente, quello che doveva essere il capo degli Apache scoppiò in una risata fragorosa, ben presto seguito da tutti quanti. Piccolo Falco era completamente allibito…

Giovane cucciolo Navajo, cosa pensi di fare?Piombi qui da solo in mezzo a trenta guerrieri per fare cosa? Pensi di spaventarci?

Non permetterò questo crimine! Questa povera donna…

Sei pazzo! Non sai in che guai ti stai mettendo! Questa è la strega Lilith, che con i suoi sortilegi ha rovinato più d’uno di noi. Ora siamo riusciti a catturarla e a fissarla nel suo vero volto, ma se la liberi si trasformerà di nuovo e per te sarà la fine!

Io sono Piccolo Falco, figlio del grande Aquila della Notte e non ho paura delle vostre superstizioni!

Conosco tuo padre e so che è un guerriero saggio. Allora se è così ti concedo di liberare questa donna, ma tu sarai responsabile per lei. Dovrà restare con te ed io ti considererò responsabile di qualsiasi cosa potrà accadere in futuro per colpa sua.

E così sia, lei viene via con me ed io sarò responsabile per lei.

Detto questo liberò la vecchia e si allontanò da loro. Certo, non sarà stata una strega, come dicevano quegli sciocchi, ma per essere brutta lo era davvero! Pochi capelli bianchi ricoprivano un teschio ricoperto da una pelle gialla piena di macchie scure, sul viso scavato spiccava un naso aquilino sormontato da un porro enorme o forse una pustola.

Grazie, giovane guerriero Navajo. Ti devo la vita!

Quei codardi! Prendersela con una povera signora, come lei…

L’educazione impartitagli, il senso cavalleresco innato lo facevano parlare così, ma non gli impedivano di restare inorridito dalla bruttezza assoluta della donna, né potevano impedirgli di sentire quell’odore nauseabondo di formaggio andato a male, che emanava il corpo della vecchia, che per i troppi strapazzi piombò a terra svenuta. Il ragazzo rimase un attimo perplesso: l’aveva salvata, forse avrebbe potuto riprendere il suo cammino e…No, certo che non poteva abbandonarla! E così si fece forza, si turò il naso e chinatosi la prese facilmente in braccio per portarla al riparo. Trovò una grotta nei pressi del bosco e lì, ormai al sicuro, si addormentò. Ma quella notte evidentemente non doveva essere fatta per riposare, dopo neanche un’ora Piccolo Falco fu svegliato da una voce che lo chiamava per nome

Piccolo Falco, vieni qui, ho freddo, vieni qui vicino a me!

Il ragazzo si tirò su di botto, pensando ancora di dormire. La vecchia non c’era più e al suo posto c’era una bellissima ragazza dai lunghi capelli neri, la pelle d’argento e gli occhi verdi che brillavano alla luce della luna che con un gesto della mano lo attirava a sé.

Fu così che Piccolo Falco divenne uomo, come gli aveva detto il vecchio Nuvola Rossa.

Quando stava quasi per terminare quella notte magica e le prime luci dell’alba stavano diradando le tenebre, la ragazza gli parlò

Piccolo Falco, io sono davvero una strega! Hai visto i miei due volti, perché purtroppo doppia è la mia natura. Tu sei stato gentile con la mia parte orribile, mi hai salvato e non mi hai abbandonata nonostante sappiamo bene quanto possa essere terribile. Per questo ho deciso di svelarti anche la mia seconda faccia. Ora siamo legati per sempre, ma tu dovrai rispettare questa mia doppia natura. Per metà del tempo sarò una vecchia repellente e per l’altra metà sarò una splendida fanciulla. Tu avrai però la possibilità di scegliere quale dei due aspetti dovrò assumere di giorno e quale di notte.

Povero Piccolo Falco, che scelta crudele! Una donna meravigliosa al suo fianco durante il giorno, quando era con i suoi amici, ed una stregaccia orripilante la notte? O forse la compagnia della megera di giorno e una fanciulla incantevole di notte con cui dividere i momenti di intimità? Cosa scegliere?

Il nobile Piccolo Falco disse alla strega che avrebbe lasciato a lei la possibilità di decidere per se stessa. Sentendo ciò, la strega gli sorrise, e gli annunciò che sarebbe rimasta bellissima per tutto il tempo, proprio perchè lui l’aveva rispettata e l’aveva lasciata essere padrona di se stessa.

 

Non importa se la tua donna è bella o brutta, se è intelligente o stupida. Dentro di sé è sempre una strega (proverbio Navajo)

 

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Trilogia battistiana – Planando sopra boschi di braccia tese

Ci sedemmo dalla parte del torto, perché tutti gli altri posti erano occupati. (B. Brecht)

–  Corri, corri, corriiiiiiii!!!! Alfredo urlò con quanto fiato aveva in gola. Paolo lasciò in terra tutte le cose, il secchio, la colla, i manifesti e cominciò a correre, a correre a perdi fiato. Sentiva Alfredo che urlava sotto i colpi, i pugni, i calci, le bastonate. Villa Paganini, corso Trieste, ce l’aveva fatta, non l’avrebbero più raggiunto.

Mi chiamo Paolo. E sono un fascista. Lo so cosa pensate di me. Li vedo i vostri sguardi di disapprovazione o di sufficienza. “Fascista! Cosa ne vuoi sapere tu del fascismo, ragazzino!” Ma per me non è così. Certo a volte anch’io ho qualche dubbio, anche io penso che questa violenza sia sbagliata, ma che dobbiamo fare? Noi ci dobbiamo pur difendere. Perché siamo attaccati ovunque. A scuola con le parole e con il disprezzo, la notte con le botte. Gli altri non capiscono, pensano che noi siamo violenti, razzisti. Ma è una minoranza, la gran parte di noi non è affatto razzista. Noi stiamo con gli indiani d’America contro le giubbe blu, siamo con gli scozzesi contro l’Inghilterra, siamo con i palestinesi oppressi dai sionisti. Hitler ci fa schifo, come Stalin, come tutti i dittatori. Mussolini era un’altra cosa.

– Come sta?

– Ha qualche costola rotta, una lesione al polmone, probabilmente perderà un occhio. Ma ce la farà.

– Posso vederlo?

– Certo, ha chiesto di te.

– Perché Alfredo?

– Mi chiedi perché? Perché non voglio arrivare tra trent’anni a pensare che la mia vita non abbia un senso. Non voglio diventare come mio padre che riesce a essere felice solo la domenica se vince la Lazio. Che tradisce mia madre e pensa che avere figli possa essere un buon motivo per non lasciarla. Noi abbiamo un obiettivo Paolo, abbiamo uno scopo! Non te lo dimenticare!  E se per raggiungerlo dobbiamo picchiare qualcuno o essere picchiati, comunque ne sarà valsa la pena. Ricorda Nietzsche, “bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella che danza”!

L’altro giorno parlavo con Giorgio. Lui è una zecca, dovrebbe essere il nemico, ma siamo cresciuti insieme, eravamo amici già all’asilo, usciamo insieme, andiamo allo stadio. Ma neanche lui riesce a capirmi…neanche lui si sforza di capire le mie ragioni. Gli voglio bene, è mio amico, solo che non capisce nulla. Pensa che per essere felici dobbiamo cancellare le differenza, che dobbiamo essere tutti uguali. Stronzate! Siamo tutti diversi invece. E io voglio essere libero, non mi voglio omologare alla massa. L’unica cosa che ci unisce, oltre alla Lazio, è l’amore per la natura: le passeggiate in montagna, le corse a cavallo. Ma per il resto non capisce niente!

 – E insomma quella stronza, hai capito?

– Ma sicuro? Con Marco? Non ci posso credere!

– L’ho vista con i miei occhi! Ero in motorino, lei non potevano vedermi, ma non ci sono dubbi. E poi tu dovresti essere contento no? Anche Marco è una “zecca” come te, voi compagni volete abolire la proprietà comune, chiedigli se te la presta per una serata…

– Sei proprio un fascio di merda.

– E me ne vanto! Ma tu invece, non ti vergogni ad essere una zecca?

Mi chiamo Paolo, sognavo di cambiare il mondo. Di cambiarlo come dicevamo noi. Noi sparuta minoranza, noi che eravamo legati all’onore, al rispetto, alla tradizione. Noi che avremmo dato la vita per non tradire. Noi orgogliosamente sbagliati. Sono stato ucciso in seguito ad un colpo, probabilmente di spranga, nell’inverno dell’83. Io che odiavo la violenza e che ero un ambientalista, un verde. Magari un nero verde… Quella sera ero lì, a viale Libia e stavo affingendo manifesti per chiedere l’apertura pubblica di Villa Chigi, una villa del 700 con un bellissimo giardino. Mi consola solo in parte il fatto che dopo la mia morte è stata restaurata e resa parco pubblico. 

Mi chiamo Paolo, trent’anni dopo, chissà forse se potessi vi direi che probabilmente, anzi certamente eravano dalla parte del torto. E in fondo lo sapevamo già allora. Ma forse anche per questo mi è sembrato giusto raccontare la mia storia.

 

Trilogia battistiana – E’ una vela la mia mente

Tu non cambi mai. Un braccio, cos’altro vuoi? Un’ora me la dai, l’amore è qualcosa di più, del vino, del sesso che tu, prendi e dai…

In fondo è come con i ristoranti.

Ti parlano di quel posto, non lo conosci, ci vai e…mangi divinamente! Una vera sorpresa, mai ti saresti immaginato di mangiare così bene! E allora ci torni. Cambi il menù, una volta carne, un’altra pesce e poi i primi, i dolci. Tutto fantastico. Un po’ ne vorresti parlare agli altri, vorresti consigliarlo, un po’ sei geloso, vorresti tenerlo per te per paura di perdere qualcosa. Alla fine neanche scegli tu cosa mangiare, perché ti fidi talmente tanto da lasciar fare e prendi quello che ti portano.

Da quel posto ti aspetti sempre il massimo. Potrà succedere che un giorno ti porteranno la pasta un po’ scotta o la carne mezza bruciacchiata e forse rimarrai deluso, perché non sei stato abituato così. Ci rimarrai male? Forse, o forse cercherai una spiegazione, un motivo. La volta dopo sei certo che ti ritroverai bene, anzi ti aspetti che cercheranno di farsi perdonare e starai anche meglio. Te lo aspetti perché ormai conosci quel posto, lo apprezzi e sai quanto ci tengono.

Frequenti anche altri ristoranti. Qualcuno perché si spende poco: non ti avvelenano, non devi prenotare, c’è un parcheggio comodo c’è sempre un posto libero. Anche se sai che vale poco. Quell’altro invece fa una cosa buona, la specialità. E sa fare solo quella, guai a chiedere qualcos’altro. Basta saperlo. Sai cosa aspettarti.

Il vantaggio dei vecchi ristoranti, di quelli che conosci da tanto tempo in fondo è questo. Sai cosa aspettarti e hai meno possibilità di errore: hai meno possibilità di chiedere cose che non saranno come le volevi. D’altra parte saranno quelli che potranno darti le fregature maggiori, perché potrebbero non rispettare le legittime aspettative che avevi su di loro.

Se invece sei abituato a mangiare a mensa, magari neanche capirai la differenza. Se per te mangiare è un fatto meccanico, come mettere la benzina nella macchina, allora ti accontenterai del primo posto che capita: non ti aspetti nulla e prendi quello che ti danno.

Già altre volte mi ero intrattenuto sul tema delle aspettative, più o meno legittime, che possiamo avere sugli altri e su noi stessi (l’ultima qui https://giacani.wordpress.com/2014/01/05/i-il-rubinetto-della-doccia-e-la-domanda-kantiana/).

La conoscenza, la stima, il quanto ci teniamo a qualcuno, ci fa avere della aspettative. E queste ultime saranno tanto più alte quanto maggiori saranno appunto quelle. Allo stesso tempo, più stimiamo, più teniamo a qualcuno, più corriamo il rischio di essere delusi. E insieme, corriamo il rischio di pretendere quello che non potrà darci. La conoscenza è basilare, anche se poi le persone cambiano, così come i gestori dei ristoranti. E allora non potrai mai essere certo se la tua attesa sarà una freccia verso il basso che quindi finirà nella delusione, oppure troppo alta, arrivando ad essere una pretesa irrealistica.

E’ complicato? Certo che lo è! Ma d’altra parte, siamo sempre liberi di non subire delusioni e di non correre il rischio di avere pretese assurde. In fondo possiamo sempre andare a mangiare al Mac Donald.