Sì, sciare

“…evitando le curve più dure, senza per questo cadere nelle tue paure, gentilmente, senza strappi, con amore. Dolcemente sciare, rallentando per poi accelerare, con un ritmo fluente di vita nel cuore

Chissà se Lucio sapeva sciare: le discese ardite e poi le risalite mi farebbero pensare di sì, ma chi lo sa. Ma poi cosa importa? Se lo sapeva fare o se l’era solo immaginato, in ogni caso penso che le sue canzoni siano la colonna sonora ideale mentre sei sugli sci (non solo sugli sci, ovviamente, io lo ascolterei ovunque ed in qualsiasi situazioni, come avrete intuito se frequentate questo blog).

La cosa bella dello sciare è che non si perde nulla. Come una costruzione del lego, ogni passo avanti è un mattoncino in più, che puoi lasciare lì anche per anni: quando rimetti gli sci, ricominci esattamente dove avevi lasciato e aggiungi un mattoncino in più. L’inglese se non lo eserciti lo dimentichi. Così anche il pianoforte, se smetti di suonare le mani non rispondono più ai comandi. Non parliamo di altri sport: quando non ti alleni perdi pian piano tutto quello che eri riuscito a raggiungere. Per lo sci non è così.

Io imparai con le settimane bianche della scuola, quarant’anni fa. Per qualche anno ho continuato a sciare, senza diventare un campione, ma comunque riuscendo a scendere in quasi tutte le piste. La mia dolce metà non aveva la mia stessa passione e quindi, pur avendo una casa in montagna, per anni non ho più sciato. Anche i figli sembravano non essere interessati, finché lo scorso anno, mia figlia mi propose di rimettere gli sci: “dopo trent’anni? Ma non sarà un azzardo?” Invece, vinta qualche paura, ci ho riprovato e dopo mezz’ora sapevo scendere esattamente come trent’anni prima. Anche quest’anno, sfruttando la già citata casetta, abbiamo rifatto una settimana bianca e oggi posso dire che non ho mai sciato così bene, perché appunto, a quello che sapevo fare allora, ho aggiunto altri due mattoncini.

Per questo mi sembra che lo sci possa essere una bella metafora. Per sciare bisogna vincere la paura, bisogna avere equilibrio, ma bisogna sapersi buttare. Bisogna bilanciare il peso, senza mai esagerare da una parte o dall’altra. Si può correre a per di fiato o si può scendere dolcemente, si può andare da soli, ma trovare qualcuno che abbia il tuo stesso passo è molto più bello. Bisogna stare ben saldi attaccati al terreno, ma con lo sguardo rivolto in avanti. Soprattutto, le esperienze accumulate non si disperdono col tempo, ma fanno parte di noi: i successi, le cadute, quello che abbiamo faticosamente imparato, è il nostro bagaglio, siamo noi, è la nostra vita. Ah, ma perché, pensavate che stessi continuando a parlare solamente di sci?

Scusi lei, si ama un po’?

Ma noi ci vogliamo bene? Questa domanda mi veniva in mente ripensando a Maradona. All’assurdo dibattito che si è scatenato dopo la sua morte, sulla valutazione del personaggio, sulle sue scelte autolesionistiche, che insieme ad un posto nell’Olimpo delle stelle assoluto, gli hanno dato anche una vita piena di guai. E’ vero, i geni e gli artisti dovrebbero interessare per quello che hanno saputo esprimere, per quello che hanno lasciato al futuro, per le emozioni che hanno suscitato, con uno spartito, con un pennello in mano o con una palla fra i piedi. Però è indubbio che se si fosse voluto un po’ più bene, avrebbe fatto altre scelte.

E partendo da lui, allargando il discorso, mi tornava in mente quello che ci hanno insegnato fin da bambini: da sempre mi è stato detto che è molto più importante quello che si è, rispetto a quello che si ha. Avere o essere, prima ancora di diventare un libro di successo di Fromm, è stata l’alternativa più chiara per separare i giudizi basati sull’autenticità, da quelli che invece si lasciano condizionare dall’esteriorità.

Puoi avere tutte le ricchezze del mondo, gli abiti più alla moda, le macchine che fanno status symbol, i gioielli più preziosi, ma se sei una persona gretta, meschina, maleducata, nulla potrà far cambiare il giudizio degli altri. Ed è giusto individuare nell’essere, nelle caratteristiche di quello che siamo, il centro di noi, ciò che davvero ci qualifica. D’altra parte non è neanche così semplice separare i due aspetti: una persona con un bel conto in banca, proveniente da una famiglia benestante, avrà più possibilità di sviluppare le proprie doti, avrà accesso con maggiore facilità ad un’istruzione che lo aiuterà anche a diventare ricco di essere, oltre che di avere.

E’ corretto quindi valutare le persone per quello che sono? Perché alla fine, lasciando da parte Maradona e tutti i geni che hanno sfidato il tempo con le loro opere, mi convinco sempre di più che l’essenziale non è l’avere, ma nemmeno l’essere, le proprie doti o capacità. Quello che davvero ci qualifica in maniera determinante sono le nostre scelte. Se fosse possibile una riduzione ai minimi termini dell’esistenza, tolte le doti naturali, tolto quello che abbiamo costruito intorno a noi, quello che resta, ciò che dimostra in modo chiaro chi siamo davvero, sono le alternative che scegliamo, le opzioni che facciamo diventare realtà, i sì, i no, i silenzi, le decisioni. Abbiamo voluto bene? Ancora di più, ci siamo voluti bene?

Alla fine non importa quante cose abbiamo e nemmeno le capacità o i talenti naturali: noi siamo le nostre scelte. In altre parole, nel bene o nel male, siamo quello che scegliamo di essere.

Buon Natale a tutti i viaggiatori ermeneutici!

E saper fuggire un cretino

Ormai si sa, la pazienza è una grande virtù. Sopportare con pazienza le persone moleste è non a caso una delle opere di misericordia spirituale. Ma fino a che punto? Perché è vero, bisogna calarsi nei panni degli altri, bisogna cercare di vedere la realtà dal loro punto di vista, la molestia spesso nasce dalle paure, dalle insicurezze. A volte è importante rassicurare, alcune volte bisogna farsi spalla, altre volte è sufficiente essere orecchio. Devi saper contare fino a cento, a volte invece meglio far finta di non vedere, né sentire le persone moleste.

Ma moleste come? Come una caccola nel naso che non va né su, né giù? Come quelli che a Tresette bussano con il tre secondo? O come chi non riparte quando scatta il semaforo verde? Non c’é un’indicazione in questo senso. Bisognerebbe sopportare tutti, anche chi ha l’alito cattivo e si ostina a non tenere il distanziamento sociale. Perché in realtà la questione vera è un’altra: fino a che punto pazientare e quando invece provare con una capocciata sui denti?

In ogni caso, una volta che la razionalità ha percorso tutte le sue strade, alla fine dobbiamo ricorrere alla poesia. E nel nostro tempo, chi meglio del sommo poeta Giulio Rapetti, in arte Mogol, ci può dare un’indicazione chiara su come andare avanti?

Se è il caso lottare, più spesso lasciare
Saper aspettare chi viene e chi va
E non affondare se si può in nessuna passione
Cercando di ripartire, qualcosa accadrà
Curare il giardino e saper fuggire un cretino
Usare poco i motori e poco gli allori
Non temere la notte, non temere la notte
Però amando più il giorno
E partire senza mai pensare, ad un sicuro ritorno

Al ventiventi che verrà

Auguri a quelli che amano le feste. A quelli che non vedono l’ora di staccare la spina, che si godono i fine settimana e il tempo libero, la vacanza, quando gli impegni sono vacanti e puoi scegliere di non fare nulla, perché vuoi fare un sacco di cose.

Auguri a quelli che fanno buoni propositi, quelli che quest’anno cambio vita, che hanno una palestra a cui segnarsi e una sigaretta da non accendere più. Quelli che non seguono i consigli, neanche quelli buoni, ma hanno sempre un buon motivo per fare e uno anche migliore per non fare.

Auguri a chi fa bilanci, anche se è di un altro segno zodiacale. A chi ricorda le belle cose successe, che stampa le foto dei viaggi perché ha bisogno di toccare i ricordi per tenerli sempre con sé. A chi vede il bicchiere mezzo pieno, perché ne ha bevuta l’altra metà, a chi sogna a occhi aperti, ma li chiude per dormire.

Auguri a chi si prende il rischio di sbagliare, a chi non pretende di avere sempre ragione. Auguri alla mia amata Lazio, che tra pochi giorni compirà 120 anni, che riempe le mie giornate e le colora come vuole lei, ma sempre con uno sfondo biancoceleste.

Auguri a chi si fida degli altri, più di quanto si fidi di google map e preferisce chiedere indicazioni e sfogliare un vecchio e consumato Tuttocittà, piuttosto che stare a sentire una voce anonima al cellulare. Vento nel vento cantava il grande Lucio e perché non dovremmo leggere così l’anno che sta arrivando? Questo è l’augurio che vi faccio, lettori ermeneutici: che sia per tutti un anno ventiventi. Perché a vent’anni la vita è meravigliosa e quanto potrebbe essere bello dunque un anno che ne è il doppio?

“E la stagione nuova
Dietro il vetro che appannava, fiorì
Tra le tue braccia calde anche l’ultima paura morì
Io e te, vento nel vento
Io e te
Nodo nell’anima
Stesso desiderio di morire e poi rivivere
Io e te”

 

Quel che resta

Cosa resta del bambino settant’anni dopo, dei progetti iperbolici nati nel buio delle notti insonni, dei buoni propositi di inizio settembre, le spinte costruttive, gli sforzi incessanti, le vittorie e le sconfitte.

Cosa resta degli amori mai nati, delle ipotesi mai realizzate, i sogni mai baciati, i baci sognati, le parole studiate, provate e riprovate e mai pronunciate, le reazioni immaginate e mai verificate.

Cosa resta delle amicizie assolute, delle menti in sintonia, le anime trasparenti, le mutande condivise, i viaggi senza meta, le pacche sulle spalle, le spalle su cui piangere.

Cosa resta degli amori finiti, delle attese, le promesse, le speranze, i progetti, le paure, il cuore oltre l’ostacolo, gli sguardi, le promesse, i sussulti del cuore, le carezze rubate, le lacrime e le risate.

Ma perché mai le ipotesi dovrebbero essere più importanti della realtà? E perché quello che finisce dovrebbe avere meno valore di quello che dura? Ma in questo forse la parola definitiva la disse un tedesco duecento secoli fa…quel che resta lo fondano i poeti.

Era uno sguardo d’amore la spada è nel cuore e ci resterà. Sei bella in questo momento, più bella adesso che il vento ti allontana da me. Era uno sguardo d’amore la spada è nel cuore. Mi sento morire morire per te.

 

 

Frigidità sentimentale

– Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando.
Silenzio
– Aspettiamo che sia troppo tardi, madame
Alessandro Baricco, Oceano Mare

Studiando insieme ai figli tornano alla mente cose dimenticate e se ne scoprono di nuove. Ad esempio, l’altro giorno, con Elisa rivedevamo insieme Scienze (materia, per altro, che mi era indigesta allora…e rimane indigesta anche ora!) e si parlava di genetica, di incroci, piselli rossi e piselli bianchi, varianti dominanti e recessive. Fra le altre viene fuori questa cosa particolare: la talassemia, o anemia mediterranea probabilmente non è stata debellata, a differenza di altre malattie che avevano una trasmissione ereditaria, perché i portatori sani risultavano immuni alla malaria, altra malattia molto diffusa e molto più pericolosa.

E’ come se il corpo, per evitare il pericolo di essere colpito da una malattia grave, preferiva piuttosto portare in sé una malattia, per lui innocua, ma molto pericolosa per gli eventuali figli. A volte sappiamo (anche inconsciamente) essere molto egoisti, perfino rispetto ai nostri figli. Infatti queste cose non sono scelte consapevoli dei singoli individui. Probabilmente qualcuno che ne sa più di me su queste cose potrebbe spiegare molto meglio questo fenomeno, che però, più ci penso e più mi sembra poi non così raro. Pensiamo solo alla questione ambientale. Con i nostri comportamenti siamo portatori sani (sani si fa per dire), di svariati disastri che inevitabilmente pagheranno le future generazioni. Se ci spostiamo in economia oramai lo scontro generazionale fra chi difende i propri diritti acquisiti (che in realtà non sono altro che privilegi) e chi non se li potrà permettere, è evidente.

Ma parliamo invece di sentimenti.

Gassman diceva che il male del nostro tempo è la frigidità sentimentale. E in effetti il contesto in cui viviamo sembra volerci insegnare che per vivere bene è meglio non avere grandi passioni. Sugli amici ci si può contare, ma fino ad un certo punto, i parenti lasciamoli stare che sanno solo rompere, i colleghi occhio che vogliono solo fregarti. L’amore non esiste (questo l’ho pure scritto l’altro giorno). E sempre l’altro giorno mi son sentir dire “io non mi fido più di nessuno”, da una persona di cui mi fido ciecamente. In politica destra e sinistra sono uguali. Avere un cane? Che sei matto e poi in vacanza come fai. Allo stadio? Ma perché ancora vai dietro a quei ragazzini viziati? I concerti oramai sono troppo cari e poi alla Palaeur non si sente nulla.

Ma sì, spegniamo tutte le passioni, senza dubbio così evitiamo la malaria. Noi portatori sani siamo molto saggi. O così ci atteggiamo. Ne abbiamo viste molte, ne abbiamo vissute troppe e quindi ci mettiamo in cattedra e vorremmo spiegare agli altri come si fa. Come si vive, cosa vale la pena e cosa no. Senza approfondire che razza di vita sarebbe questa, l’aspetto più inquietante, è proprio quello ereditario. Perché noi saremmo pure portatori sani, avremmo anche fatto gli anticorpi necessari a convivere con questa malattia, ma cosa trasmettiamo a loro? Cosa impareranno guardandoci?

Che per non soffrire è meglio cauterizzare i sentimenti. Che per non illudersi è meglio non sperare. Che le emozioni vanno bene, ma senza esagerare (tanto poi è facile riattivarle, magari con qualche pasticca colorata e un bicchiere di più). Portatori sani di tutto il mondo, attenzione quindi. Forse a  volte conviene correre il rischio di ammalarci noi. Per non rovinare definitivamente loro.

Ma non ti accorgi che è solo la paura che inquina e uccide i sentimenti…

Trilogia battistiana – Planando sopra boschi di braccia tese

Ci sedemmo dalla parte del torto, perché tutti gli altri posti erano occupati. (B. Brecht)

–  Corri, corri, corriiiiiiii!!!! Alfredo urlò con quanto fiato aveva in gola. Paolo lasciò in terra tutte le cose, il secchio, la colla, i manifesti e cominciò a correre, a correre a perdi fiato. Sentiva Alfredo che urlava sotto i colpi, i pugni, i calci, le bastonate. Villa Paganini, corso Trieste, ce l’aveva fatta, non l’avrebbero più raggiunto.

Mi chiamo Paolo. E sono un fascista. Lo so cosa pensate di me. Li vedo i vostri sguardi di disapprovazione o di sufficienza. “Fascista! Cosa ne vuoi sapere tu del fascismo, ragazzino!” Ma per me non è così. Certo a volte anch’io ho qualche dubbio, anche io penso che questa violenza sia sbagliata, ma che dobbiamo fare? Noi ci dobbiamo pur difendere. Perché siamo attaccati ovunque. A scuola con le parole e con il disprezzo, la notte con le botte. Gli altri non capiscono, pensano che noi siamo violenti, razzisti. Ma è una minoranza, la gran parte di noi non è affatto razzista. Noi stiamo con gli indiani d’America contro le giubbe blu, siamo con gli scozzesi contro l’Inghilterra, siamo con i palestinesi oppressi dai sionisti. Hitler ci fa schifo, come Stalin, come tutti i dittatori. Mussolini era un’altra cosa.

– Come sta?

– Ha qualche costola rotta, una lesione al polmone, probabilmente perderà un occhio. Ma ce la farà.

– Posso vederlo?

– Certo, ha chiesto di te.

– Perché Alfredo?

– Mi chiedi perché? Perché non voglio arrivare tra trent’anni a pensare che la mia vita non abbia un senso. Non voglio diventare come mio padre che riesce a essere felice solo la domenica se vince la Lazio. Che tradisce mia madre e pensa che avere figli possa essere un buon motivo per non lasciarla. Noi abbiamo un obiettivo Paolo, abbiamo uno scopo! Non te lo dimenticare!  E se per raggiungerlo dobbiamo picchiare qualcuno o essere picchiati, comunque ne sarà valsa la pena. Ricorda Nietzsche, “bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella che danza”!

L’altro giorno parlavo con Giorgio. Lui è una zecca, dovrebbe essere il nemico, ma siamo cresciuti insieme, eravamo amici già all’asilo, usciamo insieme, andiamo allo stadio. Ma neanche lui riesce a capirmi…neanche lui si sforza di capire le mie ragioni. Gli voglio bene, è mio amico, solo che non capisce nulla. Pensa che per essere felici dobbiamo cancellare le differenza, che dobbiamo essere tutti uguali. Stronzate! Siamo tutti diversi invece. E io voglio essere libero, non mi voglio omologare alla massa. L’unica cosa che ci unisce, oltre alla Lazio, è l’amore per la natura: le passeggiate in montagna, le corse a cavallo. Ma per il resto non capisce niente!

 – E insomma quella stronza, hai capito?

– Ma sicuro? Con Marco? Non ci posso credere!

– L’ho vista con i miei occhi! Ero in motorino, lei non potevano vedermi, ma non ci sono dubbi. E poi tu dovresti essere contento no? Anche Marco è una “zecca” come te, voi compagni volete abolire la proprietà comune, chiedigli se te la presta per una serata…

– Sei proprio un fascio di merda.

– E me ne vanto! Ma tu invece, non ti vergogni ad essere una zecca?

Mi chiamo Paolo, sognavo di cambiare il mondo. Di cambiarlo come dicevamo noi. Noi sparuta minoranza, noi che eravamo legati all’onore, al rispetto, alla tradizione. Noi che avremmo dato la vita per non tradire. Noi orgogliosamente sbagliati. Sono stato ucciso in seguito ad un colpo, probabilmente di spranga, nell’inverno dell’83. Io che odiavo la violenza e che ero un ambientalista, un verde. Magari un nero verde… Quella sera ero lì, a viale Libia e stavo affingendo manifesti per chiedere l’apertura pubblica di Villa Chigi, una villa del 700 con un bellissimo giardino. Mi consola solo in parte il fatto che dopo la mia morte è stata restaurata e resa parco pubblico. 

Mi chiamo Paolo, trent’anni dopo, chissà forse se potessi vi direi che probabilmente, anzi certamente eravano dalla parte del torto. E in fondo lo sapevamo già allora. Ma forse anche per questo mi è sembrato giusto raccontare la mia storia.

 

Trilogia battistiana – E’ una vela la mia mente

Tu non cambi mai. Un braccio, cos’altro vuoi? Un’ora me la dai, l’amore è qualcosa di più, del vino, del sesso che tu, prendi e dai…

In fondo è come con i ristoranti.

Ti parlano di quel posto, non lo conosci, ci vai e…mangi divinamente! Una vera sorpresa, mai ti saresti immaginato di mangiare così bene! E allora ci torni. Cambi il menù, una volta carne, un’altra pesce e poi i primi, i dolci. Tutto fantastico. Un po’ ne vorresti parlare agli altri, vorresti consigliarlo, un po’ sei geloso, vorresti tenerlo per te per paura di perdere qualcosa. Alla fine neanche scegli tu cosa mangiare, perché ti fidi talmente tanto da lasciar fare e prendi quello che ti portano.

Da quel posto ti aspetti sempre il massimo. Potrà succedere che un giorno ti porteranno la pasta un po’ scotta o la carne mezza bruciacchiata e forse rimarrai deluso, perché non sei stato abituato così. Ci rimarrai male? Forse, o forse cercherai una spiegazione, un motivo. La volta dopo sei certo che ti ritroverai bene, anzi ti aspetti che cercheranno di farsi perdonare e starai anche meglio. Te lo aspetti perché ormai conosci quel posto, lo apprezzi e sai quanto ci tengono.

Frequenti anche altri ristoranti. Qualcuno perché si spende poco: non ti avvelenano, non devi prenotare, c’è un parcheggio comodo c’è sempre un posto libero. Anche se sai che vale poco. Quell’altro invece fa una cosa buona, la specialità. E sa fare solo quella, guai a chiedere qualcos’altro. Basta saperlo. Sai cosa aspettarti.

Il vantaggio dei vecchi ristoranti, di quelli che conosci da tanto tempo in fondo è questo. Sai cosa aspettarti e hai meno possibilità di errore: hai meno possibilità di chiedere cose che non saranno come le volevi. D’altra parte saranno quelli che potranno darti le fregature maggiori, perché potrebbero non rispettare le legittime aspettative che avevi su di loro.

Se invece sei abituato a mangiare a mensa, magari neanche capirai la differenza. Se per te mangiare è un fatto meccanico, come mettere la benzina nella macchina, allora ti accontenterai del primo posto che capita: non ti aspetti nulla e prendi quello che ti danno.

Già altre volte mi ero intrattenuto sul tema delle aspettative, più o meno legittime, che possiamo avere sugli altri e su noi stessi (l’ultima qui https://giacani.wordpress.com/2014/01/05/i-il-rubinetto-della-doccia-e-la-domanda-kantiana/).

La conoscenza, la stima, il quanto ci teniamo a qualcuno, ci fa avere della aspettative. E queste ultime saranno tanto più alte quanto maggiori saranno appunto quelle. Allo stesso tempo, più stimiamo, più teniamo a qualcuno, più corriamo il rischio di essere delusi. E insieme, corriamo il rischio di pretendere quello che non potrà darci. La conoscenza è basilare, anche se poi le persone cambiano, così come i gestori dei ristoranti. E allora non potrai mai essere certo se la tua attesa sarà una freccia verso il basso che quindi finirà nella delusione, oppure troppo alta, arrivando ad essere una pretesa irrealistica.

E’ complicato? Certo che lo è! Ma d’altra parte, siamo sempre liberi di non subire delusioni e di non correre il rischio di avere pretese assurde. In fondo possiamo sempre andare a mangiare al Mac Donald.

 

Trilogia battistiana – Sogno il mio paese infine dignitoso

“Gli Italiani vincono una partita di calcio come se fosse una guerra e perdono la guerra come se fosse una partita di calcio.” (W. Churchill)

Spesso si è detto che il calcio è metofora della realtà. Vero! Una bella metafora: compagni, avversari, obiettivi, spirito di appartenenza, rispetto delle regole, generosità, estro. E purtroppo anche tante altre cose meno belle: furbizie, violenze, nemici.

Quello che è successo sabato sera poi le riepiloga tutte (quelle negative). Gli avversari che diventano nemici, addirittura nemici che in quella gara neanche giocano. E poi le curve dei violenti che decideno se, come e quando si debba giocare. E la polizia che guarda impotente. Forti con i deboli, deboli con i forti. Certo, è più facile prendersela con uno studente inerme che con Genny a’ carogna.

La cosa più innocua, ma forse simbolicamente la peggiore di tutte, l’intero stadio che fischia l’inno. Ma siamo nel piano della realtà o in quello della metafora? E’ cos’è meglio e cosa peggio?

Cos’è peggio, il calcio o la realtà? Siamo sicuri che Genny e tutti i Genny che popolano le curve siano peggio, ad esempio, della classe politica? E il grido “lavali col fuoco” è forse peggio di certe invettive che si sentono nelle tribune politiche? Il “devi morire” cantato all’avversario a terra, è forse peggio degli insulti che si sentono in tutti gli incroci sulle strade, alla prima scorrettezza al volante?

Purtroppo questo è il calcio che meglio simbolizza la nostra realtà quotidiana. Nessuna discontinuità, inutile scandalizzarsi, ipocrita gridare alla scandalo. Fischiamo l’inno perché forse ancora abbiamo un sussulto di dignità. Fischiamo noi stessi. Fischiamo noi che abbiamo votato per vent’anni Berlusconi e ora crediamo alle farneticazioni di Grillo. Fischiamo i Bertolaso e gli Anemone che brindavano a poche ora dal terremoto. Fischiamo tutte le mafie che impestano e infestano il nostro paese. Fischiamo per paura e per vergogna, con gli occhi aperti nella notte scura.

Ma tranquilli, tra un paio di mesi c’è il mondiale. E ci riscopriremo tutti amanti della patria, tutti uniti, mano nel cuore sulla maglia azzurra, a cantare Fratelli d’Italia, percé noi siamo il paese con la memoria storica di un pesce rosso. E questo è il calcio che ci meritiamo.

 

 

Costruire una casa

Non è mica facile costruire una casa. Diamo per scontato che sei un ingegnere e pure architetto. Insomma lo sai fare. O comunque, presumi di saperlo. Anche perché per far bene una casa devi essere convinto di essere bravo. Questo è il presupposto, altrimenti meglio lasciar perdere.

Come la farai la tua casa? Cercherai di farla solida, fondata sulla roccia, che duri nel tempo? Oppure preferirai che sia bella? Ma dovrà essere bella per te che la guardi, per chi gli passa davanti e dice, “guarda questo che bella casa che ha costruito“, oppure la vorrai fare bella in sé, che la sua bellezza basti a se stessa?

Sarà una casa appariscente, che ruberà la scena a quelle intorno, che spiccherà sulla massa, oppure sarà in armonia con lo scenario che la circonderà? La riempirai di particolari per farla essere unica, ma capirai quando fermarti per non esagerare, per non soffocarla di cose belle, ma anche inutili?

Cercherai di curarne i particolari, scegliendo per lei i materiali più pregiati, quelli di valore, oppure preferirai la semplicità, le cose funzionali, quelle che servono per rendere comoda la vita?

Quando ne costruirai un’altra ti baserai sull’esperienza accumulata e cercherai di replicarla o avrai la pazienza e la fantasia di ricominciare da capo, sapendo che nessuna casa sarà mai uguale ad un’altra?

Nel costruire una casa può capitare di accorgersi che poi vien fuori un’infiltrazione o una crepa. Allora che succederà, darai la colpa ai materiali, al destino cinico e baro? Cercherai di metterci una pezza, ti vergognerai del tuo errore o avrai il coraggio di vincere gli imbarazzi e ammettere che hai fatto uno stronzata?

E poi, ad un certo punto della tua vita, ti fermerai alle case che hai costruito, penserai di aver concluso e ti sentirai soddisfatto del lavoro oppure saprai rimetterti in discussione e avrai l’incoscienza e la fiducia di credere che ci sarà sempre un’altra casa da costruire?

Costruire una casa può essere molto faticoso, ma senza dubbio vale la pena provarci. Che poi qualcuno pensa che in fondo sia la cosa più semplice del mondo. Come bere…più facile che respirare.