Atom Heart Mother (un altro 21 gennaio)

Chi frequena questo blog da un po’ forse ricorderà che per me oggi non è una giornata come le altre. Ormai 36 anni fa persi un amico carissimo proprio oggi. Una di quelle cose che ti segnano in maniera irreversibile, una data che fa da spartiacque fra un prima e un poi, dove il poi diventa inesorabilmente molto diverso dal prima. Ma tutti questi anni, forse altrettanto inevitabilmente, cambiano anche la valutazione delle cose. Il cambiamento lo trovo evidente rileggendo a ritroso tutti i post che ho scritto negli anni in questo 21 gennaio.

L’unica cosa bella del morire a vent’anni – se mai ce ne fosse una – forse è che rimani sempre ragazzo. Quando penso a te (e capita ancora molto più spesso di quanto si potrebbe immaginare) è chiaro che tu sei come eri. Ma se penso che ormai sei più piccolo di mio figlio, la cosa si fa davvero strana. Anche perché io con te continuo a parlare da pari livello, da ventenne a ventenne, certo non come se un adulto parlasse ad un ragazzo!

Anche il ricordo di oggi ha un tema musicale. Non è un caso, perché come ho detto più volte, la musica ci ossessionava, era l’argomento di conversazione continuo, permanente ed invadente. Se anche andavamo a parlare di donne o di politica (di calcio no, perché a te proprio non ti interessava), comunque, in un modo o nell’altro, si finiva a parlare di musica. Stavolta rigurda i Pink Floyd, forse il tuo gruppo preferito, anche se (me lo sento nelle orecchie), avresti precisato subito che era impossibile fare una classifica. Ad ogni modo, adoravamo i Pink Floyd, li ascoltavamo moltissimo, soprattutto i primi album. Perché c’era questa moda snob di privilegiare album meno famosi, rispetto a quelli più noti e più di successo. Anche noi ne eravamo vittime: “Sì, The Wall è bello però, vuoi mettere con “Obscured by Clouds?

Ad esempio, eravamo assolutamente convinti che la suite di Atom Heart Mother, fosse un capolavoro inarrivabile: altro che The dark side of the Moon, altro che Wish You Were Here, quello era il vertice assoluto. E ci infervoravamo su quei discorsi, avremmo potuto scendere in piazza e tenere una comizio per avvalorare la nostra tesi. Perché avevamo appunto vent’anni. E solo a quell’età puoi fare una battaglia (inutile) per una causa (persa) di quel genere. Recentemente ho letto una dichiarazione di Gilmour, proprio su quel pezzo, definito dal suo stesso autore “un tentativo di raschiare il fondo del barile con della merda psichedelica“.

E riascoltandola ora, in effetti, mi trovo abbastanza d’accordo con il buon Dave: se non fosse stato un film muto, sarebbe perfetta come colonna sonora della Corazzata Potiomkin. Ma questo significa avere vent’anni: avere certezze assolute ed essere disposti ad andare contro il mondo per affermarle. Non importa se poi si rivelano cagate incommensurabili. Ecco perché forse continuo a discutere con te, amico fraterno: mi aiuta a non dimenticare com’ero.

Lucciole per lanterne

A Roma, com’è noto, esiste via della Conciliazione, una strada costruita per sancire il concordato fra lo Stato Italiano e la Città del Vaticano. Bollata come classico esempio di architettura fascista, su questa strada ci furono molte polemiche: negli anni si ipotizzò addirittura di smantellarla recuperando l’antico “Borgo Pio” che fu sventrato per costruirla.

Nel mondo accademico degli storici dell’arte era opinione diffusa infatti che l’abbattimento del borgo fosse stato uno scempio architettonico, che avesse tolto quella magica atmosfera che aveva creato il Bernini, per cui la grande cupola appariva improvvisamente agli occhi del visitatore, senza essere visibile da lontano.

Le polemiche cessarono quando furono scoperti dei disegni originali proprio di Bernini che immaginava la costruzione di una grande via che dal Tevere avrebbe portato direttamente alla grande cupola e si rammaricava della impossibilità di realizzarla!

Le cose non sono spesso come sembrano. Non solo. In genere sono molto più complicate di come sembrano. Invece, nell’era di internet, dei social, ieri eravamo pieni di virologi specializzati in pandemie, oggi di criminologi specializzati in antimafia, domani chissà. Tutt’al più CT della nazionale. Quello non si nega a nessuno.

Tutti hanno qualcosa da nascondere tranne me e la mia scimmia

Che poi in realtà non so se anche lei non abbia qualcosa da nascondere, chi lo sa, va a capire cosa le passa per la testa. Lennon era così sicuro e poi vedi che fine ha fatto. Perché in realtà cosa ne sappiamo veramente? Anche quelli che stanno vicino a noi, amici, parenti e conoscenti: siamo così sicuri che non abbiano qualcosa da nascondere? Nei rapporti sono convinto che la sincerità sia una caratteristica indispensabile, meglio una brutta verità che una bella bugia, ma una cosa è la sincerità, un’altra è la più cristallina trasparenza.

La più cristallina trasparenza, quella che non è in grado di nascondere nemmeno una briciola di pane, non è mica così semplice. Tutt’altro. Richiede impegno e costanza, lunga frequentazione. Bisogna abbassare qualsiasi scudo difensivo, conscio ed inconscio. Senza trucco, senza inganno, esattamente così come si è. A volte è difficile anche con se stessi. Conosco un sacco di gente che nasconde e si nasconde anche davanti ad uno specchio, forse perché non regge la pura e semplice verità.

Del resto, fin da bambini, uno dei giochi più diffusi è il nascondino. Nascondiamo e ci nascondiamo finché poi basta un nonnulla, un ricordo, un’emozione, un profumo, un sapore, una musica e la verità torna a galla, svelata da ogni nascondimeno, libera dai pesi su cui l’avevamo legata. Perché, per quanto nascondere e nascondersi può essere divertente, per quanto a volte possa sembrarci quasi necessario, la vera tragedia potrebbe essere rendersi conto che nessuno ci verrà a cercare.

Ma poi, siamo sicuri che era proprio una scimmia?

Non puoi mettere fretta all’amore

O meglio. Puoi anche mettergli fretta, ma sarà del tutto inutile. Purtroppo aspettare non è il nostro forte. Non lo è per nessuno. Forse per colpa dei tempi che viviamo, dove tutto è accelerato, dove non ci sono più distanze spazio temporali da colmare. Oggi con uno smartphone azzeri le lontananze geografiche e avvicini ogni tipo di appuntamento. La velocità è una condizione dell’essere.

Però questo è solo parzialmente vero, anche perché questa canzone, prima di diventare un successo di Phil Collins degli anni 80, è stata scritta negli anni 60. Quindi, come spesso capita, siamo portati a pensare che il tempo che viviamo abbia delle particolarità uniche, come se invece nel passato le cose andassero in modi totalmente diversi. In realtà non è esattamente così. Amare ed essere amati, probabilmente, è sempre stato accompagnato da un’urgenza intrinseca. Un bisogno insopprimibile di bruciare i tempi, di arrivare al traguardo, di avere conferme che non bastano mai.

Ed è risaputo che la fretta è sempre cattiva consigliera e che il tempo dell’attesa è spesso il più fecondo. Ma è comunque un’attesa dinamica, che si nutre di tensione, che anzi alimenta la spinta verso il suo obiettivo. Quindi è vero, non puoi affrettare l’amore, ma forse non puoi nemmeno fare a meno di farlo. E guai se non fosse così, perché questo è il segno più evidente che siamo ancora vivi.

I need love, love to ease my mind
I need to find, find someone to call mine
But mama said you can’t hurry love
No you just have to wait
She said love don’t come easy
It’s a game of give and take

Aspettando il 23

A fine anno non tiro somme, la matematica non è mai stata il mio forte. Spero di essere rimasto nel cuore di qualcuno, o contrariamente nel cestino della carta di qualcun altro. (Charles Bukosky)

Ciao ciao duemilaventidue! Ti ricorderemo come l’anno del ritorno. Il ritorno alla normalità, ai viaggi negati, agli abbracci proibiti, ai volti senza maschere. Purtroppo anche il ritorno della paura della guerra, che bussa ai nostri confini, come pure il ritorno dell’inflazione e dei costi che crescono a dismisura.

Che poi, come avevamo tutti capito fin da subito, è stato un ritorno per modo di dire, perché dopo due anni di pandemia sarebbe stato folle pensare che le cose sarebbero tornate indietro esattamente nello stesso modo. Niente è stato più lo stesso, com’è normale e giusto che sia. E allora cosa aspettarsi dall’anno che verrà?

Io penso che quello che dovremmo fare, il più presto possibile, è proprio questo. Voltare pagina definitivamente dalla pandemia significa lasciare andare questa falsa aspettativa che le cose sarebbero tornate come prima. Dobbiamo accogliere il cambiamento e vivere profondamente il presente, senza nostalgie di quello che è stato.

Questo è il vero insegnamento che dovremmo trarre da questa calamità planetaria. Le cose, le situazioni, i legami, le abitudini, le idee, le prospettive, i sogni, le paure…tutto cambia. Godiamo il presente, quel che abbiamo, quel che siamo, perché l’unica cosa certa del futuro è che non sarà come l’avevamo previsto. Ma questo non dovrebbe angosciarci, al contrario, dovrebbe essere liberante, dovrebbe toglierci delle ansie e renderci pronti e aperti a quello che succederà.

Ad ogni modo, come diceva Bukowsky, se saremo nel cuore o nel cestino di qualcuno, dipenderà da noi. Saremo nel cuore di qualcuno non perché ci siamo stati ieri o l’anno scorso o dieci anni fa, ma perché faremo di tutto per esserci o almeno, il meglio di quello che riusciamo a fare. Noi ce la metteremo tutta, poi a volte dipende anche un po’ dalle circostanze. Vogliamo dirlo? Anche un po’ dalla fortuna. E allora accogliamo con fiducia questo duemilaventitrè, perché lo sapete a Roma, come si dice quando a tombola esce il 23?

Che vorresti sotto l’albero?

Vorrei trovare una sorpresa bella come una ballerina alla radio. Che tu sai che è bella anche senza vederla. Una sorpresa talmente inaspettata che rimani senza parole, quasi senza fiato, insperata ed insperabile, perché sarebbe quasi troppo bella per essere vera.

Le sorprese sotto l’albero, riparate dagli sguardi curiosi, eppure sotto gli occhi di tutti. Perché i regali più belli sono così. E sono le persone che ci stanno intorno. Capaci di stupirci, capaci di esserci, nonostante tutto, di ascoltare senza giudizio, di consigliare senza superbia, di accettarci senza rimpianti, di volerci per quello che siamo.

Poi certo, ci sono anche desideri inconfessabili. Ma per quelli, ci vuole giusto l’intervento di Qualcuno da lassù (sì, proprio Lui, quello che domani sera spegna duemilaventidue candeline!). Auguri di Buon Natale, pieno di luce e di gioia cari viaggiatori ermeneutici!

Comincia un altro viaggio

Proprio in questi giorni, circa settant’anni fa, il 6 dicembre del 1949, usciva il primo numero di Paese Sera: un quotidiano di proprietà del Partito Comunista Italiano nato per fare concorrenza ai giornali romani liberali e conservatori, come il Messaggero e il Tempo. A differenza dell’Unità, quotidiano ufficiale del PCI, Paese Sera fu un giornale vivace e indipendente, spesso in conflitto con il partito, attento alla cronaca rosa e a quella nera. Sulle sue pagine ha ospitato scrittori come Gianni Rodari, Norberto Bobbio e Umberto Eco, oltre a essere stato il primo a pubblicare i fumetti di Sturmtruppen di Bonvi e tra i primi in Italia a pubblicare le strisce dei Peanuts.

Nel corso degli anni 60 il quotidiano raggiunse la sua massima espansione, crescendo a Roma e in altre città, aprendo redazioni locali a Milano, Bologna e Firenze. Ma la concorrenza di nuovi giornali come La Repubblica e il crescente disinteresse del PCI nel sostenerlo ne determinarono la fine. Nel 1980, quando vendeva ancora 100 mila copie, l’editore cedette la proprietà del giornale e, tre anni dopo, il nuovo editore annunciò il licenziamento di tutti i giornalisti.

La chiusura di un quotidiano nazionale dalla storia così illustre fece scalpore: giornalisti e tipografi furono ricevuti dal presidente della Repubblica Sandro Pertini e il quotidiano riuscì a rinascere grazie a una sottoscrizione dei lettori e alla creazione di una cooperativa formata dai suoi lavoratori. In qualche modo il giornale riuscì a sopravvivere per un altro decennio, ma non fu mai in grado di riprendersi del tutto e nel 1994 le pubblicazioni furono definitivamente abbandonate. Negli anni Duemila ci sono stati diversi tentativi di rilanciare la testata da parte di diversi editori: l’ultimo in ordine di tempo, per il momento nella versione digitale, lo potete consultare all’indirizzo https://www.paesesera.lazio.it/

Un passato importante, come spero un altrettanto importante futuro, a cui sono molto onorato di poter partecipare. Da oggi infatti Viaggi Ermeneutici diventa una rubrica di questo storico giornale. A quasi dieci anni dalla nascita del blog direi che non potevo fasteggiare meglio il compleanno. E il viaggio continua!

Io e il vecchio Walt

Il 15 dicembre di 56 anni fa in testa alla classifica di Hit Parade nei 33 giri c’era Revolver (l’album dei Beatles che preferisco), da pochi giorni c’era stata l’alluvione di Firenze, (le catastrofi naturali non sono un’esclusiva dell’attualità come forse pensiamo), l’Inter era in testa al campionato (che poi vinse la Juve) e proprio in quel giorno moriva Walt Disney.

Sebbene il mio inguaribile ottimismo mi porti sempre a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, devo prendere atto di aver ormai superato quel “mezzo” del cammin di nostra vita. In effetti non me lo auguro nemmeno di campare 112 anni: non credo che a quell’età potrei ancora giocare a calcetto. Sì, certo probabilmente continuerei a leggere Tex e a seguire la Lazio, ma per il resto, non la vedo proprio entusiasmante la giornata tipo di un centododicenne.

Quindi inevitabilmente uno è portato a fare un qualche tipo di bilancio (anche se, essendo sagittario ascendente gemelli, non ho grandi dimestichezza con le bilance). Una cosa ormai mi sembra chiara: non sono uomo da grandi passioni. La mia sconfinata curiosità mi porta ad interessarmi di tutto o comunque di gran parte delle cose in cui mi imbatto. Ma se dovessi dirne una in particolare, avrei difficoltà. Mi hanno sempre affascinato quelli che hanno conoscenze tecniche approfondite, che so, sugli impianti WiFi. Quelli che sono disposti a spendere mezzo stipendio per quel tipo di amplificatore o quel tipo di casse speciali: io vivo ascoltando musica, ma francamente non mi sono mai interrogato più di tanto sul mezzo con cui l’ascolto. Così come bevo volentieri un bicchiere di vino, ma non saprei certo dire nulla di intelligente ad un primo assaggio (se non, al massimo, “sa di tappo”!).

E così via, potrei elencare decine di specializzazioni, chiamiamoli hobby, chiamiamole passioni, che impegnano le persone e fanno sì che si possano definire esperti. Ma io, in questi 56 anni di vita, in cosa sono diventato esperto? (A parte diffondere luce e dolcezza, ovviamente). Che poi spesso queste passioni sviluppano anche delle capacità, delle conoscenze tecniche: chi riesce a riparare un impanto elettrico, chi sa riconoscere un pittore o una tecnica pittorica, chi è capace di suonare uno strumento. Ma io, in questi 56 anni di vita, che so fare? (A parte scrivere minchiate sul blog, ovviamente).

Sarà che all’università ho studiato filosofia (e questo non è un caso), sarà che da trent’anni lavoro con le parole più che con i fatti (ma questo forse è un caso), però devo prendere atto che tecnicamente parlando, cioè prendendo in esame gli aspetti tecnici di una questione, non so fare un fico secco (a parte giocare a pallone, ovviamente). Questo potrebbe portarmi un qualche genere di frustrazione, potrebbe farmi sentire incapace o inadeguato in mille situazioni. Ma neanche per sogno! La cosa mi lascia del tutto indifferente, perché ormai ho fatto pace con le mie incapacità. Non dico che ci sono affezionato, ma sicuramente ho smesso di combatterle.

Chissà, magari anche il vecchio Walt era un disastro con una brucola in mano. Forse anche per lui la pennellessa era un oggetto misterioso e neanche lui impazziva appresso a motori, francobolli o barche a vela. Di una cosa però sono certo. Anche lui diffondeva luce e dolcezza. A piene mani e ancora ne beneficiamo. E allora mi son detto, con l’umiltà che non mi contraddistingue, senza disegnare cartoni animati (ovviamente sono un disastro anche con una matita in mano) perché non provare a prenderne il testimone?

Quote rosa, politically correct e altre amenità

Voglio essere scorretto, sincero ma scorretto. Perché lo ammetto, il politicamente corretto mi fa veramente salire il veleno. Mi fa perdere di vista la mia missione su questa terra (che come sapete è diffondere luce e dolcezza), mi svia, mi fa arrivare a pensare quello che non penso, ad essere quello che non sono.

Arrivato a questo punto (non so bene quale punto, ma sicuramente ad un punto sono arrivato) non sopporto più l’ipocrisia. Non sopporto più le maniere di facciata, il dover fare le cose perché sta brutto non farle, l’assecondare usi e costumi antiquati, irragionevoli, inutili se non dannosi. Tra un po’ rischio di diventare come quei vecchietti afflitti da malattie nervose, che però rimangono lucidi al punto da fare ragionamenti sensati: quelli senza inibizioni, che dicono pane al pane e vino al vino, senza pensare troppo alle conseguenze. Purtroppo a volte un po’ di diplomazia invece non sarebbe inutile.

Ad esempio leggevo su repubblica di una polemica nata all’Università di Leida, in Olanda, dove era esposto un quadro con sei uomini intenti a fumare sigari o sigarette, tutti bianchi e di una certa età. E’ successo che una studentessa si sia risentita e lo abbia denunciato alla preside della facoltà di giurisprudenza, scrivendo poi su Twitter, che sarebbe stato almeno opportuno aggiungere una didascalia in cui si stigmatizzassero le cattive usanze del tempo: il fumo non è ecologico e le compagnie di maschi senza donne non è politicamente corretta. Il quadro in questione fu dipinto nel 1978 da Rein Dool, che è ancora in perfetta forma a 89 anni, e si dichiara divertito e stupito: all’epoca, risponde, fumavano tutti, lo facevo anch’io, e i dirigenti alle università erano tutti maschi. Insomma, in nome del politically correct qualcuno vorrebbe arrivare a cambiare il passato.

Altro esempio. Stanno girando un film sulla conferenza di Monaco del ’38, quando l’Europa si arrese a Hitler che si prese la Cecoslovacchia. Sembra che il regista sia in difficoltà perché è obbligato a inserire almeno un personaggio di colore: cosa evidentemente inverosimile nella Monaco del III Reich. Ma che senso ha? E soprattutto, a chi giova? Inventarsi cose che non esistevano aiuta a ristabilire una parità di genere? E’ funzionale al superamento della disparità e del razzismo?

Ovviamente no. Anzi, comincio a pensare che oltre ad essere inutile, questo revisionismo sia persino dannoso. Eppure basterebbe poco per affrontare seriamente le questioni. La New York Philarmonic quest’anno per la prima volta è composta da più donne che uomini. Perché hanno messo le quote rosa? Ma neanche per sogno. Semplicemente hanno fatto audizioni alla cieca, ovvero dietro un paravento, così da giudicare eslusivamente il talento di chi suona, senza nessun tipo di preconcetto.

L’inclusione contro ogni forma di discriminazione non si fa con la salvaguardia di “quote” garantite. Bisogna far valere il merito, che è l’unica discriminante che al giorno d’oggi dovrebbe avere diritto di cittadinanza. Tutto il resto sono solo chiacchiere inutili

Essere vivi

Essere vivi implica indignarsi per le nefandezze che accadono intorno a noi, le ingiustizie impunite, le prepotenze gratuite, le offese più o meno volontarie.

Essere vivi comporta soffrire per le proprie e le altrui incapacità, per gli sforzi inutili, per i tentativi ripetuti, per i riconoscimenti negati, per gli obiettivi sfumati.

Essere vivi vuol dire sentire il dolore sulla pelle e sotto, il dolore dell’assenza, quello che brucia e non si placa, che non ha ristoro neanche quando dormi.

Essere vivi significa non arrendersi all’ineluttabile, lottare e lottare ancora, non arrendersi alla stanchezza e all’incertezza di quello che succederà domani.

Essere vivi significa avere a che fare con persone fastidiose, stupide come oche ubriache e simpatiche come Adani che fa la telecronaca dell’Argentina.

Essere vivi è una gran fatica. Soprattutto quando i ragazzi dell’estate ormai sono andati via. Ma l’alternativa, vi assicuro, è molto, molto peggio.