I ricordi e le generazioni

Una generazione si definisce anche in base ad un ricordo collettivo. I nostri nonni, tutti i nostri nonni, certamente avrebbero saputo raccontare dove si trovavano il 25 aprile del 1945, il giorno della liberazione. I nostri genitori ci sanno dire dov’erano il 20 luglio 1969, quando il primo uomo mise piede sulla luna. E noi?

Qui nella capitale, chi si intende di calcio saprà dire dov’era la sera del 30 maggio dell’84, quando la Roma perse la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Chi si occupa di politica avrà fisso nella memoria, dov’era il pomeriggio del 28 marzo del 1994 quando Berlusconi vinse le sue prime elezioni. Tutti i credenti ricorderanno dov’erano il 2 aprile del 2005 quando morì papa Wojtyla.

Ma è inutile nascondersi, ragazzi del 66 (o giù di lì). Il nostro ricordo collettivo è datato 11 settembre 2001. E ovviamente non riguarda noi romani, né noi italiani. Neanche noi occidentali. I confini si sono allargati, il paese globale crea ricordi globali. E se John Lennon esagerava dicendo che i Beatles erano più famosi di Gesù Cristo, è possibile che il crollo delle Torri Gemelle sia un evento talmente conosciuto a livello mondiale da superare qualsiasi altra conoscenza.

Noi avevamo 35 anni, con le scelte più importanti già compiute, ma con il mondo ancora aperto ad ogni soluzione. Con qualche rimpianto e qualche rimorso. Con la coscienza di essere ormai grandi, ma la voglia di essere ancora ragazzi. Parecchi di noi erano già genitori, qualcuno aveva già perso mamma o papà. Avevamo tante prospettive davanti a noi, ma con i ricordi ancora freschi per non dimenticare quello che avevamo vissuto e quello che avevamo condiviso.

E certo, se ogni generazione ha il ricordo che si merita, dobbiamo tristemente constatare che i nostri nonni e i nostri genitori ne avevano costruiti di ben più belli dei nostri. Il nostro è il ricordo di una catastrofe, di una strada che come cantavano le teste parlanti, non porta in nessun luogo. Quindi la domanda non è, dov’eravate l’11 settembre, cosa facevate o cosa pensavate. La domanda che nessuno si fa, ma che mi piacerebbe fare, se qualcuno avesse risposte sensate (o non avesse troppa paura delle risposte più probabili), in un mondo come quello che gli stiamo lasciando, quale sarà l’evento e quindi il ricordo che accomunerà i nostri figli?

 

 

30 maggio 1984. Il fuoco amico dei ricordi

Notte di sogni, di coppe e di campioni…

E’ difficile ricordare, a trent’anni di distanza, una giornata in ogni singolo momento, come se l’avessi vissuta ieri. E infatti capita raramente e sempre quando il ricordo è legato a qualche evento particolare: il giorno in cui morì Kennedy, il giorno in cui rapirono Aldo Moro. O più recentemente l’11 settembre. Qui nella capitale, per le persone che hanno diciamo dai 40 anni in su, il 30 maggio 1984 è una di quelle giornate. Per me poi ci sono anche elementi in più del tutto personali. E allora, trent’anni dopo, cado sotto i colpi del fuoco amico dei ricordi (leggete l’ultimo di Piperno e poi ne riparliamo).

Bang! Il primo colpo mi riporta ad una mattinata di sole. Le 8,30, prima campana, e spegni quella sigaretta…17 anni, secondo classico, per chi non lo sa, 4 anno (sapete perché noi del classico siamo delle seghe in matematica? ma è normale, prima facciamo il 4 e 5 e poi il 1, 2 e 3!), con la scuola agli sgoccioli, c’era il rito della foto di classe. Come ogni anno, il più fortunato con la bandiera in mano, avremmo salutato l’anno che se ne andava, già proiettati al prossimo e all’esame di maturità che ci aspettava.

Bang! Il secondo colpo dei ricordi vola al pomeriggio, all’Aventino, alla clinica Salvator Mundi, per la precisione. mamma quel giorno doveva uscire. Finalmente! Due settimane prima aveva subito un’operazione e fortunatamente era andato tutto bene. Quello stesso tumore che poi se la sarebbe portata via qualche anno dopo, quella volta fu sconfitto. Un piccolo contrattempo fece slittare la dimissione il giorno dopo. “E va be’ – pensai – il peggio è passato, cosa vuoi che cambi un giorno in più o in giorno in meno”? L’importante è che si poteva ricominciare a vivere, a cazzeggiare, a pensare alle ragazze. E al calcio!

Bang! Il terzo colpo, quello che rende indimenticabile quella giornata, che la fa entrare nella storia. Allo stadio Olimpico la Roma si gioca la possibilità di entrare nella storia, di arrivare sul tetto del mondo. Mio padre, mio fratello ed io, laziali fino al midollo, come tutte le sere in quel periodo siamo a cena dal fratello di papà, in una casa di romanisti agguerriti e pronti a festeggiare. E sarà per riconoscenza verso i nostri ospiti, sarà perché anche noi percepivamo di trovarci di fronte alla Storia, con la S maiuscola, non potevamo tifare contro come avevamo fatto fino a quel giorno e come avremmo continuato a fare dal giorno dopo in poi.

Dario e Paolo, i miei migliori amici erano allo stadio, mio cugino lì a fianco a me, più della metà della città con il fiato sospeso, ad un passo dal traguardo. E certo, sapevo bene l’inferno che avrebbero scatenato, i mesi e mesi di festeggiamenti e di rosicamenti che stavo per subire. Avrebbero invaso la città, l’avrebbero messa a ferro e fuoco con i loro orrendi colori come avevano fatto pochi mesi prima con lo scudetto. Anzi, molto di più: Campioni d’Europa! Ma io la mia coppa dei campioni l’avevo già vinta. Mia mamma l’aveva vinta e tutto il resto contava davvero poco. Per questo avevo uno stato d’animo altalenante, un po’ rassegnato all’ineluttabile, un po’ rinfrancato comunque dallo scampato pericolo. E quasi impassibile, con una calma atarattica, assistetti alla disfatta dei cugini, al clamoroso harakiri che li portò a perdere la finale di fronte al proprio pubblico.

E così torno al primo colpo e torno a guardare quella foto. Ma pensa se avessero inventato la macchina del tempo. Pensa se si potesse andar lì ad interrogare quelle belle facce, a farsi raccontare i loro sogni, le loro speranze. Per esempio quello lì dietro con gli occhiali, il nano della compagnia. “Ehi tu? Che mi dici?” Chissà se tu potessi vedermi oggi come io posso vedere te. Perché io mi ricordo chi eri e cosa avevi in testa e ora posso giudicarti. Ma tu? Tu come mi giudicheresti? E quell’altro là, con la bandiera in mano e quell’orrida maglietta? Che direbbe oggi quello lì, che aveva tanta fretta quel giorno perché doveva correre allo stadio? Chissà se pure lui questa sera è stato colpito dal fuoco amico dei ricordi…

 

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