La situazione è grave, ma non seria

Ricapitolando. I 5 Stelle sono riusciti nell’impresa di suicidarsi politicamente, mettendo su un piatto d’argento la possibilità al centro destra di staccare la spina al governo senza sporcarsi le mani. Nel contempo, così facendo, hanno anche sciolto il PD da qualsiasi eventuale vincolo di alleanza in vista delle ormai prossime elezioni.

Che dunque vedranno, verosimilmente, due schieramenti contrapporsi. Nel primo la pescivendola (con tutto il rispetto e la stima che ho per le mie pescivendole del mercato di Val Melaina) della Garbatella, il reparto geriatrico di Arcore e la razza padana si faranno portavoci del populismo più sfacciato, promettendo tagli di tasse, aumento degli stipendi, congiunture astrali favorevoli, tre volte Natale e festa tutto il giorno. D’altro il PD, libero dal mortifero abbraccio con i pentadementi, non dovrà far altro che affidarsi a Draghi e a tutti coloro che in Parlamento (ma soprattutto fuori da esso) vorranno appoggiare la sua linea politica. Saranno in grado di fare questa scelta, senza se e senza ma? Hanno in mano la carta vincente, ma non sarebbe la prima volta che se la fanno sfilare dalle mani.

Considerazioni a latere. Sarà un caso che abbiano fatto cadere il governo tutte le forze politiche che in passato hanno avuto rapporti più o meno stretti con Putin? Diciamo di sì. Un caso. Con la “s”. Anche se mi verrebbe di scriverlo piuttosto con due “z”.

Seconda considerazione. Una volta per tutte la finiranno con questa filastrocca dei governi non scelti dagli elettori: questa folle legislatura l’hanno scelta quell’oltre 30% degli elettori che votarono 5 stelle. Sarebbe facile dire io (come tanti altri) l’avevo detto, sarebbe facile ora dire che “uno vale uno” non vale neanche quando si scelgono le squadre di calcetto il giovedì sera. L’importante è che sia finita. E’ stato lungo, faticoso, un po’ come il Covid, ma speriamo di esserne usciti.

Terza ed ultima. Le elezioni non sono mai una sciagura: lo scenario oggi è più chiaro, non ci saranno più le contraddizioni e le ambiguità di un governo con dentro forze naturalmente antagoniste. O di qua o di là, non credo ci saranno terze vie: cosa sceglieranno gli Italiani? Una volta tanto voglio essere ottimista.

E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia)
quando si tratta di scegliere e di andare,
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,
che sanno benissimo cosa fare.

Gli alibi e le ragioni

E confondo i miei alibi e le tue ragioni

Stiamo vivendo un periodo difficile. Sì, è vero, questa considerazione è un evergreen, l’abbiamo sentita ripetere un milione di volte, ma raramente abbiamo vissuto una pandemia mondiale e una guerra nel cuore dell’Europa, con una crisi economica che fa triplicare i costi dell’energia e rimanda indietro i livelli dell’inflazione a 40 anni fa. Insomma, viviamo sempre periodi difficili, ma questi penso oggettivamente siano più difficili di altri.

E come reagiscono i nostri politici? Come affrontano questa emergenza, questa concomitanza di eventi straordinari? Come sempre. Litigando per questioni di lana caprina, cercando di lucrare rendite di posizione e piccoli vantaggi da giocarsi a favore dei propri interessi di bottega. D’altra parte siamo stati noi ad eleggerli e non credo ci sia questa differenza radicale fra noi e loro.

Effettivamente in tante situazioni la linea di separazione fra alibi e ragioni è molto labile. E spesso anche artificiosa. Un po’ come quei confini disegnati sulla carta, dritti per dritti che vanno a dividere nazioni che in realtà fanno parte di un unico territorio. Quando invece esistono fiumi, montagne o qualsiasi altro dato concreto che separi due Stati, la situazione diventa molto più semplice. E più oggettiva.

La confusione nasce proprio dal fatto che è frequente il caso in cui non ci sono dati oggettivi. O meglio, ognuno di noi pensa di averne: siamo certi delle nostre convinzioni e quindi delle nostre ragioni. Quelli degli altri invece li giudichiamo solamente come alibi, scuse per fare o non fare qualcosa che in realtà non ha motivi.

Quando confondiamo alibi e ragioni rischiamo di rovinare un’amicizia, un rapporto di fiducia, una relazione. Ma quando questo succede a chi ha una carica ufficiale, il guaio può essere ben peggiore: chi ha obblighi nei confronti della collettività dovrebbe avere la capacità di andare oltre. Proprio perché alibi e ragioni possono essere facilmente confusi, ci vorrebbe un’assunzione di responsabilità, l’abilità e l’intelligenza di andare sopra ed oltre. E forse, quando saremo dentro la cabina elettorale, dovremmo cominciare a valutare i politici proprio a partire da questa capacità.

Buoni e cattivi

Una storia d’altri tempi, di prima del motore, quando si correva per rabbia o per amore…”

Un post su FB per ricordare la fine della prima guerra mondiale mi ha risvegliato ricordi dei racconti di famiglia su fatti e vicende di tanti anni fa, che però richiamano situazioni sempre attuali. Mi devo basare sui racconti, perché non vissuto, né conosciuto personalmente le persone coinvolte, anche se inevitabilmente un’idea me la sono fatta. Un’idea che però non è detto sia quella giusta, forse perché il tempo che passa tende ad attenuare i giudizi e comunque pone i fatti in prospettive diverse.

Nonno G. era un uomo integerrimo, con la schiena dritta, un uomo d’altri tempi, potrei definirlo (ed essendo nato alla fine dell’800, non è solo un modo di dire). Emigrato in Argentina per tentare fortuna, rientrato in Italia aderì convinto al fascismo, quando ancora nessuno era fascista. Nel 1936, quando poi tutti erano diventati fascisti, restituì la tessera, perché non si ritrovava più con le persone e con gli ideali che quel movimento portava avanti. Una scelta drastica che gli costò il posto di lavoro e costrinse la numerosa famiglia (aveva sette figli) ad un periodo di stenti e difficoltà non da poco.

Nonno R. era tutt’altro tipo. Frequentava le osterie, era un tipo irascibile, aveva lavorato come minatore, poi aveva fatto la grande guerra, rimediando una ferita che lo lasciò leggermente invalido per il resto della vita. Non era fascista, anzi penso proprio fosse fortemente contrario al regime. Durante la guerra lo arrestarono per borsa nera, roba di poco conto, ne uscì dopo una settimana. Fatto sta però che forse proprio grazie a qualche traffico ai limiti della legalità, riuscì a non far mancare mai nulla alla famiglia (lui aveva “solo” quattro figli). E poteva vantarsi di essere diventato un romano autentico, perché era salito per i “tre scalini” di Regina Coeli!

Nessuno dei due era una persona facile, forse i padri di allora non avevano questa confidenza e questa intimità con i figli come siamo abituati oggi. Entrambi erano legatissimi alla famiglia e in un periodo difficile come quello fecero scelte diverse, forse addirittura opposte. Chi può dire oggi se siano state giuste o sbagliate? Lampi di luce e zone d’ombra. Era nel giusto chi, per non scendere a compromessi, ha messo in difficoltà i suoi cari o chi, proprio grazie a questi compromessi, gli ha garantito una relativa tranquillità? E cosa avrei fatto io? Non ho risposte certe. Ripensando a queste storie però mi rendo conto di come si dovrebbe sempre sospendere il giudizio ed evitare opinioni troppo affrettate. “Bisogna stare nelle scarpe dell’altro per capire le sue scelte“, dicevano i nonni. E forse, almeno su questo, non avevano affatto torto.

Sempre e per sempre

Come il negozio di alimentari che rimane aperto anche dopo l’ora di chiusura, perché sa che anche i ritardatari come te hanno bisogno di un pezzo di pane per cena.

Come quella banconota da 50 euro che tieni nel cassetto, perché non si sa mai, magari potrai averne bisogno quando non ti andrà di andare ad un bancomat.

Come quando alzi gli occhi di notte e trovi il grande carro dell’Orsa maggiore e la stella polare, perché anche se di astronomia non capisci nulla, almeno quella la sai riconoscere, sai che è lei, sai che sta lì e non ti puoi sbagliare.

Come un bicchiere di rum, dopo una bella cena nel terrazzo d’estate con il vento tiepido che ti accarezza il viso e fa danzare il fumo di un buon sigarillo.

C’è una conseguenza nascosta nella situazione che stiamo vivendo. Più o meno consapevolmente, ogni giorno di più, ci rendiamo conto della nostra precarietà, del fatto che ogni cosa può cambiare in un attimo, ogni progetto può essere sconvolto, ogni previsione cancellata. I punti di riferimento vacillano, come un segnale intermittente, che dà e toglie la linea in maniera imprevedibile.

Forse impareremo, forse riusciremo ad apprezzare di più l’hic et nunc, godendo del presente, perché il futuro resta un’incognita. Forse sì. Ma il bisogno di certezze, la necessità di punti fermi, almeno per me resta imprescindibile. E certe cose, per fortuna, neanche una pandemia mondiale potrà portarmele via.

Come quella canzone, la tua canzone, che in qualsiasi stato d’animo ti possa sentire, appena la ascolti ricordi e sorridi, perché ha improgionato dentro le sue note e le sue parole i sentimenti più profondi, i ricordi più dolci, l’essenza di quello che sei stato ieri, di quello che sei oggi e di quello che sarai domani.

Pioggia e sole cambiano la faccia alle persone
Fanno il diavolo a quattro nel cuore e passano
e tornano e non la smettono mai
Sempre e per sempre tu ricordati
dovunque sei, se mi cercherai
Sempre e per sempre
dalla stessa parte mi troverai.

Viva l’Italia

L’Italia viva,
liberata, l’Italia
del valzer, l’Italia
del caffè, l’Italia
derubata e colpita al cuore, l’Italia
l’Italia viva
che non muore, l’Italia
presa a tradimento, l’Italia
assassinata dai giornali e dal cemento, l’italia
con gli occhi asciutti nella notte scura, l’Italia
che non ha paura, l’Italia.

Eh sì, le persone geniali le riconosci dalle sfumature, da quelle piccole grandi cose, quelle novità che rendono nuova, una cosa scontata. Che rinnovano il già vissuto, che rivoluzionano l’esistente e pur mantenendo la stessa melodia, ti danno l’illusione di aver scritto una nuova musica. D’altra parte, chiamarla Forza Italia forse pareva brutto.

 

Duemila parole, non di più

Vecchi appunti universitari e rimembranze delle lezioni del compianto prof. De Mauro, (ricordate? ne avevo parlato in questo post a proposito di giochi linguistici) mi ricordano che il vocabolario italiano è composto da circa 400 mila vocaboli. Un numero enorme simile a quello spagnolo e a quello tedesco, molte più del francese, molte meno dell’inglese. Ma questi numeri dicono poco, perché comprendono anche tutte le varianti di un singolo vocabolo (singolare, plurale, maschile, femminile) o la coniugazione di un verbo. Eliminando doppioni e variazioni inutili possiamo dire che il lessico comune comprende circa 50 mila vocaboli. Peccato che nel 95% dei nostri discorsi ne usiamo circa 2000 (circa il 4%), che è il cosiddetto lessico fondamentale. Facciamo un paragone con i soldi: è come se ogni mese potessimo usare cinquantamila euro, ma ci ostinassimo a vivere con duemila. Ci autoimpoveriamo.

E siccome il linguggio è lo specchio del pensare, la realtà è che abbiamo impoverito il nostro pensiero e di conseguenza la nostra realtà. Un linguaggio (e un pensiero) povero non c’entra solo con la grammatica e con l’azzeccare i congiuntivi, ma è molto più grave. Perché è un linguaggio che ha perso la fantasia, che ha smarrito le sfumature, che non viene più usato per comunicare pensieri, convinzioni e ragionamenti, ma solo per distruggere, offendere, ridicolizzare.

Duemila vocaboli sono funzionale alla semplificazione delle comunicazioni, all’abbandono dei grandi ideali (chi capirebbe oggi la lotta di classe o l’alienazione del proletariato?) e ha come conseguenza la banalizzazione della politica (ladri, onestà, immigrati). Un linguaggio che non fa più nessuno sforzo di capire le ragioni dell’altro, nessun distinguo, nessuna prospettiva di mediazione, che va avanti per slogan, per frasi fatte o per insulti.

Ma in una società in cui non si legge più nulla (ormai anche gli sms sono stati superati dalle emoticon di whatup e facebook stesso è già vecchio rispetto a Instagram), dove in TV ci teniamo informati guardando Striscia la Notizia e ci appassioniamo di chi sarà eliminato ad Amici,  come potremmo riappropriarci delle altre 48 mila parole dimenticate? Non sarà che questa è ormai una guerra già persa? Non dovremo forse inventarci nuove strade per esprimere la ricchezza del linguaggio e quindi del pensiero? Magari con le canzoni, o con i filmati, chi lo sa. Magari un fumetto ci salverà!

Nella canzone, “Il ’56” De Gregori ricorda la sua infanzia come il periodo in cui “tutto mi sembrava andasse bene tra me, le mie parole e la mia anima”. Ecco, oggi forse dovremmo recuperare questa armonia che non c’è più.

La presa della Bastiglia

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Dopo la lettura dell’ultimo post, la mia amica cazzeggiante poneva una domanda non da poco: “tu dici che sia possibile andare a prendere la Bastiglia?” Me la sono cavata con una battuta, ma se devo per un attimo fare la persona seria è ovvio che la risposta è assolutamente no!

Non siamo un popolo adatto alle grandi gesta, per fortuna o per sfortuna giudicate voi. Forse una volta, gli antichi romani, gli unici così fichi che erano fichi anche con un paio di sandali, ma poi dopo? Non abbiamo mai fatto una rivoluzione vera e propria, non siamo riusciti a liberarci delle varie dominazioni straniere se non grazie ad altri stranieri. Abbiamo una staterello ben impiantato proprio all’interno del centro vitale del Paese, che nel bene o nel male (anche qui, sospendo il giudizio) influenza quello che facciamo. Noi siamo il popolo che non è popolo. Che riscopre l’identità nazionale solo per una partita di calcio, anzi neanche più lì. Forse non è un dettaglio che siamo forse l’unica nazione che ha per colore identificativo (l’azzurro) un colore che non compare nella bandiera. Il blu Savoia: ma se i Savoia stanno sul cazzo a tutti? Ma lasciamo stare va!

Siamo il paese dei mille campanili: Pisa e Livorno, Potenza e Matera, Rocca di sopra contro Rocca di sotto, meglio un morto dentro casa che Tizio, Caio e Sempronio alla porta. Il paese delle contrade, dei Pali, dei derby. Altro che i Savoia, in realtà ci stanno sul cazzo tutti! Abbiamo questa singolare attitudine ad innamorarci del primo minchione che si atteggia a capetto, promettendo mari e monti, mentendo sapendo di mentire. Insomma no, ma quale Bastiglia vorremmo andare a prendere?

Siamo il popolo che si arrangia. Quelli delle regole da interpretare, delle norme da aggirare, senza senso civico, privi di qualsiasi senso del bene comune. Viviamo in una striscia di terra in cui si trovano il 70% delle opere d’arte di tutto il mondo e non siamo capaci non dico di valorizzarle, ma almeno di evitare che vadano in malora. Come dice la mia saggia amica Frà Squadra, “la magra consolazione è che qui da noi per le stragi non c’è bisogno del terrorismo islamico. Basta un binario unico, qualche politico corrotto e ce la caviamo benissimo anche da soli“.

Forse per questo le grandi imprese eroiche non fanno per noi. Siamo troppo poco tragici e troppo poco eroici. Ma forse siamo anche troppo saggi per pensare che basti prendere una Bastiglia per poter cambiare le cose. Perché la verità è che ci salva il buon senso, la capacità di saperci adattare, di stare con gli occhi asciutti nella notte scura: né santi, né eroi, forse navigatori, senza dubbio paraculi. Da noi vale il detto “non dire gatto se non c’è l’hai nel sacco“. Ma io soprattutto aggiungerei, mai e poi mai e per nessun motivo, non dire “mulo“.

A proposito di referendum

E poi la gente, perché è la gente che fa la storia, quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, che sanno benissimo cosa fare.

Dopo l’ennesimo referendum che non raggiunge il quorum, non sarebbe il caso di rivedere qualcosa? O vogliamo continuare a buttare soldi dalla finestra, così per sport? Non sarà il caso, ad esempio, di aumentare il numero di firme necessarie per richiederlo? E non mi venite a parlare di disaffezione della gente. Quando la gente è coinvolta e interessata ci va a votare, così come infatti successe nel 2011, su una questione seria, comprensibile a tutti, ma che soprattutto non richiedeva conoscenze tecniche specialistiche da addetti ai lavori. Volete che la gestione dell’acqua sia pubblica o privata? Semplice, immediato, ma soprattutto vicino alle esigenze delle persone.

La gran parte dei quesiti degli ultimi 20 anni invece hanno riguardato questioni molto specialistiche, che richiedevano conoscenze che l’uomo comune non ha e non è nemmeno legittimo chiedergli. Questioni che poi regolarmente sono state strumentalizzate dall’una o dall’altra parte, aumentando la confusione, alimentando la disaffezione, svilendo lo strumento referendario. Esempio lampante quest’ultimo. Ho letto critiche feroci contro chi non sarebbe andato a votare. Una profusione di demagogia, una campagna che grondava populismo, senza far capire nulla di cosa si andava realmente a votare. Chi è che realmente svilisce il ruolo del referendum, chi non va a votare o chi stravolgendo il significato dei quesiti, li strumentalizza per le sue opinioni?

Il referendum, chiamando ad esprimersi direttamente le persone, può facilmente diventare uno strumento demagogico, che parla alla pancia della gente, che fa una chiamata alle armi semplificando tutto e creando schieramenti elementari: buoni e cattivi, fascisti e comunisti, laici e clericali. Ma la realtà è quasi sempre molto più complessa, più articolata, più profonda. Ci sono i pro ed i contro, ci sono costi e benefici da calcolare, per i singoli e per le comunità. E spesso l’uomo comune non ha le conoscenze e gli strumenti per decidere.

Avremmo dovuto esprimerci sulla durata delle concessioni di impianti di estrazione (il 90% di gas, non di petrolio), che stanno a una certa di distanza dalla costa, decidendo se fossero le regioni a stabilire la data o altri organi…ma chi poteva essere in grado non dico di decidere, ma semplicemente di capire la questione? Chi sapeva esattamente le conseguenze ambientali, quelle sull’occupazione, le relazioni con altri impianti analoghi posti magari dall’altra parte dell’Adriatico? Leggendo qua e là su internet, sentendo l’amico saputo che “n’amico mio m’ha detto che“, oppure semplicemente lasciandoci trasportare dai proclami che, stravolgendo il significato dei quesiti, ti dicevano, “se voti così allora sei contro il mare pulito“, oppure “se voti cosà allora sei contro i Marò e Regeni“.

Ma io non lo so chi ha ragione e chi no e neanche lo voglio sapere. Io eleggo delle persone in Parlamento e voglio che decidano loro e pretendo che decidano per il meglio del Paese. Altrimenti la prossima volta ne voto altri. Così funziona la democrazia rappresentativa e per questo si va a votare alle elezioni: per delegare chi ha più strumenti, più conoscenze, più risorse mentali, per decidere. Democrazia che, contrariamente a quanto pensa qualcuno, non è un’assemblea di condominio, né la curva di uno stadio. Per fortuna.

E’ stretta e lunga

E così sono arrivato al termine di questo lungo, stressante, faticoso ma anche appassionante giro d’Italia. Un mese e mezzo di aerei, treni, macchine, voucher, taxi, alberghi, ristoranti, incontri, paesaggi, persone, vecchi amici e facce nuove, gente allegra e tipi incazzosi, prenotazioni, fatture e ricevute, disdette, inconvenienti e ritardi, cellulari che si scaricano, partenze veloci, digestioni lente, ritmi frenetici e pause improvvise, sonni agitati e sveglie antelucane, cuscini troppo alti e coperte troppo pesanti, aree condizionate a palla e scrosci di pioggia rigorosamente senza ombrello.

Si perdono le misure, saltano i ritmi. Capisci come possono sentirsi i cantanti o le compagnie teatrali. Arrivi in una città e riavvolgi il nastro, pronto per raccontare nuovamente la stessa storia. E’ vero, le facce sono diverse, le domande a volte pure, però la sensazione dello spettacolo, dello show che necessariamente must go on è quasi inevitabile.

Vista così, di corsa e tutta insieme, saltano agli occhi le differenze e le somiglianze. E’ lunga che non finisce mai e davvero paese che vai usanze che trovi: partendo da Bolzano fai prima ad arrivare a Stoccolma che a Siracusa. La distanza non è solo geografica. Però allo stesso tempo è stretta così tanto che per attraversarsala orizzontalmente bastano un paio d’ore: potresti abbracciarla con uno sguardo per capire che in fondo è sempre la stessa.

Differenze e somiglianze che rendono distanti e allo stesso tempo vicini i colleghi, gli interlocutori esterni, i paesaggi dove ti muovi, le persone con cui parli. Comunque la si vuol vedere è bellissima la nostra Italia. Ed il dubbio che non la apprezziamo fino in fondo come dovremmo, che non gli vogliamo bene come meriterebbe, ti accompagna dalla prima all’ultima tappa. Dai portici sotto la Madunnina dove ho cominciato, al lungomare Caracciolo dove il viaggio è finito.

Ora però, come disse Forrest Gump dopo la sua lunga corsa, “sono un po’ stanchino”.

La ballata dell’uomo gomma

“Mamma c’ha il cuore debole ma la voce di tuono, Mamma c’ha il cuore debole ma la voce di tuono. Ci guarda col megafono dall’ultimo piano. Promette un castigo, minaccia un perdono”

Probabilmente ha dei ricordi sfumati, annegati in un litro di frustrazioni, tre quarti di dispiaceri e mezzo di paure. Era ubriaco di ansie fin da piccolo e non si è più ripreso. E’ così, è sempre stato così. Più grasso del dovuto, meno amato del consentito. Lo chiamavano Gommolo, perché ha la faccia morbida e tonda, proprio come una gomma da cancellare. Una carezza mancata, un bacio non dato, l’assenza che riempe ogni tempo, ogni spazio, deborda sopra ogni presenza e ti lascia senza fiato, come fossi sott’acqua.

Sott’acqua Gommolo chiude gli occhi e sogna. E poi sogna anche ad occhi aperti. La maestra dice che ha molta fantasia e anche se dice bugie, se nega l’evidenza, è segno di intelligenza, non bisogna reprimerlo, povera creatura. E lui continua, ci prende gusto, affina la tecnica. Se la realtà è brutta, se il mondo è cattivo, se non c’è possibilità di cambiarlo, se è troppo faticoso cambiarlo, perché non inventarne uno nuovo? Se puoi raccontarlo diventa vero. Se ci credi veramente allora esiste sul serio. Se ci credi fino in fondo ci crederanno anche loro, anche gli altri, tutti gli altri.

Gommolo studia, diventa il più bravo, puoi chiedergli ogni cosa, lui sa tutto. E poi fa girare le voci, racconta storie, diffonde leggende. Come una gomma su un foglio, quello è il suo modo di cancellare la realtà. E crearne una nuova.

Lui vuole bene a tutti, è buono, è simpatico, è disponibile. Vuole essere amico di tutti, farà quello che vuoi, perché vuole che anche tu gli voglia bene. Stai attento però! L’importante è non svelare le sue bugie. Perché allora diventa cattivo, più cattivo di tutti. Lui è come l’uomo ragno. Nessuno deve togliergli la maschera.