Squonk

Mirror, Mirror on the Wall…

Quella sera mi ero intrattenuto a lungo nella locanda, più di quanto avrei voluto e forse dovuto. Il percorso verso casa era breve, ma in quelle condizioni atmosferiche, con tutto l’alcol che avevo in corpo, anche quei dieci minuti di camminata potevano diventare molto pesanti. L’indomani era previsto il trasferimento forzato di quelle quindici famiglie. Avevamo annegato nell’alcol il dispiacere del distacco: promesse di rimanere in contatto, pacche sulle spalle, ricordi, avevamo tirato fuori tutto. Se ne andavano in cerca di lavoro e fortuna, lasciandosi tutto alle spalle, parenti, amici, sicurezze, ma anche tanta miseria.

Avevano ricominciato a cadere fiocchi molto duri, una miscela di neve e grandine che il vento faceva vorticare tutti intorno a me. Avanzavo lentamente coprendomi il viso con la sciarpa che però cadeva ad ogni passo, ero quasi a metà strada, nel pieno del bosco che dovevo attraversare per arrivare a casa, quando sentii delle voci. Prima in lontananza, poi sempre più chiare, c’era della musica e delle persone che stavano cantando. Un attimo di esitazione, continuare verso casa o seguire le voci? Ovviamente vinse la curiosità di capire chi potesse cantare in piena notte in mezzo al bosco, con quel tempo infernale.

Le voci erano sempre più chiare e seguendone il suono vidi in lontananza un fuoco che brillava nell’oscurità. Mi avvicinai cautamente e rimanendo nascosto fra gli alberi vidi uno spettacolo che mi lasciò senza parole. Intorno ad un fuoco acceso in una radura c’erano una quindicina di bambini, seduti in terra in cerchio e, non saprei come spiegarlo diversamente, dalle loro teste, usciva un fumo azzurrognolo che salendo verso il cielo formava della figure. Figure di donne, fate, vascelli, palloni che gallegiavano in aria, lune e stelle, poi c’erano cani, cervi, draghi, figure bizzarre, mezzi cavalli e mezzi uomini e poi strani macchinari e tutti danzavano al suono di una musica incantevole.

Dio santo, da domani basta grappa” pensai fra me, rimanendo incantato di fronte a questo spettacolo bellissimo ed inverosimile. Non nevicava più, stavo sognando, era più che evidente, forse in realtà ero ancora nella locanda ed ora il grande Joe mi avrebbe svegliato. O forse ero arrivato a casa, ero nel mio letto. Ma perché allora sentivo tutto quel freddo? Provai a tirarmi la barba, ma l’improvvisa sensazione di dolore mi fece smettere. Non sapevo se farmi avanti o scappare, la situazione era talmente assurda che qualsiasi cosa poteva essere giusta o errata. In quel momento da un angolo della radura venne avanti una volpe che girò intorno al cerchio dei bambini. Non era spaventata, forse anche lei attratta dalla musica. Ma lì accadde la cosa più incredibile di tutti. Improvvisamente la volpe si alzò su due zampe e cominciò a danzare al suono della musica. Si avvicinava ai bambini, uno ad uno, ed al suo tocco loro si alzavano e cominciavano a danzare con lei. Pian piano tutti quanti si alzarono e sempre a ritmo con la melodia andarono via seguendo la volpe.

Rimasi solo nella radura, il fuoco che pian piano si andava spegnendo, la neve lentamente ricominciava a scendere. Forse ero davvero ubriaco e mi ero sognato tutto. Sicuramente era così. Mentre ero lì perso nei miei pensieri, ecco di nuovo la volpe. Era apparsa improvvisamente lì a due metri da me, mi guardava con i suoi occhi gialli con uno strano ghigno, sembrava ridesse, girò su se stessa e scomparve nella notte. Non mi azzardai a raccontare a nessuno quella scena e continuai la mia vita come sempre. Ma non me ne dimenticai mai e nulla fu più come prima.

 

Squonk è una pausa nel tempo, una fugace interruzione della realtà, che svela i desideri, rende possibili i sogni e a ritmo di musica li rende reali. Può prendere molte forme, può apparire come un animale o come una persona, come un sogno o una promessa. Sei portato naturalmente a seguirlo perché scaccia via le paure e accende le fantasia. Purtroppo crescendo è difficile riconoscerlo o anche solo ricordarlo. Per fortuna però c’è la musica e se seguiamo quella possiamo sempre sperare di incontrarlo.

 

Non sei figlio mio

Io sono un uomo. Non sono più padre, non sono più figlio. Solo un uomo. Non ho niente da insegnare e niente da imparare. Devo solo trovare la chiave giusta per sopravvivere e per mantenere la mente sana, perché lo so che non c’è via di fuga.

Le cose non son mai state semplici per me, ma giorno per giorno mi ero costruito qualcosa di importante, un posto da poter chiamare mio. Non ci pensavo molto all’inizio, finché non ha cominciato a succedere troppe volte e così pian piano ho cominciato a scivolare, a vivere di giorno con la paura di cosa potesse succedere la notte.

Non ero preparato, anche se in fondo sapevo che prima o poi sarebbe successo. Ma non ero affatto preparato. Chi lo è? Sentii i rumori di sotto, avevo il cuore in gola, scesi senza guardare, ma sapevo cosa avrei trovato, sapevo cosa sarebbe successo. Quei rumori mi risuonano ancora nella testa, sempre, sempre, sempre. Li riuscite a sentire voi che mi condannate? Oppure voi che pensate di essermi d’aiuto difendendo quello che ho fatto?

Dicono che il tempo sia un gran guaritore, ma ora le mie ferite non sono le stesse di prima. Legittima difesa ha detto qualcuno, legittima difesa per paura. Ma la paura è un figlio illeggittimo, che ti ritrovi in casa e una volta lì non ti lascia più. Puoi provare a lasciarla fuori a dirgli “non sei mio figlio”, ma lei ritornerà, sempre la stessa, ma sempre diversa. E purtroppo sia chi mi accusa, sia chi mi difende, non riuscirà a portarmela via.

You’re no son, you’re no son of mine
You’re no son, you’re no son of mine
You walked out, you left us behind
And you’re no son, you’re no son of mine

 

 

L’alfabeto delle canzoni

E ce l’ho fatta anche io! Mica potevo mancare…quando il mio amico Zeus chiama non ci si può tirare indietro (veramente anche Papillon mi aveva solleticato un giochino analogo, basato sui titoli dei film, ma mi mancano troppe lettere!) Il giochino è quello di ripercorrere l’alfabeto citando titoli di canzoni. Poi lo sapete che le liste di qualsiasi cosa, soprattutto se minchiona, mi fanno impazzire. Tanto per rendere la cosa un po’ meno minchiona (mica tanto eh!) ho cercato di mettere dentro una sola volta a testa, tutti i miei gruppi e cantanti preferiti. Potreste dirmi, va be’ ma a noi che ce frega? Lo so, invece a me il giochino è piaciuto assai, anche perché riuscire a far partecipare alla cosa i best 25, ti costringe a pensare e poi a scegliere. Certamente qualcuno manca, ma le lettere a disposizione erano finite!

As Tears go by – Rolling Stones. Gli Highlander. Li ho sentiti dal vivo l’anno scorso al Circo Massimo e davvero cominci a pensare che in fondo la droga non sia poi così nociva.

Baba o’ Reily – The Who. Una canzone che bisognerebbe sentire ogni mattino, a palla di cannone, appena alzati, così tanto per ricordarci quant’è bella la vita

Cowgirl in the sand – Neil Young, come cantante lui è nella mia top five, la canzone in questione è straziante e bellissima come solo lui potrebbe cantare

Desperado – Eagles, loro sono bravissimi e la canzone merita assolutamente, al pari di molte altre (fra l’altro ce n’è un’altra, sempre con la D che mi piace un sacco, ma già l’ho usata per altri post e non volevo ripetermi)

Easy does it – Supertramp, loro sono il “mio” gruppo. Non i preferiti in assoluto, ma quelli che sento più miei, come fossero miei amici, come li conoscessi da trent’anni, un po’ come i compagni di scuola. E in fondo un po’ è anche vero.

Fat bottomed Girls – Queen. Altro gruppo storico nei miei ascolti e l’omaggio alle ragazze culone penso sia uno dei loro pezzi più significativi, per ironia, ritmo, spontaneità. Secondo me un po’ troppo sottovalutati.

Good Riddance – Green Day fra le nuove generazioni forse i più ascoltati. Questa canzone in particolare la trovo bellissima.

Horizons – Genesis. ecco dovessi scegliere un solo gruppo, non avrei dubbi, sono loro. Ho scelto volutamente un pezzo minore, brevissimo, solo strumentale, perché basta anche solo questo per far capire secondo me che quando fra trecento anni studieranno la storia della musica del 900, loro saranno nei libri di testo.

Knockin’ on Heavens Door – Bob Dylan. Che vogliamo dire su quest’uomo e su questo pezzo. Silenzio e alziamo il volume

Inbetween Days – Cure. Torniamo alla mia adolescenza con questo gruppo di matti che però in questa canzone diedero veramente il massimo. Pezzo monumentale, un altro di quelli da ascoltare la mattina per darsi la carica

Love Boat Captain – Pearl Jam. Pensavo ad un certo punto che il rock avesse già detto tutto quello che aveva da dire. Loro e il gruppo che segue a due distanze mi hanno fatto ricredere. I Nirvana sono l’emblema, loro la sostanza, fra i due, a mio avviso, c’è un abisso.

Mother – Pink Floyd. Questi certo non potevano mancare. Li ho consumati a furia di ascoltarli: probabilmente hanno scritto brani molto più belli di questo, ma ultimamente l’ho riascoltato casualmente e mi è venuto da piangere

Nightswimming – Rem. E questo è l’altro gruppo che mi ha fatto pensare che effettivamente ancora è presto per fare il de profundis al rock. Grande gruppo, grande pezzo!

On almost sunday morning – Counting Crows. Anche loro appartengono alla nuova generazione, ma per intensità dei pezzi, meritano di essere nell’olimpo. Spero di riuscire ad andarli a vedere a luglio!

Police on my back – The Clash. Nuovo salto all’indietro per un gruppo che mi ha sempre fatto impazzire. Come fai ad ascoltarli senza che ti venga voglia di salire su un tavolo e metterti a ballare?

Queen of Supermarket – Bruce Springsteen. A parte che trovare una canzone con la Q non era proprio facilissimo, ma lui è lui…il Boss, unico e solo. Insieme ai Genesis, nella mia classifica, sempre al primo posto.

Revolution – Beatles. Loro sono la storia, il porto sicuro in cui torni ogni volta che hai bisogno di sentirti a casa. Possono anche passare mesi senza ascoltarli, ma tu sai che loro sono lì. Una certezza.

Stay – Jackson Browne. Un altro dei miei preferiti, un altro di cui ho consumato gli LP quando ancora non c’era l’elettronica che ti veniva incontro. E quindi quando finiva la prima facciata toccava alzarsi, rigirare il disco e rimettere su il braccio, calcolare la traccia e abbassare la levetta.

Tunnel of Love – Dire Straits. Ultimamente li ho citati in un ricordo di qualche anno fa. Nei favolosi eighteen loro non mancavano mai. Questa, per la cronaca, è nella colonna sonora di Ufficiale Gentiluomo, film cult di quegli anni.

Uptown Girl – Billy Joel. Un altro di quei cantanti di cui ho la discografia completa. Sparito ormai da qualche anno dalle scene, ma questo testimonia una volta di più la sua grandezza. Se non hai più niente da dire, perché continuare a rompere i timpani? Non sarebbe meglio tacere? Grande Billy!

Valencia – The Decemberists. Dei gruppi nuovi o comunque emergenti questi sono quelli che forse mi piacciono di più. Un mix molto interessante di rock, country, prog. veramente notevoli!

With or Without you – U2. I loro primi 5 dischi li pongono nell’Olimpo dei più grandi di tutti. Poi si sono persi e difficilmente si ritroveranno. Ma arrivare a certe vette non è da tutti!

Xanadu – Elo. Insieme ai Supertramp l’altro gruppo che sento mio, perché fa parte dell’adolescenza in maniera pervasiva. La prima facciata di Discovery è forse in assoluto il disco che ho ascoltato di più. Anche in questo caso, forse, anzi sicuramente, ne hanno scritte di più belle, ma trovatemi un’altra canzone con la X?

Your song – Elton John. Un altro gigante che in una classifica del genere non può mancare. Canzone struggente e bellissima.

Zombie – Cranberries. Loro sono un grande gruppo, che hanno saputo dire qualcosa di nuovo, poi la voce di Dolores O’ Riordan è una di quelle che ti fanno fare pace col mondo.

A proposito di persone importanti

Ci sono cose importanti e cose che ci importano. Non sempre le due coincidono. Ci sono cose che razionalmente riconosco essere molto importanti: la situazione economica del paese in cui vivo, l’effetto serra o la fame nel mondo. D’altra parte ci sono cose che emotivamente mi importano molto: il risultato della Lazio, l’aumento di stipendio, il meteo nel fine settimana.

Se volessimo catalogare, potremmo dire che alle persone profonde importano le cose importanti. Quelle superficiali ritengono importanti le cose che a loro importano.

Ma in fondo questa è una semplificazione che lascia il tempo che trova, perché fatta con la testa, più che con il cuore. E per fortuna noi essere umani ragioniamo molto più con il cuore che con la testa. Per questo l’importante, alla fine dei conti è ciò che ci sta a cuore. E anche sforzandoci non riusciremo mai ad avere a cuore una cosa solo perché è importante. E’ vero esattamente il contrario: una questione diventa importante se l’abbiamo a cuore, se il suo esito ci toglie il sonno, se riguarda cose o persone a cui teniamo.

E se è vero per le cose, per i fatti, per le situazioni, molto di più succede per le persone. So quello che mi piace e mi piace quello che so, cantavano i Genesis nel loro album più bello. E allo stesso modo potremmo dire che non sono nel nostro cuore le persone importanti, piuttosto le persone importanti, quelle di cui ci importa, sono quelle che stanno nel nostro cuore. E non sempre siamo noi a decidere chi o perché sono lì dentro. Però ci sono. A volte senza un motivo, a volte per un milione di motivi e altre ancora per uno solo, ma importantissimo.

Per un motivo o senza di esso, le persone importanti sono quelle di cui ci importa, perché sono lì nel nostro cuore, rendono belle le nostre giornate, ci mancano un minuto dopo che abbiamo finito la telefonata con loro, condividono con noi le loro ansie, le loro paure e i loro desideri. Ci sorprendono ricordando cose che anche noi avevamo dimenticato, ci fanno gli auguri a mezzanotte e un minuto e sanno indicarci le stelle nella notte oscura. Forse, banalmente, perché sono loro le nostre stelle.

Mirror, mirror on the wall…

Le persone possono essere suddivise in mille modi. Destra, sinistra, nord, sud, passionali e razionali, guardie e ladri, giorno e notte, Però effettivamente, come scrisse una volta quel vecchio trombone di Scalfari esistono due macrocategorie antropologiche, che comprendono e fanno comprendere molte persone e molti atteggiamenti ricorrenti. Chi si sente in credito e chi si sente in debito con la vita.

I primi hanno sempre da recriminare presunti torti subiti, hanno la sindrome della persecuzione, si sentono sempre defraudati, vittime di chissà quali complotti, oppressi da ingiustizie immeritate. Ovviamente, sentendosi in credito, si sentono anche autorizzati a richiedere, anzi a pretendere quanto dovuto. Per questo si sentono legittimati ad andare fuori dalle regole, ma anche dei principi generalmente accettati nell’umana convivenza. Il fatto che il mondo esterno non riconosca le loro sacrosante recriminazioni, li fa convincere sempre più del torto subito, aumentando la propria autostima, ingrossando un ego già di per sé ipertrofico, incapace di ascoltare la minima critica, neanche la più piccola voce discordante.

Il più delle volte c’è un nemico. Concreto, individuabile, ma allo stesso tempo metafisico, che è ovviamente colpevole di tutte le nefandezze del mondo, ma soprattutto di aver rubato la marmellata al povero cocco di mamma: le democrazie plutocratiche, le lobby giudaico massoniche, i servizi segreti bulgari, la Spectre, gli extraterrestri, Luciano Moggi. Davanti al loro specchio si pongono le domande fondamentali dell’esistenza, perché gli altri mica la vogliono riconoscere questa lapalissiana verità che loro e solo loro sono i più belli, i più forti, i più meritevoli del reame. E il loro specchio gli dà sempre ragione!

A questi si contrappone chi dalla vita si sente sempre in debito. Chi capisce che ha avuto tanto e quindi è disposto a restituire. Chi ringrazia anche quando non dovrebbe, chi è contento di quel che ha e per questo accetta quello che arriva senza pretendere nulla. Non è detto che sia completamente soddisfatto perché l’essere in debito non toglie la legittima aspirazione a migliorarsi. Non ha specchi al muro a cui domandare lumi del futuro, non ha rassicuranti risposte preconfezionate sulle quali adagiarsi. Ma come le onde di un fiume non ritornano indietro, così chi si sente in debito, guarda avanti, non sapendo se avrà ancora da ricevere, ma con la sicurezza che avrà ancora molto da dare.

Sail away, away, ripples never come back, gone to the other side, sail away, sail away

Le mie 10 canzoni

Senza musica la vita sarebbe un errore. Friedrich Nietzsche

Era tanto che volevo scrivere un post così. La musica non è un elemento accessorio della mia vita, ma ne fa parte in modo essenziale, non mi lascia mai, mi accompagna in ogni situazione. Probabilmente è la cosa più bella che esiste, la più bella che l’uomo abbia mai inventato, ammesso che l’abbiamo inventata noi. Se mi guardo indietro ogni tempo ha avuto la sua musica, ogni sentimento, ogni situazione e non c’è nulla di più concreto e di più immediato di una canzone per far tornare alla mente le sensazioni provate, il passato, il presente e il futuro. E queste sono le mie dieci canzoni: le più belle, le più significative. Le mie!

Thunder Road. E’ la canzone del coraggio di vivere e del rialzarsi sempre. Non importa quanto sei stanco, non importa quanto non ti va: il Boss dice che si può fare, che ce la posso fare, basta volerlo. E se lo dice il Boss, chi sono io per contraddirlo?

Baba O’Reily. L’età adulta, la scelta di abbandonare un passato certo, per un futuro diverso, di chiudere definitivamente delle porte per poterne aprire delle altre. La paura e la speranza. Soprattutto, la certezza che fatto qual passo indietro non si torna.

Wish you were here. La nostalgia per chi non c’è più. Non riesco a farci i conti con questa canzone ed in generale con i Pink Floyd. Di una bellezza inaudita, ma troppo dolore, troppo.

The Pretender. La sicurezza. E’ la canzone della calma dopo la battaglia, quella del ritorno a casa, dei lunghi viaggi in macchina nella notte. Una notte brillante di stelle, che arriva dopo un giorno faticoso, ma pieno di soddisfazioni.

Goodbye Stranger. L’adolescenza. Ne avrei potute scegliere molte altre, ma questa è certamente la più significativa, quella che più di tutte mi fa ripiombare indietro di trent’anni. Quella che mi fa risentire i profumi, i sapori, le voci degli anni del liceo, dei pomeriggi spensierati, ma insieme pieni di pensieri. Degli anni delle grandi scelte, perché ancora era tutto da scegliere. Per inciso oggi è la suoneria della sveglia.

We’ve got tonight. I percorsi perduti, i sentieri interrotti della vita, non per forza scelte sbagliate, ma certamente quelle non portate avanti. Senza rimpianti. Quelle strade che avremmo potuto seguire, che ci sarebbe piaciuto seguire, ma che abbiamo deliberatamente scelto di non continuare a percorrere.

Blackbird. La tristezza. Quella con cui impari a convivere, quella che sta sempre insieme a te, anche nei momenti più belli, anche nelle gioie più grandi, quel senso di incompiutezza, di nodi irrisolti, di questioni aperte. Ma insieme anche quella tristezza tenera, a cui ti abbandoni, certo che lei non ti lascerà mai, a cui in fondo hai imaparto a voler bene.

With or without you. Le contraddizioni, i conflitti, il giusto e lo sbagliato insieme. L’andare quando bisognava fermarsi, il dire quando bisognava tacere. La vita in fondo, cos’altro?

Powderfinger. La forza. La certezza di farcela. E’ un passo in più di quella del Boss: andrebbero ascoltate insieme, una dopo l’altra, perché dove finisce quella comincia questa. Se vogliamo, forse questa potrebbe essere la canzone del domani.

Firth of  Fifth. Semplicemente la bellezza della vita. Ancora oggi mi incanta. Dovessi sceglierne una da ascoltare sempre, da qui all’eternità, non potrei non scegliere lei.

Ne mancano moltissime. Non c’è la “nostra” canzone, perché quella è di Ale e mia e basta. Non ci sono canzoni che hanno dietro dei ricordi precisi ed indelebili: non necessariamente grandi canzoni, ma che certamente hanno fatto parte della colonna sonora della mia vita. Penso ai Spandau o agli ELO, ai Queen o ai Dire Straits. Non c’è molto presente, non ci sono i Rem o i Green Day, i Pearl Jam, i Counting Crows, tutti gruppi che accompagnano le mie giornate oggi e in un recente passato. Ma non si possono ricordare tutti. Non ci sono canzoni italiane, semplicemente perché pur essendocene di molte belle e anche molto significative, nessuna, almeno nella mia personalissima opinione, può competere con queste.

Sarà difficile, ma spero sempre che la più bella sia quella che ancora dev’essere scritta.

Nella gabbia

“I got sunshine in my stomach, Like I just rocked my baby to sleep. I got sunshine in my stomach. But I can’t keep me from creeping sleep. Sleep, deep in the deep.”

E così mi risvegliai dentro il mio stomaco. Non riuscivo bene a capire come fosse possibile: ero io, ero senza dubbio io, ma nello stesso tempo mi trovavo chiuso fra le pareti molli del mio addome. Eppure la sera prima ero andato a letto come sempre. Avevo cenato, avevo guardato un po’ di tv, ero stato su Facebook, su What’s up, sul blog  e poi ero andato a dormire. Com’era possibile? Provai a darsi un pizzico per svegliarmi…ahia! Provai a sferrare un cazzotto con tutta la forza che avevo in quell’ammasso di grasso in cui ero avvolto, ma l’unico risultato fu sentire una fitta fortissima nella mia pancia.

Niente da fare. Per quanto potesse sembrare paradossale, ero davvero prigioniero nelle mie viscere. Provai ad arrampicarsi verso l’alto: in fondo soffrivo da tempo di reflusso esofageo, se fossi riuscito ad arrivare su magari provocando un qualche spasmo sarei stato catapultato fuori. Anche perché l’altra via di uscita era terribilmente più inquietante!

Ma per quanto sforzi facessi non riuscivo ad aggrapparsi a nulla, le pareti morbide non mi davano nessun appiglio, affondavo  ad ogni passo, come quando provi a muoverti nella neve alta. Ma quale neve! Lì faceva un caldo asfissiante.

–      E’ inutile che ti agiti. Da lì non esci di certo.

–      Chi è? Chi ha parlato?

–      Non fare il finto tonto, lo sai benissimo. Sono il tuo stomaco.

–      Il mio che?

Sto decisamente impazzendo. O forse no. Effettivamente “Der Mensch ist was er isst”, lo diceva anche Feuerbach. Però essere rinchiusi all’interno del proprio stomaco penso sia un’esperienza unica. A quanti altri è capitato?

–      Finalmente ci sei riuscito! Ce ne hai messo del tempo. Da quant’è che provi ad entrare qui? Da quant’è che fai di tutto per rinchiuderti in questo rifugio protettivo, che escluda tutto il resto del mondo? Del resto è ormai da tempo che non hai più pensieri, che non hai più emozioni, al di fuori di me.

–      Stai zitto un attimo che devo pensare.

Forse devo semplicemente dire a me stesso che non sono qui. Non posso essere qui! Non è possibile che io sia prigioniero del mio stomaco! Sono benissimo in grado di gestire questa situazione.

–      Io sono più importante di te! Mi senti? Io sono più forte di te! Non rispondi eh! Perché lo sai che ho ragione. Io sono più forte di te, hai capito? Sono più forte, sono più forte, sono più forte! E posso benissimo liberarmi e andarmene quando voglio. Posso andarmene quando voglio, posso andarmene, posso uscire e andarmene…

–      Starai benissimo qui. Peccato solo che non hai portato il telefonino: potevamo farci un selfie e postare la foto su Facebook. Guardateci, siamo io e il mio stomaco! In pochi minuti migliaia di like assicurati. Quelli per te sono importanti, o sbaglio? Perché vuoi uscire fuori? Oramai dovresti saperlo…in fondo, che differenza c’è tra qui e fuori? Qual è il mondo reale e quale no? Sei prigioniero o sei finalmente arrivato dove volevi? Ed io, sono il tuo carceriere o la tua meta agognata?

Pensaci. Conta fino a dieci e pensaci prima di rispondere.

 

Danzando sul ciglio di un vulcano

The music’s playing, the notes are right. Put your left foot first and move into the right. The edge of this hill is the edge of the world. And if you’re going to cross you better start doing it right. Better start doing it right!

Sarà stato aprile. O maggio. No, era aprile. Una calda serata di un giovedì di aprile. Solita partita a calcetto, solita sudata e conseguente inappetenza e insonnia da accumulo di adrenalina. Avevamo ancora il piumino, perché Ale terrebbe il piumino anche ad agosto.

Mi sveglio intorno alle due, sudato come un piede dentro uno scarpone da sci, con una sete come mi fossi ciucciato una clessidra con tutta la sabbia. Mi alzo mezzo rintontito e senza accendere luci per non svegliare nessuno passo per il bagno per fare pipì. L’ultima cosa che ricordo è che stavo lì, di fronte al water. Mi risveglio per terra, con Ale che nel frattempo ha sentito un botto (ricostruendo poi il mio capoccione, anzi la mia mascella che sbatte sulla porta). Mi aiuta a rialzarmi in piedi e mi accompagna in cucina, ma intanto mi gira tutto, non riesco a svegliarmi? No, sono sveglio, solo che non riesco a parlare. Sudo, ma ho freddo, le provo a spiegare, ma le parole non mi escono, strascico come fossi ubriaco e penso quanto sia comica questa situazione. Vedo tutti pallini. Erano anni che non vedevo i pallini! E l’ultima volta (sarà stato il capodanno di antanni fa) aveva un bel sapore di pino. Sono seduto in cucina, provo ad alzarmi, ma non ci riesco, inciampo e mi rimetto seduto.

Forse la situazione non è così comica come mi era sembrato.

Infatti vedo chiaramente la sua espressione terrorizzata e quella è la cosa che mi fa capire che non sono ubriaco e che non c’è niente da ridere. Ed è allora, quando le gambe non rispondono e la lingua non ubbidisce, quando ti senti quasi in un sogno da cui non riesci più a svegliarti che un pensiero stranamente molto chiaro si fa strada nella tua mente. Capisci quanto sia facile morire.

Sarebbe bello poter raccontare che ti passa per la mente la tua vita, le partite a subbuteo con Enrico, le lezioni di guida con Edo, le corse dietro al motorino di Dario, i primi baci, le partite di calcio, le cose belle e quelle brutte, il giorno del matrimonio e la nascita dei figli, la morte di mamma e Andrea e tutto il resto. Cazzate. In quei momenti non ti passa per la mente proprio un bel nulla. La sensazione è quella di danzare sul ciglio di un vulcano. Capisci che ci manca poco, che basta un attimo e cadi giù. Basta un nulla e finisce tutto. Tutto e nulla.

Ale mi dà qualcosa che riesco a buttare giù (poi mi dirà che era semplicemente acqua e zucchero, ma per me poteva essere anche una pozione magica) e pian piano ho come l’impressione di tornare da un viaggio fuori me stesso. Nel giro di una manciata di secondi spariscono i pallini e con loro la sensazione lisergica. Ricomincio a parlare in maniera comprensibile e non dico che sarei in grado di improvvisare un passo double di danza, ma almeno riesco a tornare a letto camminando normalmente.

Il dottore il giorno dopo mi disse che non era stato nulla. Forse un collasso, probabilmente causato da una carenza di liquidi. Ovviamente la mia ipocondria mi avrebbe suggerito di sottopormi a tutte gli esami clinici conosciuti, ma mi fidai di lui e in effetti dalle analisi del sangue non risultò nulla.

Da quell’episodio mi rimase la mascella fortemente indolenzita per una settimana. Ma soprattutto la sensazione, poco piacevole, che non possiamo programmare e pianificare il futuro come vorremmo. Che basta un nulla per farlo essere diverso rispetto a quanto avevamo previsto.

Ed è vero che, non bisogna aver paura di nulla, tranne “che il cielo ci cada in testa” (cit.), ma è anche vero dell’altro. Che la vita è bella e fragile e breve.

È troppo breve “per provare ad imparare il tedesco” (cit.), ma anche per sprecarla appresso alle minchiate che ci angustiano le giornate.

Troppo fragile per pensare di essere eterni.

Troppo bella per sprecare anche un solo giorno, per non provare ad amare con tutto l’amore possibile, per trascurare anche una sola amicizia, per rinunciare anche ad un solo sogno da inseguire.

Per i miei 50 anni

Se volessi scrivere la mia vita in un libro, mi piacerebbe che alla fine somigliasse ad una commedia di Wodehouse. Se dovessi colorarla, sicuramente la farei tutta biancoceleste. Se ci potessi mettere una musica di sottofondo, probabilmente sceglierei i Genesis. E se avesse uno scopo, sarebbe quello di fare felici le persone che amo.

A cinque anni. Ero un bimbo felice. Ero coccolato da una tribù di cugini e avevo un fratellino da coccolare. E una palla da rincorre in giardino, immaginando che sarei diventato un gran calciatore. Ero già stato alla stadio una volta e ovviamente ero già della Lazio!

A dieci anni. Era già iniziata la collezione di Tex, avevo tanti soldatini ed ero un drago a Subbuteo. Ero già un filosofo e avevo già incontrato l’amore della mia vita: ma ancora non sapevo nessuna di queste due cose! Ero abbonato in Tribuna Tevere non numerata e avevo visto la mia Lazio in cima al mondo.

A quindici anni. Giocavo a pallone in media 4 volte al giorno, anche se cominciavo a capire che qualcosa di più bello del calcio poteva anche esserci. Sapevo di greco e di latino più di quanto avrei mai saputo in vita mia, ascoltavo i Genesis, i Pink Floyd e i Supertramp fino allo stordimento. Allo stadio in curva nord facevo gli stessi cori che si facevano ai comizi in Piazza del popolo. Ma a quell’età sono sfumature che ti sembrano ininfluenti.

A vent’anni. Avevo scoperto di essere un filosofo e incontrato l’amore della mia vita. Avevo in mente un sacco di idee, di capelli e tanti amici: nuovi, vecchi, appena arrivati e tornati dopo tanto tempo. Fra i gruppi troskysti nelle assemblee a Villa Mirafiori, scoprii di essere molto meno di destra di quanto avessi mai pensato. La Lazio c’è sempre, ma un po’ in secondo piano.

A venticinque anni. Perdi un amico e anche quello ti fa capire che la filosofia è bella, ma la vita è ancora più bella. Mai dire mai a questo mondo. E da filosofo sono diventato un impiegato modello. I consumatori si affacciano nella mia vita, scopro che la montagna è un posto meraviglioso e un inglese pazzo mi fa un’altra volta innamorare della Lazio.

A trent’anni. Tempo di primi bilanci. Mi sono sposato, ho fatto in tempo a vedere le Torri Gemelle, ho percorso le strade polverose dell’Arizona, sono sempre appresso ai consumatori ed è arrivato il nostro primogenito peloso. Quando penso di essere diventato grande mi accorgo che ancora aspetto con ansia l’uscita mensile di Tex e che la cosa che mi fa più perdere la calma è seguire una partita di calcio. No, decisamente non sono ancora cresciuto.

A trentacinque anni. Sono arrivati i miei due gioielli, la cosa più bella che abbia mai combinato nella vita, dopo quella di aver sposato Ale. Ho lasciato la Telecom e sono arrivato alle Poste, la Lazio ha perso uno scudetto probabile e ne ha vinto uno impossibile, insieme a tante di quelle coppe, quante mai ne avevamo viste dalle nostre parti. Ho pubblicato anche i miei racconti e da lassù penso proprio che la mia mamma sia contenta per me.

A quarantanni. Mi è cresciuta un po’ di pancetta, ho qualche capello in meno, però in compenso sono tornato a vivere a Montesacro. La cosa più difficile è stato trovare posto ai 550 Tex, ma anche stavolta ce l’ho fatta. Non sono più abbonato allo stadio, in compenso urlo davanti alla Tv satellitare e non è mica un gran miglioramento. Ah, tra l’altro sono anche diventato dirigente…le Poste sono cadute proprio in basso.

A cinquantanni. Come novità c’è una meravigliosa cagnetta e una casa nel paese più bello dell’appennino abruzzese. Una figlia maggiorenne ed un figlio molto più bravo di me a calcio (e non solo in quello). Ora la domenica non è più solo la Lazio a farmi palpitare. Caduta dei capelli e aumento della circonferenza sembrano ormai essersi attestati. In compenso ho affrontato il Ciciarampa e ho provato per la prima volta gli oppiacei: non male, se non fossi stato in ospedale con una gamba rotta. Ah, nel frattempo ho anche capito che Milano poi, alla fin fine, non è poi così male.

In conclusione di questo breve resoconto se mi guardo indietro posso dire tranquillamente di non aver rimpianti. Forse avrei potuto avere più amici, ma certo non più amiche di quante ne ho. Avrei potuto avere più figli, ma certamente non ne avrei potuti avere più meravigliosi di così. Non credo che avrei potuto fare più soldi: comunque essere comunista è un lusso che ancora non mi posso permettere. Probabilmente avrei potuto scrivere racconti più divertenti, ma certo non mi sarei potuto divertire di più a scriverne. Sicuramente avrei potuto tifare per una squadra più vincente, ma allora non mi avrebbe somigliato così tanto.

Insomma, avrei potuto fare cose diverse e sarei potuto essere una persona differente. Ma dico grazie a Dio che sia andata com’è andata: non avrei potuto essere più fortunato di così, perché ho amato e sono stato amato più di quanto sarebbe stato lecito sperare e logico immaginare. La vita è un’avventura meravigliosa. Almeno finché ci sarà un nuovo numero di Tex da leggere ogni mese!

 

bonelli_tex