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Légami o legàmi?

Siamo animali sociali. Chi più, chi meno ovviamente, ma nel nostro DNA c’è scritto che non siamo fatti per stare soli. Fin dalla nascita sviluppiamo delle relazioni, dei legami, che ci uniscono ad altri esseri umani, che ci fanno dipendere da loro. Crescendo, se ci troviamo in un contesto normale (ammesso che ne esitano), articoliamo questi legami in una maniera sana, fatta di relazioni paritarie o comunque bidirezionali, che ci aiutano e aiutano gli altri a sviluppare le proprie attitudini.

In un contesto normale dicevo, questi legami non ci opprimono, perché al contrario si evolvono verso una maturità che ci porta ad essere indipendenti da essi. Indipendenti, ma non estranei, perché appunto abbiamo naturalmente bisogno di essere in relazione con gli altri. E dunque, insieme ai legami dell’infanzia, che rimarranno sempre dei punti fermi nella nostra vita, sviluppiamo nuove relazioni. le amicizie degli anni della scuola e poi quelle degli altri contesti in cui ci troviamo a vivere: quelle nate dalle passioni in comune, lo sport, la musica e poi il lavoro. E ovviamente le relazioni amorose, così totalizzanti da cambiare il corso delle nostre esistenze.

Ma come sottolineavo nel titolo, con quegli strani accenti, ci sono relazioni e relazioni. L’essere in collegamento, legati fra noi da un sentimento, a volte può diventare una prigione. Legami tossici, che ci vincolano, che ci opprimono con sensi di colpa e rimorsi, quando invece avremmo bisogno di un ossimoro: legami che non legano, relazioni paritarie, che nella loro intensità ci lasciano liberi, ci rendono autonomi, fanno crescere la nostra autostima rendendoci in grado di camminare da soli.

Ma come costruire questo ossimoro? Nelle relazioni con i genitori, con i figli, con il partner, con gli amici: quali e quanti sono i legami sani, quelli che non legano, ma rendono più liberi? Ce la possiamo fare o resta solo una splendida utopia? E come fare a distinguere un legame tossico da uno sano? Domande complicate, a cui però vorrei provare a dare una risposta semplice. Perché in fondo l’ermeneutica questo ci insegna: per tentare di capire la realtà che ci circonda bisogna complicare le situazioni semplici e poi insieme semplificare quelle complesse.

E la risposta semplice, quella che nel fondo di noi stessi conosciamo bene, pur se a volte non vogliamo ammetterla, è la felicità. Quel legame, il nostro essere in relazione con l’altra persona, ci rende felici? Se non è così c’è qualcosa che non va. Perché è vero che la felicità non può essere l’unico parametro della nostra vita, né l’unico obiettivo, ma è una bella cartina di tornasole. Poi possiamo – e a volte siamo obbligati a – rimanere connessi in relazioni che non ci fanno essere felici, ma almeno dovremmo riconoscerle. Almeno con noi stessi dovremmo smettere di fingere. Ma questo discorso vale soprattutto al contrario, per gli altri tipi di legami. Su quelli che ci rendono felici possiamo essere sicuri. Perché, come cantava Sheryl Crow, se ti rende felice, non può essere male.