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Corsi e ricorsi

Il 23 novembre del 1980, esattamente 45 anni fa, all’Olimpico si giocava un Lazio Lecce. Me lo ricordo perché ho questa strana attitudine, un po’ autistica, per cui non mi ricordo un fico secco, ad esclusione delle partite della mia Lazio.

Poi me lo ricordo perché solitamente a quel tempo andavo allo stadio con mio padre. Erano anni difficili, la Lazio era stata appena retrocessa, ma noi eravamo comunque abbonati, come sempre. Quella domenica però vennero allo stadio anche mio fratello e addirittura mia madre. A memoria mia, la prima e l’ultima volta. 

Ma me lo ricordo soprattutto perché quella sera ci fu il terremoto dell’Irpinia. E infatti con un po’ di macabra ironia demmo la colpa alla presenza allo stadio di mamma.

Corsi e ricorsi, la storia a volte si ripete, ma mai allo stesso modo (e per fortuna, direi!). 45 anni dopo mio fratello ed io eravamo sempre allo stadio, c’era mio figlio e mia nipote, per lei prima volta allo stadio. Allora pareggiammo 2 a 2, stasera abbiamo vinto 2 a 0. Soprattutto non c’è stato nessun terremoto. Direi che stavolta è andata decisamente meglio!

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Saggezza cinese?

Vi ho già più volte raccontato la mia personale liturgia del giovedì sera, di come consideri l’ora fra le 20 e le 21 di “ogni maledetto giovedì” (semicit.) uno degli apici della mia settimana. L’anno prossimo saranno esattamente quarant’anni che è cominciato questo rito laico. “Siete pazzi? Ma perché non vi drogate come fanno tutti?” E invece no! Invece ritrovarsi lì con i soliti amici a correre e sudare, con il caldo o il freddo, la pioggia, inseguendo il ricordo della nostra gioventù più che un pallone, è l’affermazione del nostro sé più autentico. Smettiamo di essere quello che siamo negli altri 6 giorni e tre quarti della settimana, ci spogliamo dei vestiti da bancari, postali, energetici e ci mettiamo i nostri costumi da supereroi. Ognuno di noi, in cuor suo, può ragionevolmente credere di lasciare da parte Peter Parker e diventare l’Uomo Ragno. O Johan Cruyff!

Ovvio, ogni anno che passa diventa un po’ più complicato. Il venerdì mattina ti svegli mezzo rotto: qualche livido, qualche acciacco ci sono sempre stati, adesso però cominciano davvero a farsi sentire, almeno per me che veleggio veloce (si fa per dire) verso i 60 (l’anno prossimo, ancora c’è tempo, però cominci a entrare nella parte). Fortunatamente il processo ci riguarda – chi più chi meno – tutti quanti e questo garantisce che il livello delle forze in campo rimanga costante.

Così ieri sera, dopo una bella partita, sono rientrato a casa stanco ma felice (anche per la vittoria ottenuta) e ho scoperto che i fanciulli avevano chiesto e ottenuto una cena cinese. Conoscendo gli orari del loro sportivissimo genitore l’avevano ordinata per le 21,30 quindi perfetto! Fra uno involtino primavera e uno spaghetto di soia contavo i dolori emersi dalla sfida…

Un livido su una caviglia, va be’ quello domani è passato. Però che male quest’alluce…dovrò cambiare gli scarpini? E se fosse un inizio di artrosi? Forse è un dolore reumatico. Certo alla fine ero davvero senza fiato, dovrei andare a correre per allenarmi un po’. Ma ci faranno bene alla nostra età queste botte di adrenalina? Magari dovrei fare un elettrocardiogramma sotto sforzo. Non è un’attività agonistica la nostra, però in effetti l’agonismo non manca. Certo a pensare che i giocatori dopo la partita entrano in quelle vasche col ghiaccio, la crioterapia potrebbe essere una soluzione? Ma altro che acqua, con la sete che ho mi farei il bagno nella birra ghiacciata, ma mi sa che non è la stessa cosa. Mamma mia però che stanchezza e chi si alza domani mattina?

  • Papà vuoi un biscotto della fortuna? Dentro ci sono anche i bigliettini con le frasi e i consigli
  • E va be’ dai, sentiamo anche il biscotto cinese che ci consiglia…

Ecco, ci mancava solo la saggezza del celeste impero. Ma vaffanculo va!

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Giovani campioni in cerca di allori

Ieri l’astro nascente della Formula 1, il pilota Andrea Kimi Antonelli ha superato l’esame di maturità. Lo so, in tempi come questi, fra guerre, missili, finte tregue e tragedie autentiche, potrebbe ben figurare nei primissimi posti nell’elenco delle notizie del chissenefrega. Invece Giornali e tv hanno dato ampio spazio alla notizia, corredando il tutto con una foto del giovane fenomeno – giustamente festante – con indosso una corona di alloro. E qui si sono scatenati i social.

Ovviamente pieni di gente invidiosa e soprattutto nulla facente, che ha preso di mira il ragazzo, i più sereni invitandolo ad andare a lavorare, i più scalmanati abbandonandosi ad insulti di vario genere. Fra tutti, mi è saltato all’occhio l’opinione di una lettrice di Repubblica che commentava così “basta con questo buonismo, non è possibile che questo ignorante non sappia che la corona d’alloro è dedicata a chi si laurea, che c’entra con la maturità?

Sicuramente fin dall’antichità la pianta di alloro era simbolo di sapienza ed il legame tra la laurea e l’uso delle corone d’alloro è presente anche nella stessa origine del nome: il “laureato” è letteralmente, colui che è incoronato di alloro. Detto questo, ma in base a quale “buonismo” non dovremmo accettare che un giovane, che tra un’interrogazione e un compito in classe sfreccia a 300 km all’ora nei circuiti di mezzo mondo, possa festeggiare il suo esame di maturità come gli pare e piace? Perché non dovrebbe avere tutte le ragioni del mondo per ritenersi soddisfatto del suo risultato, per sentirsi campione, anche se per una volta non dietro a un volante?

E allora ho deciso che domani, per festeggiare il fatto che nonostante questo caldo verrò a lavorare, mi presenterò in ufficio con una corona d’alloro. E voglio vedere chi avrà da ridire!

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Fatevene una ragione: tifate il Roma e lasciateci in pace!

Ma sul serio c’era bisogno di nuovo di una polemica sul calcio? Ancora a parlare di Lazio e di Roma, mentre siamo travolti dai venti di guerra che soffiano da più parti? Forse no, ma forse sì. Perché proprio in questi giorni è scoppiata nuovamente una polemica sui social, nata da una battuta infelice di una comica in una trasmissione in TV, sull’equazione laziali fascisti.

In effetti questa Michela Giraud ha utilizzato un banalissimo luogo comune, smentito dai fatti, che non farebbe ridere neanche qualcuno colpito da una bombola di gas esilarante. Da qui una polemica stupida, che non meriterebbe commenti, né tanto meno gli onori della cronaca, utile forse solamente a chi l’ha sollevata per aumentare un po’ la propria notorietà. Personalmente non la conoscevo: quando ho letto il nome pensavo a un qualche collegamento con Giroud, l’ex giocatore del Milan, che però è scritto con la “o” e non con la “a”, ma come vedremo anche le vocali forse rientrano in un discorso più ampio.

Infatti, mentre la polemica in sé, è del tutto superflua, fa riemergere una questione più seria, di lunga data, che parte da un dato di fatto. La Lazio dà fastidio. E non da oggi, da quasi cent’anni ormai. Da quando qualcuno nelle stanze del potere (allora fascista, ma questo è un dettaglio se vogliamo ironico ed insieme trascurabile) decise che nella capitale ci doveva essere un’unica squadra di calcio. E’ comprensibile la frustrazione che questo qualcuno, e quindi poi di conseguenza tutti i suoi epigoni, hanno dovuto sopportare quando un’unica squadra, la più antica, la più importante, non aderì a questo progetto.

Come nelle leggende e nelle storie di diverse mitologie, ci sono dei fratelli più piccoli che si uniscono contro il più grande per toglierli la primogenitura. E non avendo avuto la possibilità di eliminarlo fanno partire una campagna denigratoria, mirata allo stesso obiettivo. Chi non tifa per la Roma non è di Roma, i laziali sono burini, quelli che non sono della città. C’è persino un vecchio filmato in bianco e nero, tratto da una pellicola di Sordi (ovviamente anche lui originario di fuori) che parla dei laziali “burini”. Fa sorridere pensare a una Elena Fabrizi (la famosa “sora Lella”), lei sì romana trasteverina, che candidamente diceva di essere della Lazio, perché quando era giovane lei, c’era solo la Lazio.

Ma il processo di rimozione continua. Oltre a negare l’identità cittadina, diamogli anche l’etichetta del cattivo. Da qui l’immaginario del laziale fascista, da cui anche la comica sconosciuta che dicevo attinge a piene mani. D’altra parte per loro è fin troppo facile l’identificazione della squadra con la città: stesso nome, stessi colori, stesso simbolo. Chi viene da fuori, per omologarsi alla nuova realtà, non può che aderire a questa identificazione.

Essere della Lazio è più complicato. Sia per chi è nato a Roma, sia soprattutto per chi non è nato qui. Ma questa complicazione per noi è il gusto della cosa, per loro invece è incomprensibile. D’altra parte l’aquila è solitaria, il lupo sta sempre in branco. E non importa se come presidente ci sta un personaggio discutibile, se la curva a volte prende posizioni discutibili, non importa nulla a chi tifa Lazio. La Lazio è altro, è tutt’altra cosa.

Anche la questione linguistica ha il suo peso. Fateci caso, qualsiasi squadra abbia il nome della città, è declinata al maschile, proprio per non ingenerare confusione con la città stessa. Vale per il Torino (squadra) che non va confusa con la città di Torino. Ma vale anche per città che hanno una desinenza femminile: il Parma, il Catania, il Vicenza, Il Bologna, il Pisa e potrei andare avanti. Le squadre di calcio che non hanno il nome della città, ovviamente, non creano confusione e quindi spesso sono femminili (la Juventus, l’Internazionale, la Fiorentina). C’è una sola squadra che ha il nome della città e la desinenza femminile: la squadra che vuole, che deve, che non può non essere confusa con la città.

Recentemente l’attore Piero Sermonti ha parlato di una conclamata egemonia culturale romanista nel mondo del cinema e della televisione. Se non sei romanista non sei visto bene, non rientri nei salotti buoni, nell’intellighenzia culturale nazional popolare. Ma è sempre stato così. Chi tifa la Lazio lo sa, l’ha vissuto nella pelle da sempre. Siamo minoranza scomoda. Talmente scomoda che ci dipingono più minoranza di quanto non siamo nella realtà. Non siamo glamour, non siamo mainstream, non riempiamo lo stadio con folle entusiastiche. Perché loro sono romani e romanisti prima di essere giornalisti, attori, scrittori, politici. L’ha ribadito persino quel finto saggio di Ranieri, rifiutando la panchina della nazionale, perché lui ama l’Italia, ma prima di tutto ama la Roma.

Però ve ne dovete fare una ragione. Noi siamo il resto che non rientra nella cifra tonda. Siamo il pezzetto del puzzle che non trova posto nel quadro complessivo. Maledetti laziali! Come recitava uno striscione in voga tempo fa. Mi dispiace per voi, ma l’equazione identitaria non si risolverà mai. Perché noi scegliemmo di restarne fuori, di essere qualcosa di diverso, non omologabile alle mode. Noi scegliemmo di non essere voi. Quindi, continuate a tifare il Roma e lasciate in pace noi!

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Non escludo il ritorno

So però che sta per tornare un uomo vero. Con i suoi pregi e i suoi difetti. Con le sue ossessioni e le sue storture. Sempre in tuta, con la barba di due giorni e la sigaretta all’angolo della bocca come un briscolaro in osteria che sta per calare l’asso.
Ma come diceva Mao Tse-tung: “la Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di violenza.”. E le rivoluzioni non si fanno mai in giacca e cravatta.
Bentornato Comandante.
Bentornato da chi non ha mai smesso di credere nella tua utopia. (A. Aquilino)

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14 maggio 2000. Dios es del Lazio

Sono passati 25 anni da quel fatidico giorno in cui accadde l’inverosimile. Il primo scudetto della Lazio l’ho vissuto allo stadio, avevo 7 anni, ho qualche ricordo confuso, un mare di bandiere biancocelesti e poco più. Il secondo scudetto al contrario l’ho vissuto minuto per minuto, attimo per attimo e anche oggi ad un quarto di secolo di distanza ricordo ogni sensazione, ogni paura e tutta la felicità di quel folle 14 maggio. Quando El Clarin di Buenos Aires arrivò a scrivere che evidentemente quel giorno “Dio era della Lazio“!

Ho ritrovato una cosa che scrissi allora. Scritta sull’onda di quei sentimenti, la delusione dell’anno prima sovrastata dalla gioia del momento. La cronaca dell’incredulità che accompagnava quell’inverosimile epilogo, che una volta di più sottolineava quanto – nel bene o nel male – non possiamo essere preparati a quello che la vita ci riserva. Non siamo mai preparati a quello che ci capita. Ma in fondo il bello è proprio quello.

Il bello del calcio è che si ricomincia sempre da capo. Puoi essere stato il più bravo o il più scarso. Puoi aver compiuto le imprese più grandi e avere alle tue spalle stanze piene di trofei, oppure essere una semplice matricola, appena affacciatasi alla grande ribalta: in ogni caso si riparte da zero. Ai nastri di partenza si parte tutti allineati e si cancella quello che è successo solo qualche mesi prima. Magari si potesse fare così anche nella vita!

Nonostante la delusione (o forse proprio per quella) del finale dello scorso anno, abbiamo rinnovato l’abbonamento: Enrico, Gabriele ed io, il trio delle meraviglie! La squadra gira abbastanza, sia in Campionato che in Coppa procediamo bene… Dopo la pausa invernale, però, subiamo una netta flessione e, grazie anche a qualche svista arbitrale di troppo, perdiamo punti preziosi in campi sulla carta facili, mentre la Juve continua a volare: quando ricominciamo a giocare come si deve, abbiamo sei punti di distacco dalla capolista, che diventano addirittura nove il 19 marzo, quando perdiamo a Verona, mentre la Juve vince facilmente il suo derby con il Toro. È finita: anche quest’anno dovremo consolarci con qualche coppetta!

La settimana successiva siamo di fronte ai cugini giallorossi: per via delle solite scaramanzie, presto la tessera a un amico e mi chiudo in un ritiro spirituale, senza né radio, né Tv. Il sortilegio ha effetto: vinciamo due a uno, la Juve perde a Milano, torniamo a sei punti di distacco e la domenica successiva abbiamo lo scontro diretto al Delle Alpi di Torino. Non ho la benché minima speranza che la Juve sia così ingenua da cadere nelle paure che ci condizionarono lo scorso anno. E invece. Domenica 2 aprile, posticipo serale: la Lazio espugna Torino e arriva a tre punti dalla capolista. Vuoi vedere che forse ci siamo? È un caso che praticamente lo scudetto dello scorso anno lo perdemmo dopo due sconfitte con Roma e Juve e ora invece abbiamo vinto entrambe le sfide?

Dopo una domenica interlocutoria, arriviamo al secondo corso e ricorso storico: anticipo del sabato, siamo a Firenze, lo snodo decisivo, proprio come lo scorso anno. I nostri sfoderano una prestazione esaltante che sembra doverci assicurare tre punti preziosissimi, ma con Batistuta non si è mai tranquilli: al 4° minuto di recupero, con una sua punizione magistrale i Viola pareggiano e danno il via libera alla Juve che vola a più cinque, strapazzando l’Inter. È finita! Stavolta davvero ci siamo illusi, ma poi neanche tanto: io, almeno, non ci ho mai creduto!

Decisamente gli sconvolgimenti dello scorso anno a qualcosa sono serviti. È vero che mentre la Fiorentina pareggia ho una violenta crisi gastroenterica che sconvolge la mia passeggiata con Alessandra per via Ojetti, ma è niente rispetto a quello che mi sarebbe successo in passato. Forse davvero sono guarito. O forse sono cresciuto?

O semplicemente, a quattro giornate dalla fine, con cinque punti di distacco, neanche il più inguaribile ottimista darebbe una benché minima speranza alla Lazio. La domenica successiva, la Juve, seppur fortunosamente, doma proprio la Fiorentina; vinciamo anche noi e il distacco rimane inalterato. Siamo a meno tre dal traguardo: Juve e Lazio hanno due partite facili, contro Venezia e Verona. Sono talmente convinto sia su come andrà a finire, sia sull’inutilità di un’eventuale vittoria, che preferisco una gita fuori porta allo stadio. Ma mentre noi vinciamo facilmente, la Juve naufraga a Verona in maniera clamorosa: campionato riaperto?

Due punti non sono tanti, anche se mancano solo due partite alla fine. La Juve è cotta, o semplicemente si è concessa una pausa, forte del vantaggio accumulato? Domenica 7 maggio, penultima di campionato: noi a Bologna, loro in casa con il Parma. Non sono partite facili, noi dobbiamo vincere per forza e sperare nel miracolo. Ma il miracolo non arriva. Anzi. Mentre noi vinciamo a Bologna, l’arbitro di Juve-Parma, a un minuto dalla fine, annulla ai gialloblu un goal regolarissimo che avrebbe sancito il pareggio e il conseguente aggancio al vertice.

Stavolta però la cosa è talmente grossa che si scatena il finimondo. La gente è inviperita, indignata, nauseata: tra l’altro, i dirigenti juventini, invece di ammettere, come avrebbero potuto e dovuto fare, di aver avuto un inaspettato regalo (quante volte succede nel calcio come nella vita?), si impegnano in improbabili difese dell‘operato dell’arbitro, come se si sentissero in dovere di difendere un loro impiegato!

Neanche questo, però, riesce a scuotermi più di tanto. Non so perché, ma io non riesco a indignarmi, né ad arrabbiarmi oltre un certo livello. Non sarò diventato fatalista? Altro che adulto, altro che guarito: questo è puro e semplice fatalismo! Resa di fronte alla realtà. Continuo a non credere nei complotti (e forse sono rimasto l’unico). Continuo a credere nella buona fede degli arbitri (e qui sicuramente sono rimasto l’unico). E poi, se non pareggiavamo all’ultimo minuto con la Fiorentina, a quest’ora avremmo due punti in più: come l’anno scorso, nei momenti decisivi non siamo stati fortunati. Però è inutile recriminare o ipotizzare chissà quali trame segrete. Ci dice male, siamo iellati, forse siamo semplicemente della Lazio!

Domenica 14 maggio. Ultima giornata. Come l’anno scorso, lo scudetto si decide a Perugia. Peggio dell’anno scorso: allora avevamo un solo punto in meno della prima, ora ne abbiamo due. Molto peggio dell’anno scorso: se allora il Perugia era ancora, seppur marginalmente, coinvolto nella lotta per non retrocedere, quest’anno è già salvo e senza obiettivi. Che interesse ha a impegnarsi alla morte per fermare la Juve? Andiamo allo stadio: più per abitudine che altro. Sono previsti disordini, perché la gente non ha ancora sbollito la rabbia dopo il goal annullato al Parma la domenica precedente. Io quasi non vorrei andare, ma Gabriele insiste. E andiamo! Beviamo fino in fondo dall’amaro calice!

Di fronte abbiamo la Reggina, un’esordiente della serie A che ha vinto il suo campionato salvandosi con una giornata di anticipo. Dopo una fase di stallo, in cui mi aspetto da un momento all’altro che il tabellone luminoso dello stadio comunichi il goal della Juve a Perugia, l’arbitro fischia un dubbio rigore a nostro favore. Uno a zero. La partita continua in modo stanco, quasi al rallentatore: anche in campo sono più impegnati ad aspettare notizie da Perugia, che a giocare. Passano pochi minuti e l’arbitro concede un altro rigore a nostro favore, anche questo abbastanza dubbio. Evidentemente, dopo i tanti torti compiuti, anche gli arbitri hanno la coscienza sporca e vogliono farsi perdonare qualcosa: in più di vent’anni di stadio, a memoria mia, mai la Lazio ha avuto a favore due rigori di questo genere. Ci stanno anche prendendo in giro! Così potranno dire: “Che vi lamentate! Lo vedete? Avete anche avuto due rigori a favore!”. La sensazione dell’inutilità di tutto ciò diventa sempre più forte.

Vorrei andare via, non vedo l’ora che finisca. Che finisca questa partita inutile, che finisca questo strano campionato. Intanto finisce il primo tempo e da Perugia nessuna notizia; anzi, la radio dice che continua a piovere in maniera esagerata: il campo è diventato un vero e proprio acquitrino. Guardo in su: non sarà proprio una giornata fantastica, c’è un po’ di foschia estiva, ma nuvole non ce ne sono. Per fare in modo che le partite siano quanto più sincronizzate fra loro, il nostro secondo tempo non comincia finché non inizia anche la partita di Perugia. Passano i minuti, i giocatori sono in campo che palleggiano e fanno il torello, tanto per non raffreddarsi del tutto. Dalla radio giungono notizie allarmanti: se continua così, la partita andrà rinviata, il campo è completamente allagato. Continuo a guardare il cielo: neanche una nuvola all’orizzonte.

Dopo una mezz’oretta passata così, a guardarsi in giro, in attesa che qualcuno decida qualcosa, la partita ricomincia, ma davvero a nessuno sembra importare: siamo tutti mentalmente proiettati a Perugia. Ecco qui, la solita fortuna bianconera: la Juve non è riuscita a segnare per tutto il primo tempo, ma se l’arbitro decide per la sospensione, la partita dovrà essere rigiocata dal primo minuto. Inaspettatamente, però, a Perugia smette di piovere e la partita può ricominciare. E mentre da noi la partita sta finendo, io cerco di chiamare Ale con il cellulare, per avvisarla che tarderò a rientrare a casa. Ovviamente non riesco a prendere la linea, ma mentre sto lì componendo e ricomponendo il numero, un urlo devastante sconquassa l’Olimpico: il Perugia è passato in vantaggio!

Non è possibile: guardo Gabriele che in quel momento si è alzato per sgranchirsi le gambe. Lui mi guarda: non è possibile. Guardo Enrico che sta urlando mentre abbraccia un vicino occasionale: non è possibile. La gente grida, salta, sembrano tutti impazziti. Io sono gelato. Fermi! Zitti! Cosa esultate? Tanto ora la Juve si sveglia e gliene fa quattro! È inutile che vi agitiate.

Ma intanto fermiamo il tempo: per i prossimi tre quarti d’ora che mancano alla fine della partita di Perugia, Sandro rimarrà immobile in piedi, così com’era al momento del goal, io rimarrò con il mio cellulare in mano ripetendo all’infinito il numero di casa, Fra’ abbracciato al vicino. Tutto deve rimanere com’era: neanche una virgola deve cambiare.

E aspettiamo. La nostra partita è finita. C’è stata anche una mini invasione di campo, ma ormai la partita vera si gioca a centocinquanta chilometri di distanza. E noi aspettiamo. Gabriele in piedi, io con il cellulare in mano, Enrico attaccato al vicino che forse comincia a sospettare strane tendenze sessuali di mio fratello, per nulla intenzionato a mollarlo. Aspettiamo così…

La gente si gasa ogni minuto che passa: urla, salta, applaude, “Campioni! Campioni!”. Zitti, zitti, non fiatate! Guardo Gabriele, guardo Enrico: non è possibile.

“Quanto manca?”

“Trentacinque minuti”.

Un’eternità. La Juve se lo può ancora divorare questo piccolo Perugia. Sicuramente… Ma state un po’ zitti! Improvvisamente mi sale un odio profondo per tutti quelli che mi stanno accanto, potrei fare una strage, è inutile che esultiate! Destino infingardo, perché? Perché ci illudi in questo modo? Perché?

“Quanto manca?”

“Mezz’ora.”

“Ma a Perugia che sta succedendo?”

Silenzio. Gli occhi cercano gli altri occhi di quelli che hanno la radio. Non serve chiedere, non serve che dicano nulla. Si crea una specie di telepatia. Ogni minimo sussulto dei possessori di radio è un attentato alle nostre coronarie. Io continuo a massacrare il cellulare, Gabriele continua a stare in piedi con una faccia inespressiva, Enrico con il braccio intorno al collo del sempre più perplesso vicino ha tanta di quella elettricità in corpo che accenderebbe un’alogena da 220. L’altoparlante invita alla calma. “Stiamo cercando di metterci in contatto con il campo di Perugia per trasmettere le immagini della partita. Restate ai vostri posti!”.

Ma intanto metà dello stadio si è ormai riversata in campo e tutti sono lontani con la mente, attendendo la fine della partita. A Perugia un sussulto della Juve: Inzaghi ha la palla del pareggio… Non lo sento, ma lo leggo negli occhi dell’uomo con la radio. Spero dentro di me che questo collegamento non si faccia mai: meglio non sapere, meglio non vedere, meglio non sentire. Aspettiamo. Manca solo un quarto d’ora. Certo, se la Juve non segna subito, forse… No! Scaccio via questo pensiero: è inutile farsi illusioni. Aspettiamo.

Riesco a prendere la linea giusto in tempo per beccarmi qualche insulto da Alessandra: “Hai visto? Ce l’avete fatta! Una volta tanto la tua scaramanzia ha funzionato! Avevi detto che oramai era tutto finito!” Ma che dice? Quale scaramanzia? Mi sta prendendo in giro?

“Quanto manca?”

“Cinque minuti.”

Possono ancora pareggiare. E magari nel tempo di recupero segnano un’altra volta e buonanotte ai suonatori. Improvvisamente, dagli altoparlanti dello stadio si sente la voce del telecronista di Perugia: non sono riusciti a trasmettere le immagini, ma hanno pensato bene di stabilire il contatto radio. “Tre minuti più recupero. La Lazio è a un passo dal secondo scudetto: forcing finale della Juve che si riversa nella metà campo del Perugia”.

E a quel punto io sono morto. Non so come sia successo: forse il cuore non ha retto. Sì, decisamente dev’essere stato il cuore. Continuo a tenere in mano il cellulare, Gabriele è sempre lì, in piedi come una statua di sale: probabilmente è morto anche lui, perché sono almeno dieci minuti che non fiata. Enrico no. Non è morto, ha smesso di abbracciare il vicino, ma sta piangendo: vedo chiaramente le lacrime che lentamente scendono sul suo viso. La voce continua la telecronaca, ma io non sono più lì. Non sento più freddo, né caldo. Ho il telefono in mano, ma non riesco neanche più a comporre la sequenza di numeri. Ho perso la cognizione del tempo e dello spazio. Dove mi trovo? Perché c’è tutto questo silenzio? Il tempo, che aveva rallentato fino a far diventare quei tre quarti d’ora più lunghi di un secolo, si è definitivamente fermato. La terra non gira più. Mi vedo seduto in mezzo alla gente: oramai mi sono separato dal corpo e vago nell’aria come puro spirito. Che strano! Non pensavo che morire fosse così!

“Sono le 18.04 del 14 maggio del 2000: la Lazio è Campione d’Italia”

L’urlo di Enrico, che mi prende e mi travolge in un abbraccio travolgente, mi riporta sulla terra. “Abbiamo vinto, abbiamo vinto, abbiamo vinto!” Quello che è successo dopo stento un po’ a ricordarlo. Abbiamo faticato a rianimare Gabriele: è stata dura, ho quasi pensato che ce lo fossimo giocati per sempre, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. È tornato fra noi! Siamo scesi in campo: ci siamo tuffati in quel prato verde sommersi da migliaia di persone completamente ubriache di gioia. C’era la necessità di toccare la terra, di capire che quello non era un sogno, che non c’eravamo inventati tutto, che non eravamo vittime di un’allucinazione collettiva.

Ma no, era tutto vero, eravamo Campioni d’Italia, anche se sembrava tutto così assurdo. Non ero preparato. Ma perché non sono mai preparato a quello che succede? Lo scorso anno ero sicuro che avremmo vinto e ho dovuto ricacciarmi in gola la gioia; quest’anno ero arcisicuro che avremmo fallito e invece…Non ero pronto! Volevo urlare, impazzire, esplodere tutta la tensione accumulata in più di venticinque anni, ma non ce l’ho fatta. Sono imploso! Ancora non riesco a capire bene né come possa essere successo, né cosa sia realmente successo.

Sono sicuro che qualcosa di strano sia accaduto, di anomalo, di assurdo. A Perugia un diluvio universale che inonda il campo, lavando via tutte le polemiche di questo campionato avvelenato, tagliando le gambe alla Juve, esaltando i padroni di casa. In Vaticano viene svelato il terzo segreto di Fatima, dopo decenni di silenzio. Sì, è fuor di dubbio che in questo 14 maggio sia successo qualcosa al di fuori dei canoni della normalità. Spero che ne vinceremo altri di campionati, ma sarà difficile ripetere quello che è accaduto in questa pazza domenica.

La morale della favola non c’è. Potreste sentir dire che ci siamo meritati di vincere questo campionato come ci meritammo di perdere quello dello scorso anno: potreste sentir dire che il calcio premia chi si impegna, chi ci crede fino alla fine, chi non molla mai. Che è stato giusto vincere e vincere così. E potrete sentirlo perché alla fine chi vince ha ragione, ha sempre ragione e se non ce l’ha se la crea. Solo chi vince merita di farlo. Balle! Non meritavamo di perdere l’anno scorso, come forse non meritavamo di vincere quest’anno. O forse è giusto così. Perché probabilmente è il nostro concetto di “merito” che va rivisto. Come ho già detto, il calcio, come la vita, non è una bilancia. Spesso castiga gli errori, spesso premia gli sforzi: ma questo non avviene in modo automatico, come quando mettiamo una monetina in un distributore di bibite fredde. Forse per questo è così imprevedibile. Forse per questo è così bello.

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Gli occhi di Bette Davis, Pedro e la bellezza noumenica

Io non lo so davvero come fossero questi benedetti occhi di Bette Davies. Diciamo pure che erano belli. Ma certo mai quanto la canzone di Kim Carnes, che è oggettivamente bella. Non ci possono essere discussioni, non è uno di quegli argomenti, che so, come il tempo della cottura della pasta, che si prestano ad interpretazioni. A qualcuno piace al dente, ma quanto al dente? Dov’è che finisce la cottura al dente e inizia la pasta scotta? Già in casa è sempre una discussione, figuriamoci se dovessimo allargare il campo. Ognuno ha il suo tempo ideale di cottura.

Bette Davies Eyes no. E’ bella in sé. Una volta avrei detto anche il prosciutto crudo. A chi è che non piace il prosciutto crudo? Dolce, stagionato, io ne mangerei a quintali. Eppure non è così. Alla mia dolce metà non le piace. Una cosa che dopo 40 anni stento a comprendere. Posso capire la coratella con i carciofi. Ne vado pazzo, ma arrivo ad ammettere che possa anche non piacere. Ma il prosciutto crudo? Va be’, ma non divaghiamo. Bette Davies Eyes è una sicurezza. E’ vecchia, ma sempre coinvolgente, ti dà quella carica, ti suscita quelle emozioni, ti trascina con sé in orizzonti lontani, con un ritmo che ti prende e non ti lascia più. Un po’ come Pedro. Ecco sì, forse giusto come un goal di Pedro.

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(Not) in my name

Tre anni fa Paola Egonu fu scelta come portabandiera della nostra nazionale olimpica. Con grande disappunto di qualcuno che non la riteneva abbastanza rappresentativa delle genti italiche. Non potevo non dire la mia e oggi mi pare opportuno ricondividere quelle considerazioni.

Il portabandiera è un simbolo. Un’immagine che rappresenta tutti, che racchiude in sè una moltitudine di individui. Tutti diversi, ma tutti riuniti, tutti compresi all’interno di un insieme.

Una volta era in battaglia, oggi per fortuna solo alle Olimpiadi, ma comunque seppure solo ai giochi, il portabandiera è il rappresentante di una nazione. Ci rappresenta tutti perchè tutti ci possiamo riconoscere in lui. Ma oltre il portabandiera nazionale ci sono poi quelli olimpici, che non rappresentanto il singolo Paese, ma tutto il mondo, tutte le nazioni insieme.

Ma ora ditemi, con tutta l’apertura mentale possibile, come faccio a riconoscermi in Paola Egonu? Fatemi capire, l’avete scelta come portabandiera perchè rappresentasse non solo tutti gli italiani, ma tutti i cittadini del mondo? Ma l’avete mai sentita parlare? Come potrei mai riconoscermi in lei? Come potrei mai sentirmi rappresentato da una come lei? Una che parla con quel dialetto Veneto? E dai su, non scherziamo!

P.S. Invece sto a scherza’ Paole’. Faje vede’ chi sei! Sentire Adinolfi e tutti i nazisti dell’Illinois de noantri che schiumano rabbia non ha prezzo…..daje Paoletta, daje!

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Le Olimpiadi sono belle ma non ci vivrei

Una volta c’erano le cerimonie inaugurali delle Olimpiadi. Che quando si svolgono d’altra parte del mondo ti fanno stare sveglio ad orari improbabili. Stavolta no, erano dietro casa, peccato che invece degli atleti si parlava soprattutto della grandeur francese, con annessa ultima cena in salsa trans. Dove trans sta per transaminasi. Da record olimpico, quelle degli atleti dopo un bagnetto sulla Senna.

Ma l’importante si sa è partecipare, lo diceva anche Gaber, anzi lo cantava: libertà non è stare sopra un albero e nemmeno il volo di un moscone, libertà è partecipazione. Non quando arrivi quarto e vinci la medaglia di legno, perché poi arriva una vecchia spadaccina inacidita che ti spiega che invece conta solo vincere. “Vincerè e vinceremo“! Anche se qualcuno invece preferisce defilarsi, perché si accorge che i pugni fanno male. Non tanto male come l’acqua della Senna, ma comunque anche quelli rischiano di aumentare il mal di fegato. D’altra parte si sa, le donne non vanno colpite nemmeno con un fiore, perché mai dovrebbero prendersi a pugni?

E meno male che almeno alle Olimpiadi si spara solo ai piattelli, perché in giro c’è invece chi spara a ben altro. Che poi mi sono sempre chiesto, ma quelli che fanno questi sport particolari, che sparano, tirano con l’arco, vanno su barchette improbabili, volteggiano su strani attrezzi, nei quattro anni tra un’Olimpiade e un’altra, che fanno? Dove stanno? Come passano le domeniche? Chissà. Però forse almeno loro non devono stare in pena ogni estate per la campagna acquisti della Lazio. Non perdono tempo a insultare Lotito e si potranno godere la prossima cerimonia inaugurale delle Olimpiadi.

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La lezione di Benedetta

Le vittorie hanno tutte gli occhi azzurri e i capelli biondi, diceva qualche tempo fa Delio Rossi. Urli di gioia, braccia al cielo, la vittoria ci riempie di soddisfazione, ci esalta, fa salite l’adrenalina e l’autostima, con le endorfine a mille e la voglia che quel momento non passi mai e che il tempo possa fermarsi per un po’ per farci assaporare fino in fondo quella sensazione di pienezza.

E cosa c’è di più esaltante di una vittoria olimpica? La vittoria dopo fatiche, allenamenti, sudore, delusioni. Quando finalmente ti rendi conto che sì, valeva la pena spendere tutte le tue energie ed il tuo tempo puntando a quell’obiettivo. Ce l’hai fatta, sei arrivato alla vetta, puoi toccare il cielo con un dito perché sei il numero uno. We are the Champions, No Time for Losers. Non c’è tempo per i perdenti, non c’è spazio per loro, comprimari, figuranti destinati a lasciare la scena al vincitore, il palco è tutto per lui.

Quante volte in questi giorni vedremo ripetersi l’esaltazione dei vincitori, la loro glorificazione, chi li adulerà, chi vorrà spiegarci i perché ed i per come delle loro strategie vincenti. Foto ufficiali, selfie con le medaglie in bocca, la Dea Nike avrà come di consueto un lungo omaggio dai suoi seguaci.

Per questo invece mi rimarranno negli occhi e nel cuore le lacrime di Benedetta Pilato, la nostra nuotatrice, rimasta fuori dal podio per un centesimo di secondo. Per arrivare a capire cosa significa un centesimo di secondo bisogna considerare che un battito di ciglia va da 3 a 4 decimi di secondo, quindi tra le 30 e le 40 volte più lento. E nonostante questo Benedetta piangeva di felicità, una straripante felicità, perché come ha dichiarato quello è stato “il giorno più bello della mia vita“.

C’è chi ha avuto da ridire, qualcuno ha detto che quella esaltazione della sconfitta era surreale ed assurda. Ma io non ho visto un’atleta sconfitta. Non avrà il suo momento di gloria, non avrà una medaglia da immortalare in un selfie (ma sono certo che il futuro gliene riserverà molte), ma io ho visto una splendida ragazza di diciannove anni che ci ha dato una lezione fondamentale. In un mondo ultra competitivo come il nostro, ci ha insegnato che il percorso è più importante della meta e che viene sconfitto solo chi non ci prova fino in fondo. Le sue lacrime di gioia ci dicono che le vere vittorie si raggiungono superando se stessi, più che gli altri. Perché è proprio vero che alla fine, siamo i limiti che superiamo.