Avatar di Sconosciuto

Mettetevi scomodi

Come spesso mi accade quando ho la fortuna di imbattermi in Sonia, un suo post della scorsa settimana mi ha colpito come quando qualcuno ti dà uno scappellotto da dietro. E tu ti giri di scatto pronto a rispondere, senza capire da dove, da chi e perché ti abbiano colpito. Sonia ha questa capacità di coglierti di sorpresa, di colpirti quando meno te lo aspetti, ma coglie sempre nel segno.

Nel suo post parlava di luoghi, di posti, non in senso fisico, ma esistenziale. Del vivere nel confort della comodità o al contrario arrendersi alla scomodità. E’ qui è arrivato lo scappellotto, per uno come me da sempre ricercatore infaticabile di comodità. Ma stare scomodi in effetti è l’unico modo di essere vivi. Ci sarà tempo di stare comodi, di trovare le misure giuste, ma ci penserà qualcun altro per noi e ahimè, temo sarà definitivo. Fino a quel momento non potremo non stare scomodi. Non potremo non stare stretti oppure troppo larghi, in ritardo per cogliere l’occasione o troppo in anticipo rispetto a quello che aspettavamo.

Staremo scomodi sul lavoro, fra le aspettative che avevamo e i risultati ottenuti. Staremo scomodi con gli amici, che saranno assenti quando servirebbero e troppo presenti quando avremmo preferito un po’ di pace. Staremo scomodi con i figli che prenderanno strade e decisioni per noi incomprensibili. Staremo scomodi perfino con la persona che ci sta affianco, seppure non potremmo essere con nessun altro e in nessun altro posto.

E quando capiremo questo riusciremo a capire che anche gli altri stanno scomodi. Per quanto possiamo sforzarci per farli stare a loro agio, per quanto proveremo a prendere bene le misure, dobbiamo accettare anche le scomodità altrui, che sono irriducibili, esattamente come le nostre. E guai a noi (e a loro) se per caso riuscissimo a farli stare comodi. Non gli faremmo certamente un piacere. Anzi, tutt’altro, rischieremmo di rovinargli la vita.

Tra i desiderata e la realtà ci sarà sempre una distanza, un di più o un di meno, che ci farà stare scomodi. Ognuno di noi camminerà nelle proprie scarpe, ma non è detto che troveremo la misura giusta. E ancora peggio sarà quando proveremo a camminare con le scarpe altrui. Ma sarà proprio questo a farci sentire vivi. Sarà proprio questo stare scomodi che ci farà cercare ancora, che non ci farà accontentare di quel che è. Solo la scomodità porterà a migliorarci e a tentare di migliorare il mondo intorno a noi. Quindi, rilancio l’invito della mia amica: mettiamoci scomodi e proviamo ad essere contenti e soddisfatti lo stesso. Soddisfatti, ma mai troppo.

Avatar di Sconosciuto

Che fare con l’amico che sbaglia?

Come si fa ad aiutare un amico che sta sbagliando? Che fare? Non è una cosa semplice, né scontata. Forse sarebbe sufficiente dirglielo. “Ehi, stai sbagliando.” Ah, grazie” “Figurati non c’è di ché“. A volte succede. Nelle favole ad esempio. “Ehi, stai sbagliando“. “Mafattelicazzitua!“. Ecco, questo nelle favole non succede mai. Nella realtà sì. Magari non proprio in modo così brutale, ma volendo sintetizzare.

A volte si sbaglia senza saperlo. Molto più spesso invece sapendolo benissimo. Per questo dirlo serve a poco. Certo anche tacere non è una grande soluzione. Allora bisogna dirglielo o è meglio tacere? Un po’ come l’antinomia fra brutta verità e bella bugia. L’amico che sbaglia sapendo di sbagliare potrebbe aver bisogno di qualcuno che lo sostenga, che condivida – almeno idealmente – quell’errore. Oppure, al contrario, potrebbe volere qualcuno che in quel momento lo fermi, lo leghi ad un albero e gli impedisca di fare (o farsi) del male. C’è chi sbagliando rovina la sua vita per sempre e chi solo grazie ad un errore capisce qual è la strada giusta, perché sbagliando si impara, dicono anche i proverbi.

Non prendiamo in considerazione quello che succederà poi un domani. Tanto possiamo star sicuri che qualsiasi cosa facciamo potrà essere interpretata male. “Tu eri lì, perché non mi hai aperto gli occhi?” oppure “Proprio quando avevo bisogno di un supporto, tu lì sempre pronto a giudicare“. No, decisamente meglio non pensare alle possibili conseguenze.

Io, chi mi conosce lo sa, sarei un perfetto grillo parlante, quindi il classico sputasentenze. Stare zitto mi fa più male di un attacco di colite. Però ho sentito troppe volte la storia della trave e la pagliuzza per non ricordarmela bene.E quindi sarebbe semplice dire che bisogna valutare caso per caso, che ogni situazione ha la sua soluzione, che c’è un tempo per tacere e un tempo per gridare. E certo che è così! Ma per fare la scelta giusta non si può essere semplici spettatori, che guardano da fuori e decidono. Come dicevo qui, nel bene e nel male l’amico deve correre dei rischi, se no che amico è?

Secondo me, prima di decidere se parlare o tacere, bisogna infilarsi nelle scarpe dell’altro. Bisogna essere lui e chiedersi: “cosa vorrei che facesse ora il mio amico? Cosa vorrei che dicesse la persona di cui mi fido?” Se siamo capaci di infilarci le sue scarpe, allora non parleremo per sentito dire, non rimarremo al di fuori con l’ombrello in mano, ma giocheremo in mezzo alle pozze d’acqua anche noi. Non è detto che così tireremo fuori la soluzione giusta, ma se non altro potremo pensare di avercela messa tutta per trovarla.

La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia (M.Gandhi)

Avatar di Sconosciuto

Elogio del Coppedé. E poi di cortili e facciate

Il preambolo è dato dal fatto che l’altro giorno passeggiavo per il quartiere Coppedè. A mio insindacabile giudizio il quadrilatero tra via Nomentana, corso d’Italia, via Salaria e piazza Istria è la zona più bella di Roma. Villa Ada (ma anche Villa Torlonia), il Giulio Cesare, il Piper, ma soprattutto le strade, le piazze, i palazzi. Ecco i palazzi. Mi piacciono quelle facciate imponenti, con quei portoni altissimi, le balconate, i fregi. Mi piacciono quelle lunghe scritte in latino e quelle file interminabili di finestre coperte dalle persiane verdi o marroni. Sarà che tra quelle strade ho passato gli anni dell’adolescenza, sarà che ancora mi sembrano esenti dalle cafonate che si vedono in giro nel resto della città, ma quella è davvero una Roma particolare, lontana dai giri turistici. In cui puoi girare la domenica pomeriggio e godere in silenzio la grande bellezza della città eterna. Signorile, ma non snob, aristocratica e popolare insieme, ironica e sognatrice. Elegante come una canzone dei Depeche Mode. Biancoazzurra come il suo cielo. Fine del preambolo.

La facciata è l’aspetto di un palazzo, è quel che appare, quello che te lo fa giudicare ed è su quello che ti fai un’idea delle persone che ci abitano. Non è solo un discorso “di facciata”, perché non è solo esteriorità. Non è solo ornamento, se questo fosse solo una cosa esteriore e dovesse in qualche modo essere contrapposto ad un monumento. E’ piuttosto il portamento, lo sguardo, i lineamenti. Quando si dice, “ci metto la faccia”, per un palazzo si dovrebbe dire la facciata.

E’ indubbio però che se vuoi conoscere davvero un palazzo, se vuoi immergerti nelle sue storie, toccare le sue viscere, sentire le vene e le arterie sui quali scorre il sangue che lo rende vivo, allora devi entrare dentro, devi vedere cosa c’è dietro la facciata. L’anima del palazzo è nel cortile. E’ lì che si consumano le storie più autentiche, la vita vera. Nell’ombra dei suoi alberi, sulla pietra dei gradini, fra la terra delle aiuole. Nelle cose vive, perché no, anche fra i bidoni dei rifiuti.

Qualcuno potrebbe obiettare che ci sono palazzi senza cortile. Certo, esistono persone senz’anima.

Ma perché, sul serio pensavate che stavo parlando di architettura?