All’inizio eravamo un Paese di tecnici della nazionale: 60 milioni di CT, che contestavano la staffetta Mazzola Rivera, perché Altobelli e non Pruzzo, possibile che non convoca Mancini (guarda tu alle volte la ruota che gira…), Baggio e Del Piero, Totti e Signori, Immobile e Belotti. Ognuno diceva la sua, poi alla fine tutti a tifare azzurro.
Questo all’inizio. Poi per successive mutazioni genetiche, da commissari tecnici, siamo diventati esperti economici, professionisti di politica internazionale, fino a diventare navigati conoscitori di virus e pandemie. Ognuno si sente di dire le sua, ognuno evidenzia quello che andrebbe o non andrebbe fatto, con soluzioni scontate e ricette improbabili Ad esempio, considerato che il turismo è praticamente azzerato e che il vero problema dei ragazzi non è la scuola in sé, ma i mezzi pubblici per arrivarci, perché non mettere a disposizione delle scuole i tanti pulmann turistici che penso siano praticamente inoperosi?
Va be’, ci sono caduto anche io, ma me la pianto subito. Tutto sommato penso di capirne più di calcio che non di pandemie: speriamo che chi deve decidere, lo faccia con cognizione di causa. Quello che posso fare io e che dovremmo cominciare a fare tutti, è prendere coscienza che non siamo più alle prese con un’emergenza. Se per emergenza pensiamo ad un periodo eccezionale, irripetibile e circoscritto nel tempo.
Secondo me nella fase dell’emergenza siamo stati anche bravi: ci siamo chiusi in casa e con tanta fatica e qualche mal di pancia, nella stragrande maggioranza dei casi, abbiamo rispettato le regole, tanto che ne eravamo venuti fuori abbastanza bene. Ma appunto, l’emergenza – lo dice il nome – emerge, spicca dalla norma. Quando però siamo tornati alla normalità, ci siamo scordati tutto. La verità è che dobbiamo prendere coscienza che la pandemia non è più l’emergenza, ma la quotidianità. Non per sempre, voglio sperare, ma comunque per un periodo abbastanza lungo per doverla vivere come una realtà (quasi) normale.
Alcuni comportamenti, alcune avvertenze, alcune abitudini, devono estrare a far parte della nostra quotidianità. E allo stesso tempo, alcune cose possiamo anche dimenticarcele, perché non saranno più possibili. E chissà fino a quando sarà così. Stento ad immaginare un concerto con centomila persone tutte appiccicate o anche il vagone di una metropolitana come eravamo abituati a frequentarla. Forse anche i luoghi di lavoro come li conosciamo non torneranno più com’erano fino solo a 7 mesi fa. C’è una nuova normalità, un nuovo quotidiano e prima lo accettiamo in toto, prima sapremo vivere riacquistando una serenità che oggi obiettivamente non c’è più.
Come siamo stati bravi nell’emergenza, dobbiamo diventare bravi nella quotidianità. Ma temo che non sarà così facile: forse perché ancora non abbiamo capito che, come per la nazionale, possiamo avere ognuno le proprie preferenze, possiamo essere tifosi di questo o quello, ma alla fine, dovremmo saperci riconoscere tutti in quell’unica maglia che tutti ci rappresenta.