Una specie di elogio della fuga, se non l’avesse già scritto qualcuno prima e meglio di quanto potrei farlo io. No Zeus, che hai capito? Ho detto Fuga! Con la “u”, perché sì, questo resta sempre un blog minchione, ma non così minchione.
La questione è semplice. Se fai parte del gioco devi rispettarne le regole. Anche se non le comprendi. Anche se cerchi di comprenderle, ma non ti piacciono. Anche se ti sforzi di fartele piacere, ma poi ti svegli alle 4 del mattino con un fastidioso e persistente mal di stomaco.
Puoi anche pensare di inventarti tu delle regole. Puoi arrivare a mentire, prima di tutto a te stesso. Ma non è così e lo sai bene. E allora chiudi gli occhi e ripeti a te stesso che ce la puoi fare, che in fondo se ce la fanno tutti perché tu no? E intanto ti fermi nell’androne del palazzo senza sapere se uscire oppure entrare. E ascolti il rumore di tacchi che si allontana nella notte e capisci che ormai è andata via, forse per sempre e tu non puoi farci più niente.
Oppure puoi fuggire. Forse non è la via più onorevole, ma è probabilmente l’unica vera alternativa.
“Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva o la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. In tempi come questi, la fuga è l’unico mezzo che rimane per mantenersi vivi e continuare a sognare.” (Henry Laborit, Elogio della fuga)