Il sol dell’avvenir

Fischia il vento e infuria la bufera,
scarpe rotte e pur bisogna andar
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell’avvenir

– Ehi Laura! Laura vieni giù!

C’era un fiume di gente quel giorno. Urla, canti, tutti erano oltre quanto avrebbero dovuto essere: chi piangeva piangeva in modo più drammatico, chi rideva rideva in modo più euforico.

– Marco stai qui tu! Non penserai mica di uscire?

Ma come potevo stare in casa mentre sulle strade si faceva la storia? Ed era chiaro anche per me che avevo dodici anni che quel giorno si stava facendo la storia.

– Dai Laura! Corri, andiamo!

A casa nostra eravamo stati tiepidamente fascisti, quando tutti lo erano, quando non era neanche pensabile un qualcosa di diverso. Poi qualcosa era cambiato, quando le cose erano peggiorate. Perché poi ho capito questo: finché le persone stanno bene, finché niente tocca la loro realtà, la gente vuole rimanere nello stato in cui è, qualsiasi esso sia. Comandano i rossi? Noi stiamo con i rossi. Comandano i bianchi? Noi stiamo con i bianchi. Mio padre faceva il portiere nello stabile dove vivevamo in viale Bligny. Quando un giorno gli ho chiesto, “papà, ma noi siamo ricchi?” lui mi ha portato in cucina, ha aperto il rubinetto del lavandino, quando è uscita l’acqua mi ha risposto “sì, siamo ricchi“. In realtà non era vero. Mia madre faceva la sarta, mia sorella le dava una mano, non ci mancava niente. O forse davvero aveva ragione mio padre.

Ma che succede? Io ho paura!

– Stammi vicina, nessuno bada a noi.

Non potevo stare in casa, stava succedendo qualcosa ed io non potevo non esserci. Laura era la mia fidanzata, anche se lei non lo sapeva. Ma io sì. Io lo sapevo, ci saremmo sposati, quando saremmo diventati gradi. Per questo volevo che ci stesse anche lei, che stesse lì con me quel giorno. Perché poi l’avremmo raccontato ai nostri figli. Avremmo detto noi c’eravamo, eravamo lì tua madre ed io, mano nella mano. Così seguimmo il fiume di persone che sfilava urlante per le vie di Milano. Non sapevamo dove stavamo andando, non sapevamo se ci fosse uno scopo, una meta, forse lo scopo era girare, uscire fuori dalle case e festeggiare. Non tutti festeggiavano, a dire il vero, qualcuno se la passava male. C’era una donna a cui avevano tagliato tutti i capelli ed era legata, in mezzo ad un crocicchio di persone, che la prendevano in giro. Poi c’erano degli uomini per terra, ma non avevo paura, avevo già visto dei morti. Ai miei occhi era comunque una festa, volevo che lo fosse.

– Marco ho paura, perché non torniamo a casa?

– No, dai andiamo ancora un po’. Vediamo dove vanno tutti quanti.

E così andammo avanti e arrivammo a piazzale Loreto. Lì la folla si fermò, come fosse un enorme animale che dopo una lunga corsa si acciambella sulla cuccia. Tutti continuavano a gridare, a cantare, Laura ed io invece ci mettemmo in un angolo, zitti come due merde di cane in un prato. Forse avevamo paura che qualcuno si accorgesse di noi, che qualcuno ci prendesse per le orecchie e ci riportasse a casa. Ma nessuno avrebbe badato a noi, neanche se ci fossimo spogliati nudi e ci fossimo messi a ballare in mezzo alla piazza. Erano tutti fuori di sé, come fossero ubriachi e certamente non avevano né tempo, né voglia di badare a due ragazzini.

Ogni contrada è patria del ribelle,
ogni donna a lui dona un sospir,
nella notte lo guidano le stelle,
forte il cuor e il braccio nel colpir

Dopo mi avrebbero raccontato che in quel giorno d’aprile avvenne la liberazione. Quel giorno che prima era solo la mia festa divenne la festa di tutti: negli occhi della gente c’era speranza e ambizione, sogni, energia, voglia di redenzione. Non lo so cosa avvenne davvero quel giorno: io vidi degli uomini e una donna, orribilmente sfigurati, appesi a testa in giù come maiali. Mi raccontarono che quell’uomo aveva avuto in mano l’Italia, che era stato amato, seguito, osannato. Un uomo che aveva provocato lutti e dolori e finalmente quel giorno pagava tutti gli orrori di cui era responsabile.

Se ci coglie la crudele morte,
dura vendetta verrà dal partigian;
ormai sicura è già la dura sorte
del fascista vile e traditor.

Mi dissero che da quel giorno sarebbe spuntato il sole dell’avvenire, che finalmente l’Italia usciva dall’incubo, eravamo liberi dall’oppressore. Mai più avremmo creduto alle menzogne di un uomo solo. Io non lo so, perché ero a Milano, ma mi raccontano che a Roma, quando entrarono gli Americani, sulle mura del Colosseo apparve questa scritta: “I cazzi cambiano, i culi sono sempre gli stessi“. Si sa, i romani sono sempre volgari. Però mi sa che non avevano mica tutti i torti.

Cessa il vento, calma è la bufera,
torna a casa il fiero partigian,
sventolando la rossa sua bandiera,
vittoriosi, al fin liberi siam!

 

Duce e Claretta