Ninna nanna della guerra

Cent’anni fa si concluse (almeno per noi, in Europa durò qualche giorno in più), la più spaventosa carneficina della storia moderna. Una guerra insensata, crudele come e probabilmente più di altre, che si portò via 600 mila italiani e tra i 15 ed i 17 milioni di persone in generale. Con esiti disastrosi, sia in termini economici che politici, con conseguenze che portarono quasi inevitabilmente all’affermarsi di regimi totalitari, rossi e neri, dalla Russia alla Germania, passando per l’Italia. Insomma un disastro sotto ogni punto di vista, una pagina orribile, da ricordare solo e soltanto come monito alle generazioni future.

Nonno Romolo, classe 1883, partecipò personalmente a questa drammatica avventura. Morì che avevo due anni e mezzo, quindi non me lo ricordo per nulla, né posso ricordarmi suoi racconti in merito. Anche papà non è molto ciarliero su di lui: era un uomo molto duro, minatore con il vizio di alzare un po’ il gomito (e anche le mani). Sulla sua esperienza in guerra l’unica cosa che so è che si trovò nei guai nella rotta di Caporetto dove fu ferito alla testa e si salvò solo grazie all’aiuto di un compaesano di Fabriano che se lo caricò sulle spalle per un bel pezzo. Dalla guerra tornò con una medaglia al valore , forse proprio per quell’episodio (è quella al centro della foto) ed il titolo di invalido, che se non altro gli fece avere un posto all’Ina.

In famiglia non ci sono altri ricordi o aneddoti su di lui e sulla sua esperienza al fronte. E questo la dice lunga: evidentemente c’era poco da ricordare, anzi forse c’era molto da dimenticare, da lasciarsi alle spalle. Ad esempio ci sono molti più racconti dell’odissea di suo figlio più grande che nella seconda guerra mondiale fu uno dei pochi sopravvissuti dell’Armir. Zio Eolo tornò a piedi a Roma da Leopoli e si salvò dopo essersi nascosto in un campo di fichi per dieci giorni, mentre i russi scatenavano una vera caccia all’uomo. Per quanto terribile però penso che l’orrore delle trincee non abbia avuto eguali. Cosa ci sia da festeggiare cent’anni dopo, francamente proprio non lo capisco. Onoriamo i morti, certo, ricordiamo quei ragazzi mandati al massacro, soprattutto per ribadire che non ci sono guerre giuste, che non ci sono guerre sante, perché nessuno ne esce realmente vincitore.

Ninna nanna, nanna ninna, er pupetto vò la zinna, dormi dormi, cocco bello, se no chiamo Farfarello, Farfarello e Gujermone che se mette a pecorone Gujermone e Cecco Peppe che s’aregge co’ le zeppe: co’ le zeppe de un impero mezzo giallo e mezzo nero; ninna nanna, pija sonno, che se dormi nun vedrai tante infamie e tanti guai che succedeno ner monno, fra le spade e li fucili de li popoli civili. Ninna nanna, tu nun senti li sospiri e li lamenti de la gente che se scanna per un matto che comanna, che se scanna e che s’ammazza a vantaggio de la razza, o a vantaggio de una fede, per un Dio che nun se vede, ma che serve da riparo ar sovrano macellaro; che quer covo d’assassini che c’insanguina la tera sa benone che la guera è un gran giro de quatrini che prepara le risorse pe li ladri de le borse. Fa la ninna, cocco bello, finché dura ‘sto macello, fa la ninna, che domani rivedremo li sovrani che se scambieno la stima, boni amichi come prima; so’ cuggini, e fra parenti nun se fanno complimenti! Torneranno più cordiali li rapporti personali e, riuniti infra de loro, senza l’ombra de un rimorso, ce faranno un ber discorso su la pace e sur lavoro pe’ quer popolo cojone risparmiato dar cannone. (Trilussa, 1914).