Sabato scorso su Robinson, supplemento culturale di Repubblica, mi sono imbattuto in un bel articolo di Michela Marzano: “Chi siamo? No, chi amo”. Il tema era l’identità e la memoria. Partendo da Locke l’autrice contestava la tesi per la quale la nostra identità personale può essere ridotta e circoscritta alle nostre esperienze passate ed in particolare alla coscienza di esse. Corollario di questa tesi sarebbe la conseguenza per cui quando i ricordi di una persona svaniscono, scomparirebbe anche la sua identità personale. Ovviamente il riferimento neanche troppo velato è a malattie degenerative come l’Alzheimer, capaci di azzerare i ricordi di una persona e quindi di conseguenza la sua identità. “Non è più lui”, si sente purtroppo dire di chi, colpito da questa terribile malattia, non riconosce i propri cari, ma a volte neppure se stesso.
L’autrice dell’articolo contestava questa tesi partendo dal fatto che proprio nei malati di Alzheimer, laddove sono scomparsi tutti i ricordi, tutti i riferimenti, rimane però un legame affettivo con i propri cari. Una memoria non più intellettuale, ma basata sui sentimenti, che nulla può cancellare e che quindi sono la vera base della nostra identità.
Tesi affascinante, che però, per la mia personale esperienza con questo tipo di malattia, temo sia più una licenza poetica che non la descrizione della realtà. Certo, ci sono casi e soprattutto ci sono momenti in cui il malato di Alzheimer riesce ad avere un barlume di chiarezza, di coscienza di chi gli sta di fronte. Sicuramente ce ne sono. Come però ci sono fasi, anche lunghe, della malattia in cui non c’è nulla di tutto questo. E dunque, l’autrice ha torto e dobbiamo tornare a Locke e ammettere che un uomo senza memoria non ha più una sua identità? Io non lo credo affatto. Sono invece d’accordo con l’autrice del testo: non siamo solo i nostri ricordi, ma non solo e non tanto perché non ci sono solamente i ricordi intellettuali.
Se così non fosse, se avesse ragione Locke, il bambino appena nato, che oggettivamente non ha ricordi, non avrebbe un’identità. E quando nasce veramente l’identità? Quando si creano i primi ricordi? O non sono forse gli altri a crearci l’identità, riconoscendoci, prima ancora che noi conosciamo noi stessi? L’identità non è un percorso individuale, ma è indotto dall’interazione con gli altri. Quando ancora non abbiamo ricordi, la nostra identità è data da coloro che ci stanno intorno: per quanto possa sembrare paradossale l’io non è originario, ma scaturisce da un tu che per primo lo interpella, lo riconosce e quindi da il via al processo identificativo. E infatti a partire dal riconoscimento della madre, il bambino comincia a costruire la sua identità.
E perché allora non dovrebbe essere lo stesso nel caso in cui non ci dovessero più essere i ricordi delle esperienze passate. Non siamo solo i nostri ricordi e la nostra identità non si riduce alla memoria delle nostre esperienze passate, perché la nostra identità è relazionale, è l’insieme delle conoscenze, ma anche dei riconoscimenti che abbiamo “con” e “grazie a” gli altri. E questo è talmente vero che noi continuiamo ad essere e manteniamo una nostra identità persino quando non ci siamo più, nel ricordo delle persone che sono entrate in relazione con noi e preservano la nostra individualità.
Qualcuno che ci conosce prima (e meglio) di quanto noi non conosciamo noi stessi. C’è forse un modo più semplice per spiegare l’amore? E c’è un modo più bello per immaginare come sia la nostra relazione con Dio? Chi ha detto che non potrebbe essere così? Chi ha detto che non sia esattamente così?