Né carne, né pesce. Considerazioni elettorali (stavolta neanche troppo minchione)

Dopo il post a caldo, provo a fare delle considerazioni un po’ più serie sul risultato delle ultime elezioni. In generale la vittoria della destra ed in particolare dell’unico partito che nella scorsa legislatura è stato all’opposizione, era una scommessa facile da vincere. Un rigore a porta vuota.

Con la partecipazione più bassa nella storia della repubblica e il calo (-9 punti) più consistente mai visto tra un’elezione e l’altra, si consolida una tendenza emersa nelle ultime votazioni: nel 2014 Renzi raggiunse il 40% e poi crollò al 18%, nel 2018 il M5S arrivò al 32% e ora ha meno della metà col 15%, nel 2019 Salvini volò al 34% e ora è precipitato sotto il 10%. il voto si conquista parlando alla pancia: soluzioni semplici a problemi complessi, la cifra del populismo. Poi, ovviamente, una volta che le mirabolanti promesse vengono smentite dai fatti, si gira la ruota e si pesca il nuovo imbonitore di turno. In un Paese con la memoria storica di un pesce rosso, nulla di nuovo sotto il sole.

Il problema vero, dal punto di vista di elettore di sinistra, è il mio partito di riferimento. Il tanto vituperato Partito Democratico: partito chissà per dove e chissà per quanto tempo. Erede di due tradizioni distanti fra loro, ma accomunate da principi di solidarietà, di vicinanza alle esigenze delle classi medio piccole, con un senso dello Stato sociale forte, mi sembra abbia perso la sua identità. Dei due partiti da cui è derivato, sembra abbia mantenuto solamente la spocchia elitaria del PCI e la pervasiva occupazione delle poltrone della DC.

Aver fatto nascere, crescere, prosperare un movimento come i 5 stelle, averli fatti diventare attraverso un processo lungo e faticoso, i difensori dei diritti dei più deboli, i paladini dell’intervento dello Stato sull’economia, insomma un partito socialdemocratico, è stato il suicidio perfetto del PD. Che nel frattempo è diventato cosa? Il contenitore di tutto e del suo contrario: un partito socialista, ma anche liberista, ecologista, ma anche europeista, di sinistra, ma anche di centro. Insomma, un partito senza identità e quindi senza prospettive. Chiunque sento fra chi l’ha votato (io per primo), lo ha fatto senza entusiasmo, “turandosi il naso”, “perché non c’è alternativa”, “per paura dei fascisti”.

Inseguire Calenda/Renzi, insistere con la presunta agenda Draghi, è stato l’ennesimo errore, figlio o forse nipote del “maanchismo” di Veltroniana memoria. Ma a furia di dire e fare questo “ma anche” quest’altro, abbiamo perso di vista l’essenziale. E non è che cambiare segretario ogni due anni possa cambiare le cose, se poi tutto il resto rimane inalterato. “Dì qualcosa di sinistra”, implorava Nanni Moretti a D’Alema già vent’anni fa e mai come adesso è ridiventato di attualità. Lasciamo i liberali, liberisti alle loro idee e al loro percorso: noi siamo un’altra cosa. E forse per tornare ad essere se stessi e far tornare a votare buona parte di quel 35% che è rimasto a casa, c’è bisogno di una rivoluzione, perché con un semplice restyling non si va da nessuna parte.

Ultima considerazione. Questa destra non mi rappresenta in nulla e anzi riunisce insieme tutto ciò che ritengo distante dal mio modo di pensare. Ho il timore che porteranno avanti idee ed iniziative che non condividerò. Ma forse, tra qualche mese, il timore peggiore sarà dover prendere atto che in realtà non hanno fatto nulla di radicalmente diverso da quello che è stato fatto negli ultimi anni. E allora quel 35% magari tutti i torti non ce li aveva.