L’eschimese che voleva insegnare ad un africano

A volte penso che abbiamo con un grande futuro alle nostre spalle. E’ un dato oggettivo che il meglio di noi (noi nati in Italia, noi nati a Roma, ma anche noi nati nella seconda metà del secolo scorso) sia stato già scritto/detto/fatto. Nulla di male, di per sé. La storia non è una linea retta, ma piuttosto una spirale, che supera senza cancellare quello che c’è stato, portandolo con sé, in dote per quello che sarà. Come diceva Bernardo di Chartres, noi siamo come nani sulle spalle di giganti: possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla loro statura e quindi la somma finale del loro tanto e del nostro poco, ci permette di essere superiori. Per questo la storia è un processo verticale.

E’ proprio questa voglia di non sprecare quello che sappiamo, quest’ansia di trasmetterlo a chi viene dopo, in modo che non ripeta i nostri errori ma piuttosto  metta a frutto i nostri successi, che stabilisce il rapporto fra genitori e figli. Con il rischio di trasmettere i nostri sogni, magari soffocando i loro, con il dubbio che invece certi errori vadano fatti in prima persona, perché le ferite degli altri fanno meno male (e quindi insegnano di meno) delle sbucciature fatte in proprio. Con il rischio che invece di essere trampolini su cui appoggiarsi, diventiamo montagne da scalare.

Ma il rischio più grande è fare come quell’eschimese che voleva insegnare ad un africano come si combatte il caldo: noi al polo nord non abbiamo problemi di caldo, l’abbiamo definitivamente superato, quindi non capisco perché tu debba soffrirne. Fai come noi e vedrai che ti troverai benissimo…Ecco, purtroppo spesso facciamo anche noi così. Senza capire il problema di chi ci sta di fronte, utilizziamo, magari con la massima buona fede, tutte le conoscenze e le esperienze che abbiamo avuto, senza capire nulla e quindi senza dare il minimo aiuto al nostro interlocutore.

Cosa avrei potuto dire a quel poveretto di Udine che si è tolto la vita perché non aveva un lavoro e non vedeva un futuro? Leggo commenti di rabbia, indignazione, compassione. Mi tornano in mente le non risposte della politica (in questi anni, tra “bamboccioni”, “il posto fisso è noioso”, “non sentiremo la mancanza di chi va all’estero”, si potrebbe fare un campionario di bestialità). Mi torna in mente che la nostra dovrebbe essere una Repubblica fondata sul lavoro. E allora ho paura. Ho paura che le esperienze passate non ci aiutino, che non siano altezze per chi verrà dopo: ho paura che la storia perda la sua verticalità e diventi un processo orizzontale.

Così prolificano il populismo e la rassegnazione di questi tempi: banalità, semplificazioni, slogan, la storia ridotta ad un processo binario, fatto da un insieme di uno e di zero. E purtroppo sappiamo che quando prende questa piega, la storia può diventare un luogo terribile.

trilussa