Vengo da Gerusalemme senza ridere e senza piangere, vengo da Gerusalemme senza ridere e senza piangere, vengo da Gerusalemme senza ridere e senza piangere…
Non sapevo proprio come iniziare questo resoconto semiserio (minchione non ci sta bene vicino a Gerusalemme, per tutto quello che scriverò dopo), ma in effetti la filastrocca dell’infanzia non è così campata per aria per descrivere un posto unico al mondo, che nel bene e nel male non può essere paragonato con nessun altro. Quando poi uno dei tuoi migliori amici si trasferisce lì e ha la possibilità di farti da guida per qualche giorno, capite bene che è un’occasione da non perdere.
Un luogo – o forse si potrebbe dire meglio il luogo – in cui tutto è possibile: il ridere ed il piangere, la pace e la guerra, la santità e l’abiezione. All’interno di Gerusalemme ci sono tutte le contraddizioni del mondo, esasperate fino ai massimi livelli. La sacralità di quel luogo la si avverte anche solo camminando per i vicoli, l’aurea mistica che avvolge la città penso possa essere avvertita anche dal visitatore più laico o miscredente. Accanto, anzi, mischiato a questo però, si avvertono una serie infinita di conflitti non risolti, una contrapposizione permanente degli uni contro gli altri, che non fa sconti a nessuno. Arabi e ebrei, arabi cristiani e arabi mussulmani, ebrei ortodossi ed ebrei laici, cristiani latini e cristiani ortodossi e poi armeni e copti, siriani, evangelici. Riuscire solamente ad individuare le mille sfaccettature religiose presenti non è cosa semplice.
Fra le vie della Gerusalemme israeliana, metropoli occidentale a tutti gli effetti e le strade dissestate e confusionarie della Gerusalemme araba ci sono un paio di chilometri. Quelli che separano due continenti o se preferite due mondi incomunicabili. La segregazione razziale che si vede in maniera eclatante con la costruzione del muro ti fa tornare alla mente altri orrori. Com’è possibile che un Paese nato da quell’odio, un popolo devastato da quella malvagità, abbia potuto ripercorrere le stesse vie (se si escludono i campi di sterminio) per diventare da vittima a carnefice?
Ma tralasciando per un attimo il conflitto arabo israeliano, concentrandoci sulla parte cristiana, è emblematica la situazione della basilica del Santo Sepolcro. Il luogo più sacro e più importante della nostra fede, dove secondo una tradizione antichissima e molto attendibile, si trova il Golgota, la collina della crocifissione ed insieme il sepolcro dove fu deposto il corpo e dove avvenne la resurrezione, è un luogo dove le varie confessioni cristiane convivono a fatica. L’unico modo per non litigare è una ripartizione dei luoghi rigorosissima, fissata nel 1852 quando l’allora sultano mussulmano, stufo delle continue diatribe, stabilì il cosiddetto “status quo”. Da allora nulla può essere modificato, la ripartizione dei luoghi (ogni cappella commemorativa, ogni altare, ogni piccolo posto all’interno della basilica) e degli orari (lì dentro e solamente lì non entra nemmeno in vigore l’ora legale per non mutare gli equilibri) viene gestito dall’una o dall’altra confessione. E per sancire tutto ciò, mentre ortodossi, cattolici e armeni si alternano alle varie funzioni, le uniche chiavi della basilica ce le ha un guardiano mussulmano.
A pochi passi di lì gli ebrei vanno a pregare in un non luogo. Quello che comunemente chiamiamo “muro del pianto” o “muro occidentale”, (per loro semplicemente Kotel) è il contrafforte costruito per reggere la spianata dove c’era il tempio distrutto dai romani del 70 d.c. e dove ora si trova la Cupola della Roccia, la moschea con la Cupola dorata. Quel muro è il luogo più vicino a dove si trovava il sancta sanctorum all’interno del tempio. Proprio lì, secondo la tradizione Abramo stava per sacrificare Isacco e per i mussulmani, in quello stesso punto Maometto fu rapito in cielo. Non c’è un punto più sacro, sia per gli uni che per gli altri. Ma anche lì, invece di pregare insieme seppur in modi diversi, lo stesso unico Dio, se potessero si scannerebbero senza troppi complimenti.
D’altra parte le contraddizioni non sono solamente legate a eventi cruenti. Proprio il giorno del nostro arrivo abbiamo potuto assistere all’inizio dello Shabat (che cominci al tramonto del venerdì) ed è uno spettacolo emozionante perché capisci sul serio quanto per loro sia tenue il confine fra sacro e profano, fra vita quotidiana e credo religioso. Le contemplazione delle letture, con quel dondolio che indica il coinvolgimento del corpo alla mente in preghiera si alternano a girotondi, cori da stadio e lancio di caramelle, come fosse una festa per bambini. Lo Shabat è il giorno di festa. E loro festeggiano. Senza neanche un goccio d’alcol! Ma perché non potremmo stare tutti insieme, tranquilli, pregando ognuno il nostro Dio, senza star troppo a pensare a quello del nostro vicino?
Mi rendo conto di non aver fatto un resoconto autentico, ma che volete? se avete bisogno di una guida ce ne sono a bizzeffe! Domani però proseguo e prometto che vi racconto qualche dettaglio più pertinente al viaggio vero e proprio.
affascinante
Il mio sogno del cassetto, insieme a Petra.
(Ma chi è il tuo amico che si è trasferito a Gerusalemme? Marrazzo? 😂)
No, semplicemente è il futuro papa 😉
Molto interessante! Aspetto il seguito 🙂
Superinteressante! Qui da Roma ti arriva un po’ di sana invidia?
Ma sono già tornato!
Caro Romolo, sono intervenuta su questo post dando una versione ben diversa di quello che è la situazione in Israele relativamente alla convivenza arabi/israeliani: possibile che tu abbia cancellato il mio intervento? Non ci posso credere!
Infatti non l’ho cancellato! Non mi è proprio mai apparso! Rimettilo
Ok. Scrivevo che in Israele, e tu che ci sei stato dovresti averlo constatato con i tuoi occhi, arabi ed ebrei convivono tranquillamente (circa un quinto della popolazione israeliana è costituita da arabi, che hanno gli stessi identici diritti degli altri, giudici arabi che siedono con giudici ebrei nelle aule di tribunali, chirurghi arabi che operano nelle stesse sale operatorie con i loro colleghi ebrei, studenti arabi e israeliani che studiano nelle stesse università e magari preparano insieme gli esami: tu questa la chiami discriminazione? Se poi i vicini di casa del popolo israeliano sono una manica di esaltati che vogliono solo sterminare ogni ebreo, ucciderlo anche nella culla e cancellare dalla carta geografica lo stato d’Israele, gli israeliani avranno diritto a difendersi o no? Oppure devono farsi trucidare per non turbare l’opinione pubblica? La costruzione del muro ha ridotto gli attentati kamikaze praticamente del 100%, e secondo te non era da costruire? Secondo te è stato un comportamento discriminatorio e nazista averlo elevato? Ribadisco il concetto già espresso dalla grandissima Golda Meir: “Meglio un brutto processo che un bel funerale”.
Non mi azzardo a esprimere giudizi politico-strategici sulla situazione. Ho riportato le mie sensazioni che sono state invece di una differenza abissale e drammatica tra la parte araba e quella ebrea. Il diritto degli uni non dovrebbero mai andare a sopraffare quelli degli altri, anche se una convivenza pacifica purtroppo la vedo davvero molto difficile. Non per colpa di qualcuno, forse per la situazione in sè
Leggevo i commenti sopra, con diversissime idee su quanto accade in Israele, e m’interessava lasciare uno spunto di riflessione, allargando di molto il campo: a volte, da lontano, si vede un po’ meglio. Viviamo in un mondo di paradossi: il più grande monumento mai costruito dall’uomo – che si veda o no dallo Spazio, poco importa – è una fortificazione difensiva; e dall’altra parte, secondo uno storico di cui non ricordo il nome, “la Prima Guerra Mondiale è stata la prima opera collettiva dell’umanità”. A volte, questa consapevolezza mi fa supporre che il problema della convivenza sia mal posto, e che forse è proprio quando cerchiamo di convivere che facciamo i danni peggiori. Poi, probabilmente, in Israele hanno trovato un modo di convivere che la maggior parte degli osservatori esterni non coglie, il che non è una colpa ma un principio fondativo dell’antropologia: più cerchi d’immergerti in una cultura altra, meno la capisci. Forse, in queste materie, il trucco è proprio non pretendere d’aver capito, ma continuare a studiare: la scienza è tutto tranne che certezza.
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