Presto, presto o con tutta calma?

Fra le tante possibili classificazioni/diversificazioni delle persone, mi ha sempre incuriosito quella fra chi corre e chi se la prende comoda. Chi è pieno di adrenalina già alle 7 della mattina e chi invece alle 10, dopo il terzo caffè, ancora galleggia fra il sogno e la realtà. Ma possiamo fare mille esempi. Chi appena ha finito di mangiare si alza e sparecchia la tavola e chi invece rimane ancora un po’, per una chiacchiera, un dolcetto, il caffè e l’amaro e poi magari una sigaretta e non la finisce mai.

Voi in quale categoria vi sentite di appartenere? Siete fra quelli che il 7 gennaio, appena messi i Re Magi, vogliono sbaraccare tutte le luminarie natalizie, oppure siete quelli che cominciano a togliere gli addobbi a carnevale? Siete fra quelli che appena suona la sveglia riescono a tirarsi su, oppure siete fra coloro che amano fare GoroGoro? Siete maniaci della puntualità o avete abituato i vostri amici ai vostri ritardi? In ogni caso, come ci comportiamo nelle situazioni, dalle più banali a quelle più impegnative, dice molto di noi, forse anche più di quello che vorremmo si vedesse.

E infatti, queste due categorie, in questi piccoli atteggiamenti, rivelano come approcciamo la vita. Chi vive proiettandosi al futuro, pensando di poter guadagnare tempo e chi invece sta fermo nel presente, pensando che di tempo ce ne sarà sempre a sufficienza. I primi si nutrono di stress, lo alimentano e si alimentano con lui: una convivenza forzata, che però spesso diventa quasi ricercata. I secondi non sanno neanche cosa sia lo stress, in compenso rischiano a volte di cadere nella noia.

Io ho una posizione ambivalente. Mi piace svegliarmi presto, ma mi piace anche attardarmi a tavola. Non vivo con l’esigenza di pianificare, ma spesso mi ritrovo a farlo. Odio arrivare in ritardo, anche se da sempre vivo con una persona che invece fa del ritardo un abitus permanente. Lo stress non mi fa mai compagnia, tranne forse quando ho la sensazione di sprecare tempo.

E voi, dove vi ritrovate? Di quale categoria fate parte?

Insegna bene ai tuoi bambini

You, who are on the road, must have a code that you can live by
And so, become yourself, because the past is just a goodbye
Teach, your Children well, their father’s hell did slowly go by
And feed them on your dreams, the one they pick’s the one you’ll know by

L’altro giorno la mia amica Chiara riportava nel suo Blog, una serie di affermazioni dei suoi alunni (bambini delle scuole elementari), da cui veniva fuori un quadro che fa riflettere. Sintetizzando, i bambini (quelli in particolare? Direi proprio di noi. Anche la mia dolce metà lavora in una scuola elementare e mi racconta aneddoti simili) hanno già a quell’età dei pregiudizi molto ben articolati, dei confini come li chiama giustamente Chiara, nei quali rinchiudono “il noi”, per lasciare fuori “gli altri”.

Quindi i bambini sono razzisti? Forse no, a meno ché non provengano da famiglie con idee malate, però hanno ben chiara (o almeno, pensano di averla) l’idea su chi siano quelli che non fanno parte del loro gruppo. E sono molto drastici al riguardo. Chiara si domandava appunto quando comincia questo processo di selezione e perché. E’ colpa della società, della famiglia, della scuola? E’ un fatto “culturale”? In realtà io penso sia al contrario, un fatto molto “naturale”.

Molti hanno questa idea poetica della natura innocente, come se poi fosse invece la cultura, con i suoi pregiudizi a creare le differenze, ad alzare gli steccati fra il noi ed il voi. Ma se pensiamo agli animali, è molto difficile trovare l’accettazione dell’altro. E’ vero, può capitare che una gatta allatti un cagnolino, ma di solito i leoni stanno con i leoni, le scimmie con le scimmie. E anche all’interno della stessa razza, le logiche del branco portano ad escludere gli elementi di altri gruppi. Forse non sarà un pensiero condiviso, ma io credo che al contrario, l’accettazione della diversità, l’inclusione dell’altro, sia un processo culturale che distingue l’uomo da qualsiasi altro essere vivente.

Non a caso l’identità di gruppo (branco, tribù, razza, popolo, religione) è presente in ogni società, di qualsiasi tipo ed è solo grazie ad un lungo processo di evoluzione culturale, che si riesce (quando ci si riesce!) a superarlo. Il bambino è un’anima semplice, ma proprio per questo si sentirà sicuro quando si trova fra i suoi simili ed i confini del suo gruppo saranno i confini della sua sicurezza. Per abbattere questi confini bisogna vincere le paure ed aprire le porte alla diversità. L’unica cosa di cui aver paura è proprio la paura stessa: chi insegna, a qualsiasi livello, dovrebbe fare dell’inclusione la prima regola, dovrebbe testimoniare che la diversità è una ricchezza ineguagliabile. Ma per farlo ci vuole una maturità che pretendiamo nei bambini, ma che spesso purtroppo non hanno nemmeno le persone mature.

P.S. Un pensiero al grande Davis Crosby, che ci ha lasciato la scorsa settimana: adesso sei in un posto dove nessuno ti chiederà più di tagliarti i capelli!

Atom Heart Mother (un altro 21 gennaio)

Chi frequena questo blog da un po’ forse ricorderà che per me oggi non è una giornata come le altre. Ormai 36 anni fa persi un amico carissimo proprio oggi. Una di quelle cose che ti segnano in maniera irreversibile, una data che fa da spartiacque fra un prima e un poi, dove il poi diventa inesorabilmente molto diverso dal prima. Ma tutti questi anni, forse altrettanto inevitabilmente, cambiano anche la valutazione delle cose. Il cambiamento lo trovo evidente rileggendo a ritroso tutti i post che ho scritto negli anni in questo 21 gennaio.

L’unica cosa bella del morire a vent’anni – se mai ce ne fosse una – forse è che rimani sempre ragazzo. Quando penso a te (e capita ancora molto più spesso di quanto si potrebbe immaginare) è chiaro che tu sei come eri. Ma se penso che ormai sei più piccolo di mio figlio, la cosa si fa davvero strana. Anche perché io con te continuo a parlare da pari livello, da ventenne a ventenne, certo non come se un adulto parlasse ad un ragazzo!

Anche il ricordo di oggi ha un tema musicale. Non è un caso, perché come ho detto più volte, la musica ci ossessionava, era l’argomento di conversazione continuo, permanente ed invadente. Se anche andavamo a parlare di donne o di politica (di calcio no, perché a te proprio non ti interessava), comunque, in un modo o nell’altro, si finiva a parlare di musica. Stavolta rigurda i Pink Floyd, forse il tuo gruppo preferito, anche se (me lo sento nelle orecchie), avresti precisato subito che era impossibile fare una classifica. Ad ogni modo, adoravamo i Pink Floyd, li ascoltavamo moltissimo, soprattutto i primi album. Perché c’era questa moda snob di privilegiare album meno famosi, rispetto a quelli più noti e più di successo. Anche noi ne eravamo vittime: “Sì, The Wall è bello però, vuoi mettere con “Obscured by Clouds?

Ad esempio, eravamo assolutamente convinti che la suite di Atom Heart Mother, fosse un capolavoro inarrivabile: altro che The dark side of the Moon, altro che Wish You Were Here, quello era il vertice assoluto. E ci infervoravamo su quei discorsi, avremmo potuto scendere in piazza e tenere una comizio per avvalorare la nostra tesi. Perché avevamo appunto vent’anni. E solo a quell’età puoi fare una battaglia (inutile) per una causa (persa) di quel genere. Recentemente ho letto una dichiarazione di Gilmour, proprio su quel pezzo, definito dal suo stesso autore “un tentativo di raschiare il fondo del barile con della merda psichedelica“.

E riascoltandola ora, in effetti, mi trovo abbastanza d’accordo con il buon Dave: se non fosse stato un film muto, sarebbe perfetta come colonna sonora della Corazzata Potiomkin. Ma questo significa avere vent’anni: avere certezze assolute ed essere disposti ad andare contro il mondo per affermarle. Non importa se poi si rivelano cagate incommensurabili. Ecco perché forse continuo a discutere con te, amico fraterno: mi aiuta a non dimenticare com’ero.

Lucciole per lanterne

A Roma, com’è noto, esiste via della Conciliazione, una strada costruita per sancire il concordato fra lo Stato Italiano e la Città del Vaticano. Bollata come classico esempio di architettura fascista, su questa strada ci furono molte polemiche: negli anni si ipotizzò addirittura di smantellarla recuperando l’antico “Borgo Pio” che fu sventrato per costruirla.

Nel mondo accademico degli storici dell’arte era opinione diffusa infatti che l’abbattimento del borgo fosse stato uno scempio architettonico, che avesse tolto quella magica atmosfera che aveva creato il Bernini, per cui la grande cupola appariva improvvisamente agli occhi del visitatore, senza essere visibile da lontano.

Le polemiche cessarono quando furono scoperti dei disegni originali proprio di Bernini che immaginava la costruzione di una grande via che dal Tevere avrebbe portato direttamente alla grande cupola e si rammaricava della impossibilità di realizzarla!

Le cose non sono spesso come sembrano. Non solo. In genere sono molto più complicate di come sembrano. Invece, nell’era di internet, dei social, ieri eravamo pieni di virologi specializzati in pandemie, oggi di criminologi specializzati in antimafia, domani chissà. Tutt’al più CT della nazionale. Quello non si nega a nessuno.

Tutti hanno qualcosa da nascondere tranne me e la mia scimmia

Che poi in realtà non so se anche lei non abbia qualcosa da nascondere, chi lo sa, va a capire cosa le passa per la testa. Lennon era così sicuro e poi vedi che fine ha fatto. Perché in realtà cosa ne sappiamo veramente? Anche quelli che stanno vicino a noi, amici, parenti e conoscenti: siamo così sicuri che non abbiano qualcosa da nascondere? Nei rapporti sono convinto che la sincerità sia una caratteristica indispensabile, meglio una brutta verità che una bella bugia, ma una cosa è la sincerità, un’altra è la più cristallina trasparenza.

La più cristallina trasparenza, quella che non è in grado di nascondere nemmeno una briciola di pane, non è mica così semplice. Tutt’altro. Richiede impegno e costanza, lunga frequentazione. Bisogna abbassare qualsiasi scudo difensivo, conscio ed inconscio. Senza trucco, senza inganno, esattamente così come si è. A volte è difficile anche con se stessi. Conosco un sacco di gente che nasconde e si nasconde anche davanti ad uno specchio, forse perché non regge la pura e semplice verità.

Del resto, fin da bambini, uno dei giochi più diffusi è il nascondino. Nascondiamo e ci nascondiamo finché poi basta un nonnulla, un ricordo, un’emozione, un profumo, un sapore, una musica e la verità torna a galla, svelata da ogni nascondimeno, libera dai pesi su cui l’avevamo legata. Perché, per quanto nascondere e nascondersi può essere divertente, per quanto a volte possa sembrarci quasi necessario, la vera tragedia potrebbe essere rendersi conto che nessuno ci verrà a cercare.

Ma poi, siamo sicuri che era proprio una scimmia?

Non puoi mettere fretta all’amore

O meglio. Puoi anche mettergli fretta, ma sarà del tutto inutile. Purtroppo aspettare non è il nostro forte. Non lo è per nessuno. Forse per colpa dei tempi che viviamo, dove tutto è accelerato, dove non ci sono più distanze spazio temporali da colmare. Oggi con uno smartphone azzeri le lontananze geografiche e avvicini ogni tipo di appuntamento. La velocità è una condizione dell’essere.

Però questo è solo parzialmente vero, anche perché questa canzone, prima di diventare un successo di Phil Collins degli anni 80, è stata scritta negli anni 60. Quindi, come spesso capita, siamo portati a pensare che il tempo che viviamo abbia delle particolarità uniche, come se invece nel passato le cose andassero in modi totalmente diversi. In realtà non è esattamente così. Amare ed essere amati, probabilmente, è sempre stato accompagnato da un’urgenza intrinseca. Un bisogno insopprimibile di bruciare i tempi, di arrivare al traguardo, di avere conferme che non bastano mai.

Ed è risaputo che la fretta è sempre cattiva consigliera e che il tempo dell’attesa è spesso il più fecondo. Ma è comunque un’attesa dinamica, che si nutre di tensione, che anzi alimenta la spinta verso il suo obiettivo. Quindi è vero, non puoi affrettare l’amore, ma forse non puoi nemmeno fare a meno di farlo. E guai se non fosse così, perché questo è il segno più evidente che siamo ancora vivi.

I need love, love to ease my mind
I need to find, find someone to call mine
But mama said you can’t hurry love
No you just have to wait
She said love don’t come easy
It’s a game of give and take

La befana vien di notte

Quindi ci sarebbe questa brutta vecchietta. Ma non solo brutta, bruttissima, una befana, che se ne va in giro di notte con questo freddo e per giunta con le scarpe rotte. Ma non se ne va in giro che so, con l’autista e un comodo macchinone no! Se ne va in giro a cavallo di una scopa. Questa vecchietta brutta come un rutto d’oca, le scarpe rotte, se ne va in giro di notte con questo freddo, a cavallo di una scopa, per regalare dolci e giocattoli ai bambini buoni. Solo a quelli buoni, perché a quelli cattivi calci in culo. No, scherzo, per quelli cattivi, carbone. Dicono che contro l’aereofagia sia un portento. Magari quei bambini resteranno carogne, ma almeno eviteranno di scoreggiare.

Oltre ad essere brutta come un cesto di fave, andare in giro con le scarpe rotte, con questo freddo, a cavallo di una scopa, dove li va a mettere questi dolcetti per i bambini buoni? Li mette dentro le calze. Ma certo! Chi non mette dentro le calze dolci o giocattoli? Un posto davvero calzante.

Ecco, noi siamo cresciuti credendo a questo personaggio. E io voglio ancora crederci. Stanotte mi mettero alla finestra e aspetterò fiducioso il passaggio di questa simpatica vecchietta, brutta come la coccia del pecorino, con la sua scopa e i suoi regali. Del resto, se c’è chi crede che questo governo risolleverà l’economia, azzererà l’evasione e sconfiggerà il Covid, io non posso credere alla befana?

Aspettando il 23

A fine anno non tiro somme, la matematica non è mai stata il mio forte. Spero di essere rimasto nel cuore di qualcuno, o contrariamente nel cestino della carta di qualcun altro. (Charles Bukosky)

Ciao ciao duemilaventidue! Ti ricorderemo come l’anno del ritorno. Il ritorno alla normalità, ai viaggi negati, agli abbracci proibiti, ai volti senza maschere. Purtroppo anche il ritorno della paura della guerra, che bussa ai nostri confini, come pure il ritorno dell’inflazione e dei costi che crescono a dismisura.

Che poi, come avevamo tutti capito fin da subito, è stato un ritorno per modo di dire, perché dopo due anni di pandemia sarebbe stato folle pensare che le cose sarebbero tornate indietro esattamente nello stesso modo. Niente è stato più lo stesso, com’è normale e giusto che sia. E allora cosa aspettarsi dall’anno che verrà?

Io penso che quello che dovremmo fare, il più presto possibile, è proprio questo. Voltare pagina definitivamente dalla pandemia significa lasciare andare questa falsa aspettativa che le cose sarebbero tornate come prima. Dobbiamo accogliere il cambiamento e vivere profondamente il presente, senza nostalgie di quello che è stato.

Questo è il vero insegnamento che dovremmo trarre da questa calamità planetaria. Le cose, le situazioni, i legami, le abitudini, le idee, le prospettive, i sogni, le paure…tutto cambia. Godiamo il presente, quel che abbiamo, quel che siamo, perché l’unica cosa certa del futuro è che non sarà come l’avevamo previsto. Ma questo non dovrebbe angosciarci, al contrario, dovrebbe essere liberante, dovrebbe toglierci delle ansie e renderci pronti e aperti a quello che succederà.

Ad ogni modo, come diceva Bukowsky, se saremo nel cuore o nel cestino di qualcuno, dipenderà da noi. Saremo nel cuore di qualcuno non perché ci siamo stati ieri o l’anno scorso o dieci anni fa, ma perché faremo di tutto per esserci o almeno, il meglio di quello che riusciamo a fare. Noi ce la metteremo tutta, poi a volte dipende anche un po’ dalle circostanze. Vogliamo dirlo? Anche un po’ dalla fortuna. E allora accogliamo con fiducia questo duemilaventitrè, perché lo sapete a Roma, come si dice quando a tombola esce il 23?

Che vorresti sotto l’albero?

Vorrei trovare una sorpresa bella come una ballerina alla radio. Che tu sai che è bella anche senza vederla. Una sorpresa talmente inaspettata che rimani senza parole, quasi senza fiato, insperata ed insperabile, perché sarebbe quasi troppo bella per essere vera.

Le sorprese sotto l’albero, riparate dagli sguardi curiosi, eppure sotto gli occhi di tutti. Perché i regali più belli sono così. E sono le persone che ci stanno intorno. Capaci di stupirci, capaci di esserci, nonostante tutto, di ascoltare senza giudizio, di consigliare senza superbia, di accettarci senza rimpianti, di volerci per quello che siamo.

Poi certo, ci sono anche desideri inconfessabili. Ma per quelli, ci vuole giusto l’intervento di Qualcuno da lassù (sì, proprio Lui, quello che domani sera spegna duemilaventidue candeline!). Auguri di Buon Natale, pieno di luce e di gioia cari viaggiatori ermeneutici!

Comincia un altro viaggio

Proprio in questi giorni, circa settant’anni fa, il 6 dicembre del 1949, usciva il primo numero di Paese Sera: un quotidiano di proprietà del Partito Comunista Italiano nato per fare concorrenza ai giornali romani liberali e conservatori, come il Messaggero e il Tempo. A differenza dell’Unità, quotidiano ufficiale del PCI, Paese Sera fu un giornale vivace e indipendente, spesso in conflitto con il partito, attento alla cronaca rosa e a quella nera. Sulle sue pagine ha ospitato scrittori come Gianni Rodari, Norberto Bobbio e Umberto Eco, oltre a essere stato il primo a pubblicare i fumetti di Sturmtruppen di Bonvi e tra i primi in Italia a pubblicare le strisce dei Peanuts.

Nel corso degli anni 60 il quotidiano raggiunse la sua massima espansione, crescendo a Roma e in altre città, aprendo redazioni locali a Milano, Bologna e Firenze. Ma la concorrenza di nuovi giornali come La Repubblica e il crescente disinteresse del PCI nel sostenerlo ne determinarono la fine. Nel 1980, quando vendeva ancora 100 mila copie, l’editore cedette la proprietà del giornale e, tre anni dopo, il nuovo editore annunciò il licenziamento di tutti i giornalisti.

La chiusura di un quotidiano nazionale dalla storia così illustre fece scalpore: giornalisti e tipografi furono ricevuti dal presidente della Repubblica Sandro Pertini e il quotidiano riuscì a rinascere grazie a una sottoscrizione dei lettori e alla creazione di una cooperativa formata dai suoi lavoratori. In qualche modo il giornale riuscì a sopravvivere per un altro decennio, ma non fu mai in grado di riprendersi del tutto e nel 1994 le pubblicazioni furono definitivamente abbandonate. Negli anni Duemila ci sono stati diversi tentativi di rilanciare la testata da parte di diversi editori: l’ultimo in ordine di tempo, per il momento nella versione digitale, lo potete consultare all’indirizzo https://www.paesesera.lazio.it/

Un passato importante, come spero un altrettanto importante futuro, a cui sono molto onorato di poter partecipare. Da oggi infatti Viaggi Ermeneutici diventa una rubrica di questo storico giornale. A quasi dieci anni dalla nascita del blog direi che non potevo fasteggiare meglio il compleanno. E il viaggio continua!