Ma il merito è di sinistra o di destra?

Mi ricollego al mio ultimo post e torno a parlare di merito. Come ho scritto lì, sono sempre più convinto che sia l’unica discriminante che dovremmo mantenere. O almeno dovrebbe essere così, perché nella realtà dei fatti sappiamo bene che in molti ambiti invece viene dopo molte altre variabili, quando non viene proprio preso in considerazione.

Recentemente c’è stata una polemica legata al cambio di denominazione del Ministero della pubblica istruzioni, chiamato nel nuovo governo Ministero dell’istruzione e del merito. Polemiche legate alla paura che inserire il concetto di merito possa in qualche modo ledere il diritto all’universalità, alle pari opportunità che devono essere garantite nell’istruzione. Lo Stato deve garantire una base di conoscenze uguali per tutte o deve valorizzare il merito, mettendo in condizione i migliori di poter emergere? E perché la prima cosa dovrebbe essere alternativa alla seconda?

Purtroppo a volte, soprattutto a sinistra, si è puntato molto su questa alternativa. Come se, per garantire uguali condizioni di partenza per tutti gli atleti, si decidesse di far gareggiare i più bravi con gli occhi bendati. E’ un dato di fatto che le persone non siano uguali, che non abbiano tutte le stesse capacità e soprattutto che non provengano dagli stessi contesti. E’ il caso, la fortuna o il Padreterno a farci nascere a Montesacro da una famiglia benestante o in una megalopoli africana senza un padre e una madre. Per quante capacità o doti innate una persona possa avere è quindi scontato che nel primo caso riuscirà a metterle a frutto più facilmente, a prescindere dal merito.

Ma se ancora ha un senso la differenza fra destra e sinistra, dovrebbe essere evidente proprio qui. Un politica di sinistra deve agire sulle condizioni di partenza per cercare di mettere tutti nelle stesse condizioni iniziali, deve aiutare chi non è stato fortunato quando il mazziere dava le carte, per dare un’occasione anche a lui per farsi valere. Poi però starà a lui giocarsi le proprie possibilità, con la garanzia che non ci saranno sconti, non varrà la provenienza, il cognome, il colore della pelle o i gusti sessuali: farà strada e avrà successo chi lo merita, solo e soltanto per quello.

Che poi questo non significa buttare a mare tutti gli altri, ma valorizzare ciò che di buono ciascuno può fare. A beneficio suo, ma anche di tutta la comunità di cui fa parte. Scopri quello che sai fare, quello che ti piace fare e cerca di farlo nel migliore dei modi. Questo dovrebbe fare un sistema che funziona, che riesce a far emergere le potenzialità di ognuno, perché ciascuno di noi è bravo a fare qualcosa e meno bravo a fare altro. Non tutti sanno nuotare non tutti si sanno arrampicare. Ma chi è bravo a farlo perché non dovrebbe essere premiato? Toglie qualcosa a chi non ci riesce?

Poi un’altra volta parleremo su come si possa giudicare il merito in maniera oggettiva, perché al solito, il come fa la differenza.

Quote rosa, politically correct e altre amenità

Voglio essere scorretto, sincero ma scorretto. Perché lo ammetto, il politicamente corretto mi fa veramente salire il veleno. Mi fa perdere di vista la mia missione su questa terra (che come sapete è diffondere luce e dolcezza), mi svia, mi fa arrivare a pensare quello che non penso, ad essere quello che non sono.

Arrivato a questo punto (non so bene quale punto, ma sicuramente ad un punto sono arrivato) non sopporto più l’ipocrisia. Non sopporto più le maniere di facciata, il dover fare le cose perché sta brutto non farle, l’assecondare usi e costumi antiquati, irragionevoli, inutili se non dannosi. Tra un po’ rischio di diventare come quei vecchietti afflitti da malattie nervose, che però rimangono lucidi al punto da fare ragionamenti sensati: quelli senza inibizioni, che dicono pane al pane e vino al vino, senza pensare troppo alle conseguenze. Purtroppo a volte un po’ di diplomazia invece non sarebbe inutile.

Ad esempio leggevo su repubblica di una polemica nata all’Università di Leida, in Olanda, dove era esposto un quadro con sei uomini intenti a fumare sigari o sigarette, tutti bianchi e di una certa età. E’ successo che una studentessa si sia risentita e lo abbia denunciato alla preside della facoltà di giurisprudenza, scrivendo poi su Twitter, che sarebbe stato almeno opportuno aggiungere una didascalia in cui si stigmatizzassero le cattive usanze del tempo: il fumo non è ecologico e le compagnie di maschi senza donne non è politicamente corretta. Il quadro in questione fu dipinto nel 1978 da Rein Dool, che è ancora in perfetta forma a 89 anni, e si dichiara divertito e stupito: all’epoca, risponde, fumavano tutti, lo facevo anch’io, e i dirigenti alle università erano tutti maschi. Insomma, in nome del politically correct qualcuno vorrebbe arrivare a cambiare il passato.

Altro esempio. Stanno girando un film sulla conferenza di Monaco del ’38, quando l’Europa si arrese a Hitler che si prese la Cecoslovacchia. Sembra che il regista sia in difficoltà perché è obbligato a inserire almeno un personaggio di colore: cosa evidentemente inverosimile nella Monaco del III Reich. Ma che senso ha? E soprattutto, a chi giova? Inventarsi cose che non esistevano aiuta a ristabilire una parità di genere? E’ funzionale al superamento della disparità e del razzismo?

Ovviamente no. Anzi, comincio a pensare che oltre ad essere inutile, questo revisionismo sia persino dannoso. Eppure basterebbe poco per affrontare seriamente le questioni. La New York Philarmonic quest’anno per la prima volta è composta da più donne che uomini. Perché hanno messo le quote rosa? Ma neanche per sogno. Semplicemente hanno fatto audizioni alla cieca, ovvero dietro un paravento, così da giudicare eslusivamente il talento di chi suona, senza nessun tipo di preconcetto.

L’inclusione contro ogni forma di discriminazione non si fa con la salvaguardia di “quote” garantite. Bisogna far valere il merito, che è l’unica discriminante che al giorno d’oggi dovrebbe avere diritto di cittadinanza. Tutto il resto sono solo chiacchiere inutili