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Arthur’s Theme

Arturo è una di quelle persone che quando hai la fortuna di incontrarle, possono cambiarti il colore delle giornate. Ci siamo conosciuti per caso, era relatore in un convegno, ho pensato che sarebbe stato bello farlo conoscere ai miei figli, ai miei amici, ai colleghi. Perché Arturo ha qualcosa da dire e ti conquista subito. Impossibile non starlo a sentire.

Arturo ha la capacità di spostare l’attenzione: da ciò che manca a ciò che c’è. Da quello che non hai a quello che invece possiedi. Per far questo gioca con le parole, perché come dice lui (ma non me ne voglia, prima di lui, anche il mio amico Wittgenstein), è il linguaggio che crea il pensiero e non viceversa, come saremmo tentati di pensare. La ricchezza delle parole è ricchezza di pensiero.

Tutto qui, direte voi? Tutto qui. Perché concentrarsi su quel che si è, su quel che si ha, ti fa scoprire una forza e una ricchezza inesauribile, inimmaginabile e ti fa compiere imprese straordinarie. Come entrare nella nazionale di calcio, diventare un grande karateka, andare sullo skateboard e mi ha detto, recentemente, far parte anche della nazionale di golf, la sua nuova passione. Il tutto questo scrivendo libri, diventando padre, andando a raccontare in giro la sua vita straordinaria. E’ proprio vero che siamo tutti i limiti che superiamo, come cantano i negramaro e come ama ripetere quella saggia donna di mia figlia.

Ah, a proposito, Arturo è nato con una sola gamba, ma come dice lui non è un dis-abile. Eventualmente, se proprio dovesse definirsi, si direbbe pro-abile. Se vi capita (ha diversi canali social) seguitelo, perché ha qualcosa da raccontare a ognuno di noi. Oppure leggete il suo libro.

Arthur he does as he pleases. All of his life, he’s masked his choice and deep in his heart, he’s just, he’s just a boy. Living his life one day at a time and showing himself a really good time. Laughing about the way they want him to be!

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I piani alti, gli occhiali di Wittgenstein e altre considerazioni

L’idea è come un paio di occhiali posati sul naso, e ciò che vediamo lo vediamo attraverso essi. Non ci viene mai in mente di toglierli” (Ludwig Wittgenstein)

In questi giorni ho fatto l’ennesimo trasloco di stanza. In quasi venticinque anni è il settimo spostamento, in media quindi, pur continuando a fare lo stesso lavoro, ogni tre anni mi sono spostato. Che al di là delle seccature momentanee dà comunque quell’idea di novità, di cambiamento, che ho quasi sempre apprezzato. Nel corso di questi anni ho avuto affacci differenti, su piani differenti: sesto, nono, quattordicesimo piano. Anche se paradossalmente quello che mi è rimasto nel cuore è stato il primo ufficio che si trovava al primo piano, quasi schiacciato da tutta la grandezza dell’edificio.

E proprio pensando a quel primo ufficio mi è tornata in mente Fiorella, la signora delle pulizie tanto gentile, con cui ero entrato in confidenza. In confidenza al punto che un giorno mi portò il curriculum della figlia, chiedendomi se potessi segnalarla per un’assunzione: “anche in in ufficio come il suo, al primo piano, andrebbe bene lo stesso“. Ecco. Non mi ero mai reso conto che il piano corrispondesse ad un livello di importanza, ma ai suoi occhi era esattamente così. E da quel giorno non sono più riuscito a non pensare che la sua gentilezza fosse in qualche modo un compatimento, una sorta di carezza per quel poveretto che lavorava “ai piani bassi”. Avrei potuto spiegarle che non era così, ma in effetti temo non mi avrebbe creduto.

Ed è giusto così. Perché la realtà non è mai un semplice dato di fatto oggettivo. Nella nostra percezione, nella nostra valutazione, persino nella memoria e quindi nella capacità di comprendere e poi raccontare le cose, ognuno di noi utilizza un filtro, gli “occhiali” della citazione iniziale. Questo filtro nasce e cresce con noi, con le esperienze che abbiamo fatto, i sentimenti che abbiamo vissuto, i sogni, le emozioni, i progetti, le delusioni. E come dice il mio amico Ludwig, non ci viene mai in mente di togliercelo.

Senza quegli occhiali non vedremmo “la realtà così com’è“. Perché “la realtà così com’è“, semplicemente, non esiste. Però potremmo davvero ascoltare i giudizi degli altri, tentare di comprenderli, vedere le cose dal loro punto di vista, con i loro occhiali. Perché alla fine ha ragione il Talmud: non vediamo le cose come sono, vediamo le cose come siamo.

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La potenza della narrazione. 3/ C’è qualcuno là fuori?

La potenza della narrazione è tale che, come già ricordato nel primo post dedicato a questo argomento, chi scrive, insieme alla trama del suo racconto, spesso si ritrova anche a creare i destinatari della sua storia. Come chi lancia nel mare il classico messaggio nella bottiglia e si immagina chi sarà poi l’anonimo lettore che resterà prigioniero e insieme desiderato ospite, delle sue parole.

Il mio saggio amico (!) Wittgenstein in effetti diceva che “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”: in effetti sarebbe una regola di buon senso, se non fosse però continuamente smentita dai fatti. Se realmente applicata ci ridurrebbe al silenzio proprio su ciò che maggiormente vogliamo parlare. Come si fa a parlare di amore? Come si fa a parlare della morte, del significato della vita, di Dio? Ma allo stesso tempo, come potremmo non parlarne?

Chi racconta una storia presume di avere qualcosa da dire, presume ci sia qualcuno interessato ad ascoltarla, presume che qualcuno raccolga la bottiglia. Presume di avere la forza, la capacità, il permesso di parlare anche di ciò su cui si dovrebbe tacere. Siamo molto presuntuosi! Ma una volta finito il compito dovremmo fare un passo indietro, come i genitori rispetto ai figli. Il narratore si fa da parte ed il destinatario, il lettore della storia, ne entra a far parte, come elemento determinante, protagonista e non solo fruitore.

La scorsa settimana la mia amica Alice nel suo blog, parlava della differenza fra fra autori e scrittori. Non saprei bene come classificarmi, certamente quando scrivo cerco sempre di immaginare chi poi leggerà e inevitabilmente sono influenzato da questo dialogo a distanza con questo qualcuno lì fuori. E’ per questo che, comunque ci si voglia definire, rimango dell’idea che più di chi narra o di chi scrive, sia importante la narrazione. E’ lei che dovrebbe rimanere la protagonista assoluta.

Le presentazioni dei miei libri mi mettono sempre a disagio, forse proprio perché inevitabilmente sei al centro dell’attenzione, quando invece appunto, il protagonista dovrebbe essere la narrazione. Ed i lettori. Proprio la potenza della narrazione fa sì che siano molto più importanti i lettori rispetto al narratore: una storia non letta, una canzone non ascoltata, un filmato non visto, di fatto non esistono. Ma una volta narrata, la storia ha una vita propria, che si dipana e si arricchisce attraverso i lettori ed il narratore non ha più alcun potere su di essa. Deve solo sperare che qualcuno raccolta la bottiglia e tiri fuori la storia. Deve solo chiedersi, “c’è qualcuno là fuori?” E quando scopri che effettivamente qualcuno c’è, allora davvero puoi ritenerti soddisfatto.

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La giusta distanza

La mia amica , l’altro giorno si incamminava mirabilmente (come lei sa fare di solito) in sentieri ricchi di spunti, come quei viottoli di montagna nei quali a destra e sinistra, nel folto degli alberi, si aprono panorami straordinari, a volte semi nascosti, altre volte completamente svelati. E si parlava appunto di giuste distanze. Continuo proseguendo per quel sentiero delineato da lei, provando a disegnare nuovi scorci.

Premetto che sono miope, fin da ragazzino. Il mondo ogni giorno riprende i suoi contorni solo quando mi infilo gli occhiali. Prima è una roba nebulosa, più o meno definita, è questo, ma potrebbe anche essere quello. Una cosa lontana per me diventa indistinguibile. Da qualche anno a questa parte però sono diventato anche presbite, quindi, se porto gli occhiali, anche una cosa vicina diventa altrettanto nebulosa. Paradosso dei paradossi, se tolgo gli occhiali però, da vicino ci vedo benissimo. Quindi lo strumento che mi serve per vedere da lontano è lo stesso strumento che mi impedisce di vedere bene da vicino.

E’ un mondo complicato. Non vediamo quello che abbiamo ad un palmo dal naso e vediamo benissimo quello che ci sta lontano. O al contrario, riusciamo ad analizzare e sviscerare quello che abbiamo sotto gli occhi, ma appena ci allontaniamo la realtà diventa indistinta. E’ vero, esistono gli occhiali multifocali (che sono quelli che ho da qualche anno), ma qui ovviamente non volevo fare un saggio di oftalmica. La miopia e la presbiopia mi sembrano situazioni un po’ più generali, condizioni con le quali dobbiamo convivere per valutare il mondo che ci circonda, gli altri, ma prima di tutto noi stessi.

E qui arriva Jò con le sue giuste distanze. Ma giuste per chi? Per “vedere” e quindi capire chi è vicino e chi è lontano? Ed è possibile trovare una distanza così giusta che sia equidistante da tutto, al punto che si riesca a mettere bene a fuoco sia il vicino, sia il lontano? Oppure saremo sempre costretti a questa continua oscillazione, ad allontanarci per vedere bene il vicino e avvicinarci per vedere bene il lontano? Nel Piccolo principe si dice che “non si vede bene che col cuore, perché l’essenziale è invisibile agli occhi“. Ma anche (anzi forse soprattutto) per il cuore vale il discorso della distanza giusta. Ammesso che esista. Piuttosto, invece del buon Saint Exupery, mi viene in mente una frase del mio amato Ludwig, che forse, al di là del discorso sulla misura del vista, coglie un aspetto fondamentale: l’idea è come un paio di occhiali posati sul naso, e ciò che vediamo lo vediamo attraverso essi. Non ci viene mai in mente di toglierli. (L. Wittgenstein)

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Della dignità del vivere e del morire

Tutto ciò che si può dire lo si deve dire chiaramente. su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.  (L. Wittgenstein)

Leggevo la notizia di questa Brittany Maynard, una ragazza americana, malata di tumore, che ha deciso di togliersi la vita, scegliendo, come ha detto in un ultimo tragico video, “di morire dignitosamente”.

A parte il fastidio per la spettacolarizzazione mediatica che questa notizia ha (direi inevitabilmente) suscitato, mi veniva una riflessione, condivisa anche da Chiara di Squarcidisilenzio. Perché morire in quel modo sarebbe più dignitoso di morire lasciando che la malattia segua il suo corso?

Lungi da me dare una valutazione su questa vicenda. Non ho gli elementi per giudicarlo e se anche li avessi non vorrei assolutamente dare un giudizio: come diceva il saggio Ludwig, su ciò di cui non si può parlare sarebbe meglio tacere. Il gesto di questa ragazza potrebbe essere stato di grande coraggio o di grande viltà, di grande egoismo o di altrettanto grande altruismo. Purtroppo, come spesso accade in queste occasioni, si perde di vista la persona, la sua sofferenza e si prende spunto da qui per schierarsi, per alzare il sipario su un circo mediatico che specula sulla vicenda, portando acqua al mulino di una tesi, piuttosto che di un’altra. Senza dubbio, per averlo passato sulla pelle, posso dire che c’è altrettanta dignità nel morire seguendo il corso delle cose. La malattia ti toglie tante cose, purtroppo, ma non certo la dignità.

Come dicevo nel post dell’altro giorno, per il lavoro che faccio (ma anche probabilmente per come sono fatto) sono un negoziatore, sono sempre portato a cercare una soluzione condivisa, a conciliare quello che apparentemente è conflittuale. Proprio partendo da questo però sono assolutamente convinto che ci siano principi, ma soprattutto valori, che non siano affatto negoziabili. Uno di questi è che siamo responsabili, ma non padroni della nostra vita. Della nostra, come di quella di nessun altro. Sono responsabile, non padrone, della vita di chi amo. E della mia. Da questo discende un altro principio non negoziabile: ci sono motivi, principi, valori per cui vale la pena dare la vita. Non credo ce ne siano di validi per toglierla. Quella degli altri, ma conseguentemente, la propria.

Detto questo, a questa povera ragazza ai suoi genitori che l’hanno accompagnata in questa scelta difficile, vorrei arrivasse questa antica Benedizione Irlandese, che si scambiavano i viandanti prima di un lungo viaggio.

Che la strada ti esca incontro,
che il vento soffi sempre alle tue spalle,
che il sole brilli forte sul tuo viso,
che le piogge cadano dolcemente sui tuoi campi,
e fino a che non ci incontreremo di nuovo,
che Dio ti custodisca nel palmo della Sua mano.

 

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Ed ecco a voi il blog!

Ci sono cose nella vita che prima o poi ti viene voglia di fare. Non sei proprio sicuro che saranno piacevoli però, in ogni caso, c’è questa specie di voce interiore, questo istinto irrefrenabile che ti dice, provaci, provaci… Andare in un centro benessere, mangiare in un ristorante africano, andare a teatro a vedere un’opera lirica. E’ buffo che quando siamo piccoli e gli altri – i grandi – ci dicono “attento, è pericoloso, ti fai male, non fare questo e non fare quello” quell’istinto di cui sopra ci porta a provare questa cosa in prima persona e ad ignorare le esperienze e quindi i consigli altrui. Quella voce che ci porta inevitabilmente a mettere le dita nella presa della corrente, ad assaggiare le more ancora rosse oppure a fare pipì contro vento e via dicendo.

Il livello di maturità, potremmo dire, è inversamente proporzionato alla curiosità del provare nuove cose. Da ragazzini siamo curiosi e incoscienti e quindi proviamo, ci buttiamo, audaci ed incoscienti. Crescendo tendiamo ad essere più prudenti, più avveduti e decisamente più pigri. Invece, come dico spesso ai miei figli, bisogna provare. Poi magari non ti piace, ma non puoi dirlo prima. Oddio, mica sempre vero.

Ad esempio, non mi devo buttare da un ponte per cinquanta metri legato ad un elastico per sapere che il Bungee Jumping non è e non sarà mai lo sport che fa per me. Oppure, che so, non devo per forza frequentare un corso di Burlesque, per essere certo che difficilmente avrò mai gli stessi problemi in cui è incorso il buon Marrazzo. Però, diciamo che è quasi sempre vero. E fra le cose, che prima o poi nella vita mi andava di fare, c’era anche quella di aprire un blog.

Se ne sentiva davvero la mancanza? C’era proprio tutta questa esigenza? Dovevo proprio? Neanche il mio pur grande amor proprio mi porterebbe a dare una risposta affermativa. Per me che scrivo e per i frequentatori delle mie note di FB cambierà poco o nulla. Però l’idea di avere un luogo unico in cui riunire tutte le mie cose mi intrigava. Per questo intanto ho ripreso le vecchie note (quelle che a mio insindacabile giudizio lo meritavano) e d’ora in poi proseguirò lì!

Prima di cominciare mi sento almeno di rassicurare che nel blog cercherò di tenere a mente un pensiero guida, la massima del mio caro Ludwig: “Tutto ciò che si può dire lo si deve dire chiaramente. Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.”