L’abito e il monaco

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C’erano un monaco e un abito che sul far della sera cominciarono un dialogo, apparentemente surreale. Il monaco chiese: “Caro abito, io sto in convento, ma tu, dove abiti?”

Quando si è giovani, molto giovani, quando si è in preda alla furia iconoclasta dell’adolescenza, si tende ai grandi obiettivi ideali. Only the good die young cantava Billy Joel. E infatti è così. Quello è il periodo del bianco e nero, dei buoni e cattivi, dei noi e loro. E’ il tempo delle grandi passioni, radicali, esclusive, delle grandi appartenenze. E’ anche il tempo dei grandi slanci di generosità, perché ancora non è ben chiaro l’io e quindi è utile, anzi quasi indispensabile, il noi. Il tempo delle contrapposizioni forti è il tempo dell’essere contro l’apparire. Della ricerca di autenticità, contro tutto ciò che è forma, che è esteriore, vuoto, ipocrita.

Ma l’abito, come sua abitudine, non rispose e chiese: “scusa monaco, ma se non ti faccio io, tu, esattamente, chi ti fai?”

Poi si cresce. Il bianco e il nero si incontrano e si toccano e lo spettro dei colori si arricchisce di mille sfumature. Qualcuno in realtà resta adolescente, vorrebbe che le cose continuassero ad essere semplici ed univoche, i buoni da una parte i cattivi dall’altra, ma la realtà è sempre più complicata delle nostre schematizzazioni. E così si comincia a capire che la forma è sostanza, che l’apparire fa parte dell’essere e ciò che sembriamo, ciò che mostriamo non è tutto, ma fa comunque parte di noi. E questo vale per le persone e vale per le aziende che si rifanno il look con nuovi marchi e nuovi loghi (a proposito di sfumature, c’è addirittura chi fa mettere le calze verdi alle proprie dipendenti…)

Il monaco, con aria perplessa, rispose all’abito: “Non capisco quello che dici. Io non abito mica qui!”

Capiamo che aveva ragione Kant. Esiste il noumeno, la cosa in sè, ma quello che possiamo conoscere è il fenomeno, è ciò che appare ai nostri occhi, alla nostra mente. Anche chi vuole essere autentico, chi mira all’interiorità, alla sostanza delle cose, deve arrendersi a questo dato di fatto: siamo quello che mostriamo. E anche chi si sforza di mostrare un volto diverso da quello che è (e ce ne sono tanti e di diversi tipi), in realtà mostra la sua ambiguità, la sua falsità. E quindi mostra quello che è. L’abito fa il monaco, contrariamente a quanto pensavo qualche anno fa, eccome se lo fa. Il guaio è che a vent’anni non hai ancora tutti i codici per capire bene di che tipo di abito si tratta e puoi cadere in errore, puoi farti raggirare. Con qualche anno in più capisci un po’ meglio il vestito e la stoffa di chi lo indossa.

L’abito però aveva un dubbio. “Caro monaco, io ancora non ho capito: ma tu, sei il principato o quell’altro, quello di Baviera?”

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