“…andiamo via adesso, a comprare un metro di paradiso a prendere un secchio, per buttarci acqua fresca sul viso a pensare a un figlio e a un albero di Natale. Andiamo via amore, a mettere a posto la nostra stanza, a starci vicino, quando trovarci vicino non è abbastanza, a chiuder la porta, perché non andiamo a casa. Andiamo a casa”
Qual è il “nostro” posto? Dov’è quel luogo che possiamo dire essere “casa”? Chi sono quelli che quando arrivano al suono di tromba, in groppa a sfavillanti destrieri, possiamo tirare un sospiro di sollievo, dicendo “arrivano i nostri”? Chi sono i “nostri”?
Due notizie di cronaca ci hanno colpito violentemente in questi giorni. Il ragazzo mussulmano che preferisce farsi uccidere da quelli che dovrebbero essere “suoi” (connazionali, correligiosi, nati e cresciuti a fianco a lui, vicini di casa) per rimanere vicino alla sue amiche “straniere” ed il ragazzo nigeriano che deve fuggire dagli orrori di casa sua per venire poi a morire in un paese straniero, per mano di uno di noi.
Due notizie che mettono in crisi i nostri concetti di appartenenza e ci fanno vacillare le idee o forse sarebbe meglio dire i preconcetti che abbiamo. Ha senso ancora parlare di “casa”? E’ lecito aspettare l’arrivo dei “nostri”? Forse ha ragione chi si sente cittadino del mondo, senza patrie per cui avere nostalgie o eserciti di cui far parte.
Personalmente, come ho già scritto in altri post, ho moltissime difficoltà a sentirmi appartenente ad un “noi”, di qualsiasi tipo. Mi sento stretta qualsiasi classificazione, mi dà un fastidio epidermico ogni inquadramento: non credo più nell’arrivo dei nostri. Al contrario continua a piacermi molto il concetto di casa. Mi piace sentire di appartenere ad un luogo. Mi piace talmente tanto che ne ho tante e l’una non è in concorrenza con l’altra. Ma forse perché è vero che la casa è dov’è il cuore. E il cuore delle persone che amo è il luogo a cui voglio appartenere.
“È bello qualcosa che, se fosse nostro, ci rallegrerebbe, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro”.
Così diceva Umberto Eco, così la intendo io l’appartenenza. Una visione utopica, insomma.
Bellissimo!
Proprio un bel post, mi ci riconosco tanto. E bella anche la frase di Eco|
Sì, molto bella!
Ho letto le tue parole, ho iniziato a canticchiare la melodia. Direi che ci sta proprio bene 🙂
Home – is where I want to be
But I guess I’m already there
I come home – she lifted up her wings
Guess that this must be the place
Partendo dal punto che fai riferimento ai fatti di cronaca, beh, anch’io, è già da un po’ che non mi riconosco in questa Italia o più genericamente in questo “Stato di cose”. Prendo spunto dagli animali, resto ferma nella mia tana o emigro. Il luogo lo creiamo noi, e quando i fattori esterni interferiscono (e i fatti di cronaca sono più che gravi) con l’armonia del nostro luogo, allora è il caso di agire, ognuno come può.
“Mi piace fotografare #TAG”… lo trovi qui https://papillon1961.wordpress.com/2016/07/10/mi-piace-fotografare-tag/. Un saluto