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59 e sto?

E così siamo arrivati alla soglia di un’altra cifra tonda.  Che quasi, quasi potrebbe essere conveniente stoppare il cronometro, lasciare che il tempo continui ad andare, fermando il conteggio qui, come se il resto non contasse. Come quando a sette e mezzo decidi che è meglio stare, piuttosto che sfidare la sorte e rischiare di sballare.

Il bello del blog (in fondo la sua principale ragion d’essere) è il poter raccogliere, come in una libreria, i pensieri e le emozioni del momento così da renderle disponibili anche per il futuro. Per uno smemorato come me, questa cosa non ha prezzo! E così ad esempio posso andarmi a ritrovare quello che scrivevo esattamente dieci anni fa, anche lì alla soglia dell’ultimo anno di un decennio.

Certo, 49 suonava bene, decisamente meglio di 59. Ma se allora avevo una lista di cose da fare prima dei cinquanta, stavolta non mi pongo obiettivi particolari. Certamente però, rimanendo nella metafora del 7 e mezzo, non mi va di “stare”. Se anche fosse possibile, non sarebbe desiderabile. Con quest’anno si chiude un decennio molto bello, pieno di viaggi (ermeneutici e non), relazioni, affetti, soddisfazioni, ma chi dice che il prossimo non lo sarà altrettanto? Con in più lo sconto ai supermercati e ai musei. Vedete che c’è sempre un aspetto positivo?

In fondo è la solita differenza tra ottimisti e pessimisti. Il grande Flaiano diceva che in realtà il pessimista è solo un ottimista più avveduto, ma invece, considerando che comunque vada la vita dell’ottimista e quella del pessimista finiscono allo stesso modo, almeno noi ottimisti ci saremo goduti il viaggio. E questo viaggio avrà pure tappe difficili, momenti bui e complicati, ma ne vale sempre la pena: andare, proseguire nel conteggio, aspettare una nuova alba per scoprire cosa ci riserva la tappa successiva.

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Arthur’s Theme

Arturo è una di quelle persone che quando hai la fortuna di incontrarle, possono cambiarti il colore delle giornate. Ci siamo conosciuti per caso, era relatore in un convegno, ho pensato che sarebbe stato bello farlo conoscere ai miei figli, ai miei amici, ai colleghi. Perché Arturo ha qualcosa da dire e ti conquista subito. Impossibile non starlo a sentire.

Arturo ha la capacità di spostare l’attenzione: da ciò che manca a ciò che c’è. Da quello che non hai a quello che invece possiedi. Per far questo gioca con le parole, perché come dice lui (ma non me ne voglia, prima di lui, anche il mio amico Wittgenstein), è il linguaggio che crea il pensiero e non viceversa, come saremmo tentati di pensare. La ricchezza delle parole è ricchezza di pensiero.

Tutto qui, direte voi? Tutto qui. Perché concentrarsi su quel che si è, su quel che si ha, ti fa scoprire una forza e una ricchezza inesauribile, inimmaginabile e ti fa compiere imprese straordinarie. Come entrare nella nazionale di calcio, diventare un grande karateka, andare sullo skateboard e mi ha detto, recentemente, far parte anche della nazionale di golf, la sua nuova passione. Il tutto questo scrivendo libri, diventando padre, andando a raccontare in giro la sua vita straordinaria. E’ proprio vero che siamo tutti i limiti che superiamo, come cantano i negramaro e come ama ripetere quella saggia donna di mia figlia.

Ah, a proposito, Arturo è nato con una sola gamba, ma come dice lui non è un dis-abile. Eventualmente, se proprio dovesse definirsi, si direbbe pro-abile. Se vi capita (ha diversi canali social) seguitelo, perché ha qualcosa da raccontare a ognuno di noi. Oppure leggete il suo libro.

Arthur he does as he pleases. All of his life, he’s masked his choice and deep in his heart, he’s just, he’s just a boy. Living his life one day at a time and showing himself a really good time. Laughing about the way they want him to be!

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Più libri, più liberi

La pubblicità è l’anima del commercio, si diceva tempo fa. E in effetti, soprattutto nell’epoca dell’immagine, se non ti fai vedere, se non ti fai conoscere, di fatto, non esisti. Ora, alzi la mano chi prima di questa querelle mediatica conosceva la casa editrice “Passaggio al bosco”? Esatto! Nessuno. E probabilmente così sarebbe continuato ad essere se Zerocalcare non si faceva prendere dagli scrupoli di condividere lo spazio fieristico a Più libri, più liberi di questi giorni.

Non entro nel merito della scelta. I parenti te li trovi, gli amici te li scegli. Non so i colleghi di fiera se siano più assimilabili ai primi o ai secondi, ma in ogni caso partecipare alla stessa manifestazione non significa avere lo stesso pensiero o anche solo avere la stessa visione delle cose. Altrimenti non si potrebbe andare più allo stadio, per non dare credito agli ultrà. O a un corteo per non essere assimilati a eventuali manifestanti violenti.

Anche io, come i Blues Brothers, odio i nazisti dell’Illinois, ma non si può avere paura dei libri, non si possono censurare le idee, anche le più terribili, le più nefaste: bisogna combatterle con le opinioni, argomentando. Lasciamo agli altri il bruciare i libri!

Anzi, dirò di più, citiamole le assurdità che dicono, facciamo vedere i filmati del mascellone che spezza le reni alla Grecia o che dichiara guerra alle plutocrazie occidentali. Una risata vi seppellirà! Altro che censurarli, sputtaniamoli con le loro stesse assurdità. Perché comunque sia la conoscenza è la premessa della libertà, laddove l’ignoranza è invece il presupposto dell’ignoranza.

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Tu ascolti, loro contano

Non che ce ne fosse alcun dubbio, ma vederlo scritto nero su bianco fa una certa impressione. Se aprite Spotify, ormai compagno inseparabile delle mie (ma non credo solo mie) giornate, lo dice chiaramente: tu ascolti, noi contiamo. E da lì via ad elencarti tutto quello che hai ascoltato quest’anno: quante ore, anzi quanti minuti, che tipo di musica preferisci, quali autori, quali brani. E senza dubbio Amazon potrebbe fare lo stesso per gli acquisti. Ormai queste piattaforme ne sanno più di noi.

Il ché è anche accettabile in generale. Tanta gente ne sa più di me di economia o di politica. Il mio amico Filippo al liceo ne sapeva più di me in ogni materia. Mai stato invidioso delle conoscenze altrui. Caso mai ammirato, ma sinceramente mai invidioso. Forse, banalmente, sono troppo presuntuoso per esserlo!

Ad ogni modo, il punto non è questo. Il punto è che questi colossi ne sanno più di noi, su di noi! Conoscono le nostre preferenze al punto che riescono ad anticipare i nostri desiderata, proponendoci le nuove uscite che ancora non conosciamo, ma che sicuramente apprezzeremo. D’altra parte cosa possiamo fare per, eventualmente, contrastare questo processo? Assolutamente nulla! Siamo geolocalizzati, siamo ascoltati, monitorati, clusterizzati in milioni di modi, che neanche immaginiamo. Ed è un processo irreversibile. Tutto ciò ha un ché di inquietante!

A volte però anche l’intelligenza artificiale vuole strafare. Va bene che conosci i miei gusti, va bene che sai quali e quanti autori ho ascoltato, per quanto tempo, ma cosa ti fa pensare di arrivare, da questo, a conoscere quanti anni ho? Forse come dice mio fratello è da quando siamo piccoli che in realtà ho quest’età, però, almeno anagraficamente, cara la mia saputella intelligenza artificiale, stavolta hai toppato!

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Corsi e ricorsi

Il 23 novembre del 1980, esattamente 45 anni fa, all’Olimpico si giocava un Lazio Lecce. Me lo ricordo perché ho questa strana attitudine, un po’ autistica, per cui non mi ricordo un fico secco, ad esclusione delle partite della mia Lazio.

Poi me lo ricordo perché solitamente a quel tempo andavo allo stadio con mio padre. Erano anni difficili, la Lazio era stata appena retrocessa, ma noi eravamo comunque abbonati, come sempre. Quella domenica però vennero allo stadio anche mio fratello e addirittura mia madre. A memoria mia, la prima e l’ultima volta. 

Ma me lo ricordo soprattutto perché quella sera ci fu il terremoto dell’Irpinia. E infatti con un po’ di macabra ironia demmo la colpa alla presenza allo stadio di mamma.

Corsi e ricorsi, la storia a volte si ripete, ma mai allo stesso modo (e per fortuna, direi!). 45 anni dopo mio fratello ed io eravamo sempre allo stadio, c’era mio figlio e mia nipote, per lei prima volta allo stadio. Allora pareggiammo 2 a 2, stasera abbiamo vinto 2 a 0. Soprattutto non c’è stato nessun terremoto. Direi che stavolta è andata decisamente meglio!

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L’ultimo desiderio

La vicenda delle gemelle Kessler e la loro scelta di essere insieme fino alla fine ha lasciato il segno in ognuno di noi. C’è chi la difende, chi la critica, chi è d’accordo però, chi si indigna e chi non giudica. In ogni caso non lascia indifferenti, forse per la notorietà dei soggetti, forse per il fatto che sia stata una scelta condivisa da due persone (se fossero stati due coniugi forse sarebbe stato lo stesso), per l’assenza di un qualche motivo medico accertato, o semplicemente per la lucidità e la lunga pianificazione che l’ha preceduta (si erano premunite persino di dare disdetta delle utenze!).

Se sia per questi motivi o per altri, in ogni modo, una scelta che non può lasciare distaccati. Che anche nel doveroso (a mio avviso) rispetto, ti porta inevitabilmente a prendere una posizione. Ovviamente abbiamo letto penso tutti le filippiche di parte, di chi esalta la libera scelta consapevole e di chi al contrario si appella alla inviolabile sacralità della vita. Ma volendo fare un’estrema sintesi delle varie argomentazioni per l’uno o per l’altro schieramento, di fondo potremmo ridurci a una semplice domanda. Siamo gli assoluti ed esclusivi padroni della nostra vita? Pur con le dovute sfumature, dalla risposta a questa domanda si decide con quale schieramento riconoscersi.

Possiamo discutere sul significato della vita in sé, sul valore di una vita che non è più performante, che non è più utile. Sul senso della malattia, sulla fatica della sofferenza, sul peso (inteso come importanza, ma anche al contrario, di fardello, di affanno) che possiamo arrecare alla società e a chi ci circonda. Ma alla fine, è inevitabile, si ritorna a quella domanda lì. E probabilmente ognuno di noi, in cuor suo ha una risposta.

Per me la risposta è negativa. Non siamo padroni della nostra vita, non abbiamo scelto noi di esserci, nessun altro animale sulla terra penserebbe mai di esserlo: per ogni altro animale la morte è una possibilità, un evento naturale, mai una scelta. Non lo siamo per coloro che ci circondano, perché anche l’uomo più solo su questa terra sarà sempre un noi, prima di essere un io. Non lo siamo perché non siamo solamente un cumulo di cellule destinate a dissolversi.

Ma questo è quello che penso io. E allo stesso modo qualcun altro che la pensa in modo diverso avrà le sue ragioni che vanno rispettate come vorrei lo fossero le mie.

Mi rimarrà una curiosità. In punto di morte i condannati esprimevano un ultimo desiderio: nessuno dovrebbe avere come ultimo desiderio quello di morire perché l’ultimo desiderio è l’ultima risorsa per restare attaccati alla vita. E chissà quale sarà stato il loro.

And you can see them there, on Sunday morning. They stand up and sing about what it’s like up there.
They call it paradise, I don’t know why. You call someplace paradise. Kiss it goodbye

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Consigli di lettura non richiesti. 38 / Pizzolato, Harper, Cram

A San Martino ogni mosto diventa vino! Vi consiglierei volentieri dei rossi novelli, tipici di questo periodo, ma non sono così esperto da offrire suggerimenti. Adoro il vino novello e in questo periodo quindi ne approfitto per assaggiarne diversi, ma al di là del beaujolais nouveau non saprei quale consigliare. Quelli che invece mi sento di suggerire sono i libri, che come il buon vino, non invecchiano e sono buoni da gustare in qualsiasi stagione dell’anno. Poi tra poco arriverà Natale e qualche idea regalo può sempre essere utile. Ecco dunque i consigli (rigorosamente non richiesti) di questa volta.

Cominciamo con un thriller mozzafiato che vi terrà incollati alle pagine fino alla fine. Nic Pizzolato ci porta nelle strade di Galveston, in Texas dove un gangster cerca di nascondersi dalla vendetta dei suoi complici, con la strana compagnia di una ex prostituta e sua sorella di tre anni. Vicenda molto originale, che si svolge nel passato, nel racconto del protagonista ormai prossimo alla fine della sua avventura. Da leggere tutto d’un fiato!

Ci spostiamo poi nell’assolata California, nella Los Angeles dei segreti impenetrabili di Hollywood. In Tutti Sanno, Jordan Harper racconta la storia di una PR che deve coprire le magagne delle star, evitando scandali e pubblicità negative. Finché verità e menzogne non si confondo al punto che la cronaca da rosa diventa nera, con una serie di omicidi collegati fra loro che mettono seriamente in pericolo la stessa protagonista. Anche da questo romanzo non riuscirete a staccarvi fino alla fine!

Il terzo consiglio è per Buffy Cram ed il suo C’ero una volta, una storia molto singolare, ambientata negli anni 70, dove una madre single porta sua figlia da una comune ad un’altra, attraverso l’America dei figli dei fiori, facendola passare per una sensitiva capace di leggere il futuro. La bambina pirata, con la benda nell’occhio, ormai cresciuta ripercorre la sua storia, raccontando le strane vicende che l’hanno portata a crescere da sola, prendendosi lei cura della mamma, almeno fin quando ha potuto. Una storia cruda e tenera insieme, un romanzo di formazione originale, ma davvero bello.

E buona lettura cari viaggiatori ermeneutici!

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Fotografie

In tante esistenze niente è più forte del passato, dell’innocenza perduta e degli amori svaniti. Niente ci commuove più del ricordo delle occasioni mancate e del profumo della felicità che ci siamo lasciati sfuggire. E niente più delle vecchie fotografie cristallizza le emozioni e ce le preserva per i tempi futuri, fissando insieme alle immagini i ricordi, le situazioni, le gioie e i dispiaceri.

Poi però, insieme alle tue foto e a quelle di chi non c’è più, ti ritrovi fra le mani quelle dei tuoi figli piccoli. E allora tutto prende un altro sapore.

Avere un figlio è un antidoto alla nostalgia e alla freschezza avvizzita. Avere un figlio ci obbliga a liberarci di un passato troppo pesante. Avere un figlio è la certezza che il passato non trionferà mai sul futuro.

Non torneranno più, le mille notti in bianco la gioventù al mio fianco Roby Baggio e l’autostop. Non torneranno più i miei vecchi polmoni, la naia tra i coglioni, scioperi e università…

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Ma st’educazione sessuale, ce serve o nun ce serve?

E così la Lega ha aggiunto un’altra perla alla collezione di minchiate risultati controversi raggiunti da questo governo. Le giovini anime dei fanciulli resteranno preservate dalle teorie transgender, dal virus della morale liquida, dal sesso sfrenato, immacolate come mamma le fece. Mamma e papà, in realtà. Che in effetti dovrebbero essere i primi depositari dell’educazione (anche) sessuale dei loro pargoli. Poi capita l’ennesimo femminicidio, compiuto magari da un bravo ragazzo, di buona famiglia e tutti a dire “bisogna fare educazione sessuale nelle scuole!”.

La mia generazione è cresciuta per lo più totalmente sprovveduta rispetto a queste tematiche: non se ne parlava a scuola né tantomeno in famiglia. Eppure non mi sembra abbiamo avuto chissà quali traumi. D’altra parte imparare l’affettività lo si fa ogni giorno, guardando le persone che ci circondano, non credo sia indispensabile parlarne alla stregua della geografia o della matematica. Però magari mi sbaglio. Mi sembra che si demandi alla scuola cose che dovrebbero essere trasmesse soprattutto nell’ambito familiare. E ripeto, non tanto con le parole, quanto nei fatti. Ma davvero il bullismo, l’inclusione, l’accettazione delle diversità dovrebbero essere imparate come si fa per le provincie o per le equazioni? Non sono piuttosto principi, insegnamenti, valori che si imparano vivendo in un certo contesto?

Che poi, con la facilità con cui chiunque (quindi mi immagino soprattutto degli adolescenti curiosi) può avere accesso a materiali pornografici, non sarà certo un’ora a scuola che potrà turbare gli animi o scandalizzare. Anzi, forse parlarne in un contesto diverso può se non altro far capire che quella è un’altra cosa: che l’affettività e la sessualità non si trovano su Pornhub. Insomma, non farei una guerra di religione sull’educazione sessuale nelle scuole, non credo ne valga la pena. Non penso sia risolutiva, ma certamente non è dannosa. Soprattutto non credo sia uno di quegli argomenti in cui questo governo di cortigiani (si può dire cortigiani?) possa esprimere un parere sensato.

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Légami o legàmi?

Siamo animali sociali. Chi più, chi meno ovviamente, ma nel nostro DNA c’è scritto che non siamo fatti per stare soli. Fin dalla nascita sviluppiamo delle relazioni, dei legami, che ci uniscono ad altri esseri umani, che ci fanno dipendere da loro. Crescendo, se ci troviamo in un contesto normale (ammesso che ne esitano), articoliamo questi legami in una maniera sana, fatta di relazioni paritarie o comunque bidirezionali, che ci aiutano e aiutano gli altri a sviluppare le proprie attitudini.

In un contesto normale dicevo, questi legami non ci opprimono, perché al contrario si evolvono verso una maturità che ci porta ad essere indipendenti da essi. Indipendenti, ma non estranei, perché appunto abbiamo naturalmente bisogno di essere in relazione con gli altri. E dunque, insieme ai legami dell’infanzia, che rimarranno sempre dei punti fermi nella nostra vita, sviluppiamo nuove relazioni. le amicizie degli anni della scuola e poi quelle degli altri contesti in cui ci troviamo a vivere: quelle nate dalle passioni in comune, lo sport, la musica e poi il lavoro. E ovviamente le relazioni amorose, così totalizzanti da cambiare il corso delle nostre esistenze.

Ma come sottolineavo nel titolo, con quegli strani accenti, ci sono relazioni e relazioni. L’essere in collegamento, legati fra noi da un sentimento, a volte può diventare una prigione. Legami tossici, che ci vincolano, che ci opprimono con sensi di colpa e rimorsi, quando invece avremmo bisogno di un ossimoro: legami che non legano, relazioni paritarie, che nella loro intensità ci lasciano liberi, ci rendono autonomi, fanno crescere la nostra autostima rendendoci in grado di camminare da soli.

Ma come costruire questo ossimoro? Nelle relazioni con i genitori, con i figli, con il partner, con gli amici: quali e quanti sono i legami sani, quelli che non legano, ma rendono più liberi? Ce la possiamo fare o resta solo una splendida utopia? E come fare a distinguere un legame tossico da uno sano? Domande complicate, a cui però vorrei provare a dare una risposta semplice. Perché in fondo l’ermeneutica questo ci insegna: per tentare di capire la realtà che ci circonda bisogna complicare le situazioni semplici e poi insieme semplificare quelle complesse.

E la risposta semplice, quella che nel fondo di noi stessi conosciamo bene, pur se a volte non vogliamo ammetterla, è la felicità. Quel legame, il nostro essere in relazione con l’altra persona, ci rende felici? Se non è così c’è qualcosa che non va. Perché è vero che la felicità non può essere l’unico parametro della nostra vita, né l’unico obiettivo, ma è una bella cartina di tornasole. Poi possiamo – e a volte siamo obbligati a – rimanere connessi in relazioni che non ci fanno essere felici, ma almeno dovremmo riconoscerle. Almeno con noi stessi dovremmo smettere di fingere. Ma questo discorso vale soprattutto al contrario, per gli altri tipi di legami. Su quelli che ci rendono felici possiamo essere sicuri. Perché, come cantava Sheryl Crow, se ti rende felice, non può essere male.