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59 e sto?

E così siamo arrivati alla soglia di un’altra cifra tonda.  Che quasi, quasi potrebbe essere conveniente stoppare il cronometro, lasciare che il tempo continui ad andare, fermando il conteggio qui, come se il resto non contasse. Come quando a sette e mezzo decidi che è meglio stare, piuttosto che sfidare la sorte e rischiare di sballare.

Il bello del blog (in fondo la sua principale ragion d’essere) è il poter raccogliere, come in una libreria, i pensieri e le emozioni del momento così da renderle disponibili anche per il futuro. Per uno smemorato come me, questa cosa non ha prezzo! E così ad esempio posso andarmi a ritrovare quello che scrivevo esattamente dieci anni fa, anche lì alla soglia dell’ultimo anno di un decennio.

Certo, 49 suonava bene, decisamente meglio di 59. Ma se allora avevo una lista di cose da fare prima dei cinquanta, stavolta non mi pongo obiettivi particolari. Certamente però, rimanendo nella metafora del 7 e mezzo, non mi va di “stare”. Se anche fosse possibile, non sarebbe desiderabile. Con quest’anno si chiude un decennio molto bello, pieno di viaggi (ermeneutici e non), relazioni, affetti, soddisfazioni, ma chi dice che il prossimo non lo sarà altrettanto? Con in più lo sconto ai supermercati e ai musei. Vedete che c’è sempre un aspetto positivo?

In fondo è la solita differenza tra ottimisti e pessimisti. Il grande Flaiano diceva che in realtà il pessimista è solo un ottimista più avveduto, ma invece, considerando che comunque vada la vita dell’ottimista e quella del pessimista finiscono allo stesso modo, almeno noi ottimisti ci saremo goduti il viaggio. E questo viaggio avrà pure tappe difficili, momenti bui e complicati, ma ne vale sempre la pena: andare, proseguire nel conteggio, aspettare una nuova alba per scoprire cosa ci riserva la tappa successiva.

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Più libri, più liberi

La pubblicità è l’anima del commercio, si diceva tempo fa. E in effetti, soprattutto nell’epoca dell’immagine, se non ti fai vedere, se non ti fai conoscere, di fatto, non esisti. Ora, alzi la mano chi prima di questa querelle mediatica conosceva la casa editrice “Passaggio al bosco”? Esatto! Nessuno. E probabilmente così sarebbe continuato ad essere se Zerocalcare non si faceva prendere dagli scrupoli di condividere lo spazio fieristico a Più libri, più liberi di questi giorni.

Non entro nel merito della scelta. I parenti te li trovi, gli amici te li scegli. Non so i colleghi di fiera se siano più assimilabili ai primi o ai secondi, ma in ogni caso partecipare alla stessa manifestazione non significa avere lo stesso pensiero o anche solo avere la stessa visione delle cose. Altrimenti non si potrebbe andare più allo stadio, per non dare credito agli ultrà. O a un corteo per non essere assimilati a eventuali manifestanti violenti.

Anche io, come i Blues Brothers, odio i nazisti dell’Illinois, ma non si può avere paura dei libri, non si possono censurare le idee, anche le più terribili, le più nefaste: bisogna combatterle con le opinioni, argomentando. Lasciamo agli altri il bruciare i libri!

Anzi, dirò di più, citiamole le assurdità che dicono, facciamo vedere i filmati del mascellone che spezza le reni alla Grecia o che dichiara guerra alle plutocrazie occidentali. Una risata vi seppellirà! Altro che censurarli, sputtaniamoli con le loro stesse assurdità. Perché comunque sia la conoscenza è la premessa della libertà, laddove l’ignoranza è invece il presupposto dell’ignoranza.

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Tu ascolti, loro contano

Non che ce ne fosse alcun dubbio, ma vederlo scritto nero su bianco fa una certa impressione. Se aprite Spotify, ormai compagno inseparabile delle mie (ma non credo solo mie) giornate, lo dice chiaramente: tu ascolti, noi contiamo. E da lì via ad elencarti tutto quello che hai ascoltato quest’anno: quante ore, anzi quanti minuti, che tipo di musica preferisci, quali autori, quali brani. E senza dubbio Amazon potrebbe fare lo stesso per gli acquisti. Ormai queste piattaforme ne sanno più di noi.

Il ché è anche accettabile in generale. Tanta gente ne sa più di me di economia o di politica. Il mio amico Filippo al liceo ne sapeva più di me in ogni materia. Mai stato invidioso delle conoscenze altrui. Caso mai ammirato, ma sinceramente mai invidioso. Forse, banalmente, sono troppo presuntuoso per esserlo!

Ad ogni modo, il punto non è questo. Il punto è che questi colossi ne sanno più di noi, su di noi! Conoscono le nostre preferenze al punto che riescono ad anticipare i nostri desiderata, proponendoci le nuove uscite che ancora non conosciamo, ma che sicuramente apprezzeremo. D’altra parte cosa possiamo fare per, eventualmente, contrastare questo processo? Assolutamente nulla! Siamo geolocalizzati, siamo ascoltati, monitorati, clusterizzati in milioni di modi, che neanche immaginiamo. Ed è un processo irreversibile. Tutto ciò ha un ché di inquietante!

A volte però anche l’intelligenza artificiale vuole strafare. Va bene che conosci i miei gusti, va bene che sai quali e quanti autori ho ascoltato, per quanto tempo, ma cosa ti fa pensare di arrivare, da questo, a conoscere quanti anni ho? Forse come dice mio fratello è da quando siamo piccoli che in realtà ho quest’età, però, almeno anagraficamente, cara la mia saputella intelligenza artificiale, stavolta hai toppato!

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L’ultimo desiderio

La vicenda delle gemelle Kessler e la loro scelta di essere insieme fino alla fine ha lasciato il segno in ognuno di noi. C’è chi la difende, chi la critica, chi è d’accordo però, chi si indigna e chi non giudica. In ogni caso non lascia indifferenti, forse per la notorietà dei soggetti, forse per il fatto che sia stata una scelta condivisa da due persone (se fossero stati due coniugi forse sarebbe stato lo stesso), per l’assenza di un qualche motivo medico accertato, o semplicemente per la lucidità e la lunga pianificazione che l’ha preceduta (si erano premunite persino di dare disdetta delle utenze!).

Se sia per questi motivi o per altri, in ogni modo, una scelta che non può lasciare distaccati. Che anche nel doveroso (a mio avviso) rispetto, ti porta inevitabilmente a prendere una posizione. Ovviamente abbiamo letto penso tutti le filippiche di parte, di chi esalta la libera scelta consapevole e di chi al contrario si appella alla inviolabile sacralità della vita. Ma volendo fare un’estrema sintesi delle varie argomentazioni per l’uno o per l’altro schieramento, di fondo potremmo ridurci a una semplice domanda. Siamo gli assoluti ed esclusivi padroni della nostra vita? Pur con le dovute sfumature, dalla risposta a questa domanda si decide con quale schieramento riconoscersi.

Possiamo discutere sul significato della vita in sé, sul valore di una vita che non è più performante, che non è più utile. Sul senso della malattia, sulla fatica della sofferenza, sul peso (inteso come importanza, ma anche al contrario, di fardello, di affanno) che possiamo arrecare alla società e a chi ci circonda. Ma alla fine, è inevitabile, si ritorna a quella domanda lì. E probabilmente ognuno di noi, in cuor suo ha una risposta.

Per me la risposta è negativa. Non siamo padroni della nostra vita, non abbiamo scelto noi di esserci, nessun altro animale sulla terra penserebbe mai di esserlo: per ogni altro animale la morte è una possibilità, un evento naturale, mai una scelta. Non lo siamo per coloro che ci circondano, perché anche l’uomo più solo su questa terra sarà sempre un noi, prima di essere un io. Non lo siamo perché non siamo solamente un cumulo di cellule destinate a dissolversi.

Ma questo è quello che penso io. E allo stesso modo qualcun altro che la pensa in modo diverso avrà le sue ragioni che vanno rispettate come vorrei lo fossero le mie.

Mi rimarrà una curiosità. In punto di morte i condannati esprimevano un ultimo desiderio: nessuno dovrebbe avere come ultimo desiderio quello di morire perché l’ultimo desiderio è l’ultima risorsa per restare attaccati alla vita. E chissà quale sarà stato il loro.

And you can see them there, on Sunday morning. They stand up and sing about what it’s like up there.
They call it paradise, I don’t know why. You call someplace paradise. Kiss it goodbye

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Fotografie

In tante esistenze niente è più forte del passato, dell’innocenza perduta e degli amori svaniti. Niente ci commuove più del ricordo delle occasioni mancate e del profumo della felicità che ci siamo lasciati sfuggire. E niente più delle vecchie fotografie cristallizza le emozioni e ce le preserva per i tempi futuri, fissando insieme alle immagini i ricordi, le situazioni, le gioie e i dispiaceri.

Poi però, insieme alle tue foto e a quelle di chi non c’è più, ti ritrovi fra le mani quelle dei tuoi figli piccoli. E allora tutto prende un altro sapore.

Avere un figlio è un antidoto alla nostalgia e alla freschezza avvizzita. Avere un figlio ci obbliga a liberarci di un passato troppo pesante. Avere un figlio è la certezza che il passato non trionferà mai sul futuro.

Non torneranno più, le mille notti in bianco la gioventù al mio fianco Roby Baggio e l’autostop. Non torneranno più i miei vecchi polmoni, la naia tra i coglioni, scioperi e università…

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Légami o legàmi?

Siamo animali sociali. Chi più, chi meno ovviamente, ma nel nostro DNA c’è scritto che non siamo fatti per stare soli. Fin dalla nascita sviluppiamo delle relazioni, dei legami, che ci uniscono ad altri esseri umani, che ci fanno dipendere da loro. Crescendo, se ci troviamo in un contesto normale (ammesso che ne esitano), articoliamo questi legami in una maniera sana, fatta di relazioni paritarie o comunque bidirezionali, che ci aiutano e aiutano gli altri a sviluppare le proprie attitudini.

In un contesto normale dicevo, questi legami non ci opprimono, perché al contrario si evolvono verso una maturità che ci porta ad essere indipendenti da essi. Indipendenti, ma non estranei, perché appunto abbiamo naturalmente bisogno di essere in relazione con gli altri. E dunque, insieme ai legami dell’infanzia, che rimarranno sempre dei punti fermi nella nostra vita, sviluppiamo nuove relazioni. le amicizie degli anni della scuola e poi quelle degli altri contesti in cui ci troviamo a vivere: quelle nate dalle passioni in comune, lo sport, la musica e poi il lavoro. E ovviamente le relazioni amorose, così totalizzanti da cambiare il corso delle nostre esistenze.

Ma come sottolineavo nel titolo, con quegli strani accenti, ci sono relazioni e relazioni. L’essere in collegamento, legati fra noi da un sentimento, a volte può diventare una prigione. Legami tossici, che ci vincolano, che ci opprimono con sensi di colpa e rimorsi, quando invece avremmo bisogno di un ossimoro: legami che non legano, relazioni paritarie, che nella loro intensità ci lasciano liberi, ci rendono autonomi, fanno crescere la nostra autostima rendendoci in grado di camminare da soli.

Ma come costruire questo ossimoro? Nelle relazioni con i genitori, con i figli, con il partner, con gli amici: quali e quanti sono i legami sani, quelli che non legano, ma rendono più liberi? Ce la possiamo fare o resta solo una splendida utopia? E come fare a distinguere un legame tossico da uno sano? Domande complicate, a cui però vorrei provare a dare una risposta semplice. Perché in fondo l’ermeneutica questo ci insegna: per tentare di capire la realtà che ci circonda bisogna complicare le situazioni semplici e poi insieme semplificare quelle complesse.

E la risposta semplice, quella che nel fondo di noi stessi conosciamo bene, pur se a volte non vogliamo ammetterla, è la felicità. Quel legame, il nostro essere in relazione con l’altra persona, ci rende felici? Se non è così c’è qualcosa che non va. Perché è vero che la felicità non può essere l’unico parametro della nostra vita, né l’unico obiettivo, ma è una bella cartina di tornasole. Poi possiamo – e a volte siamo obbligati a – rimanere connessi in relazioni che non ci fanno essere felici, ma almeno dovremmo riconoscerle. Almeno con noi stessi dovremmo smettere di fingere. Ma questo discorso vale soprattutto al contrario, per gli altri tipi di legami. Su quelli che ci rendono felici possiamo essere sicuri. Perché, come cantava Sheryl Crow, se ti rende felice, non può essere male.

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Fallimento, battaglie giuste e sensi di colpa

Sun Tzu, ne L’arte della guerra, afferma che bisogna intraprendere solamente le battaglie che possiamo vincere. E in linea generale sono abbastanza d’accordo con lui. Come già sapete, cari viaggiatori ermeneutici, sono fondamentalmente pigro, figuriamoci quindi se ho voglia di impegnarmi in battaglie di principio, il cui esito è inesorabilmente scontato. Eppure.

Eppure, anche nella mia trascendentale pigrizia, riconosco che ci sono battaglie che vale la pena intraprendere a prescindere dal possibile esito.

La Flotilla era un’idea fallimentare. E questo, fin dall’inizio era il suo esito scontato: il fallimento. Ma solo attraverso questo fallimento è emersa un’assurdità: l’idea che portare cibo e acqua a 2 milioni di persone che muoiono di fame sia un atto criminale.

Non sono andati a portare viveri, ovviamente non era quello l’obiettivo. Sono andati di fronte alla nostra cattiva coscienza, di fronte ai sensi di colpa dell’occidente per costringerci ad aprire gli occhi.

Un estremo, disperato, fallimentare tentativo per risvegliare le coscienze. Quando il potere normalizza l’orrore, ovvero rende ragionevole ciò che in realtà sarebbe assurdo, l’unico gesto che rimane è fallire così clamorosamente da rendere assurdo ciò che dovrebbe essere ragionevole.

Non lo so se questo fallimento aiuterà a risolvere la situazione. Non so se contribuirà a fermare il massacro. Invidio molto quelli che in questa situazione hanno certezze e sono sicuri di sapere dove sia la ragione e il torto. Ma questo tentativo andava fatto.

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L’argomento Croce Armani

Esattamente 40 anni fa (oddio mamma come vola il tempo!), giovane studente appena iscritto alla facoltà di filosofia, iniziai a frequentare le lezioni a Villa Mirafiori, la meravigliosa sede dell’Università, con professori che avevano fatto prima e o faranno parte in seguito dell’elite culturale e politica italiana. Giannantoni era stato deputato, insieme a lui Capizzi era al centro del dibattito politico (ovviamente soprattutto a sinistra), De Mauro divenne ministro qualche anno dopo, anche Colletti fu deputato. Per non parlare del mio compianto professor Olivetti, con cui mi sarei laureato qualche anno dopo: una delle menti più brillanti che abbia mai conosciuto. Insomma, non potevamo certo lamentarci del livello della nostra Università.

Eppure proprio in quei primi giorni cominciai a sentire una tesi (non ricordo se formulata da De Mauro o forse da Garroni, che era il titolare della cattedra di Estetica) non proprio lusinghiera sul livello culturale del nostro Paese: il cosiddetto argomento Croce Armani, secondo cui, dal dopoguerra fino a quei giorni lì, le uniche eccellenze culturali che il nostro Paese avesse offerto all’Europa e al mondo erano state Benedetto Croce e Giorgio Armani.

Non so se fosse un iperbole, un’esagerazione che esprimeva la voglia di spingere noi giovani virgulti a dare qualcosa in più, a non accontentarci delle strade già battute o esprimesse davvero la cruda verità. E francamente non sono neanche in grado di dire se 40 anni dopo possiamo aggiungere qualcuno appaiandolo e questi due grandi giganti. In ogni caso mi tornava oggi in mente questo argomento per sottolineare la grandezza di un personaggio che, al di là del suo campo specifico, ha davvero scritto la storia culturale del nostro Paese.

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La malattia del ritorno

E se ci venisse il dubbio di aver sbagliato una scelta importante? Se ci venisse la tentazione di pensare che la nostra vita sarebbe stata migliore scegliendo un’altra strada? Fino a quando va mantenuta la coerenza o forse meglio, la fedeltà ad una scelta, quando pensiamo sia errata?

Rivedendo una situazione a distanza di tempo, a volte a distanza di anni, il dubbio di aver intrapreso la strada sbagliata, può venire naturale. Alla luce di quello che è successo dopo, ovviamente, abbiamo molti elementi in più per valutare le situazioni. Elementi che al momento della scelta non avevamo o forse semplicemente avevamo valutato in modo superficiale e che ora invece assumono tutt’altro significato.

Ma ogni scelta è legata al qui ed ora. Potremmo anche ripercorrere le strade che ci hanno portato lì, potremmo forse anche ricostruire i percorsi e gli elementi che avevamo in quel momento e decidere che avremmo dovuto fare scelte diverse, ma sarebbe del tutto inutile. Perché prima di tutto noi non siamo più gli stessi. Perché noi siamo arrivati ad essere quello che siamo proprio sulla base delle scelte che abbiamo fatto e quindi è il primo presupposto ad essere diverso: noi, il soggetto che ha compiuto quella scelta.

Possiamo imparare dal passato, possiamo/dobbiamo imparare dalle scelte (anche, anzi soprattutto) sbagliate che abbiamo fatto, per farne di diverse. Ma non possiamo tornare indietro e cambiare quello che è stato. E infatti, tutto le volte che ci proviamo combiniamo disastri. Forse non è un caso che la parola nostalgia, etimologicamente, significa malattia del ritorno. L’illusione di tornare è un errore, una malattia.

Pennac dice che l’unica cosa certa del futuro è che non sarà come ce l’eravamo immaginato, ma paradossalmente questo vale anche per il passato. Non possiamo immaginarcelo diverso da quello che è stato. Possiamo farlo come esercizio di stile. Come quando raccontiamo delle favole, magari creando un lieto fine che non c’è stato. Ma probabilmente non ci sarebbe stato neanche se allora avessimo fatto scelte diverse e comunque non possiamo saperlo perché non saremmo noi, qui ed ora, ad analizzare quelle scelte. Saremmo altre persone.

Lasciamo stare il passato e impariamo a vivere l’oggi, con le sue miserie e le sue grandezze, con le giornate noiose e gli entusiasmi imprevisti. C’è ancora tanto da scrivere.

And the worst part of a good day is the one thing you don’t say
And you don’t know how but you wish there was some way
So you pull down the shades and you shut out the light
Because somehow we mixed up goodbye and goodnight