Ricongiungi a te, o Padre, tutti i tuoi figli ovunque dispersi. E’ una preghiera che si proclama tutte le settimane, in tutte le messe. Sembra un refuso storico, una richiesta anacronistica. La mente corre alle storie dei nostri nonni, a quelli che si imbarcavano verso il sud America o a quegli altri partiti in guerra e mai più tornati. Ma perché dovremmo pregere ancora per i fanti dell’Armir o per gli emigrati in Argentina? E’ senza dubbio una preghiera d’altri tempi, nata sotto altri cieli. Come cantava Lucio Dalla “nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino”, ma oggi, anche volendo, tra telefonini, satelliti, gps, uno non riuscirebbe a perdersi o a disperdersi neanche volendo!
O forse no. Forse, pur essendo nata per una problematica che non esiste più, quest’invocazione mantiene una sua attualità ed un suo significato anche oggi. I figli dispersi sono quelli che non trovano più la strada di casa. Quelli che si perdono nei sentieri interrotti, che non portano da nessuna parte. Quelli che perdono se stessi, prima ancora degli altri.
Non volevo scrivere nulla su questa vicenda di DJ Fabo. Se ne leggono tante, quasi tutte a sproposito. Forse anche lui si sentiva disperso e forse a modo suo ha cercato di ritrovare la strada di casa. Dal comodo salotto di casa penso che lo Stato non debba aiutare a morire. Piuttosto dovrebbe aiutare a vivere meglio. Ma pensare questo dall’esterno lascia un po’ il tempo che trova. Bisognerebbe trovarsi vicino ad una situazione simile, per poter dire cose sensate. Per questo mi ha toccato molto questo appello di questo ragazzo in una situazione analoga alla sua.
Tutti vorremmo che qualcuno ci ricongiungesse a prescindere dal dove, dal come, dal perché ci siamo persi. E’ bella questa fratellanza nella dispersione, perché la cosa più brutta di quando ci si perde è sentirsi soli. Quando da dispersi, diventiamo disperati. Ma qui invece, chi più chi meno, siamo tutti figli dispersi. E proprio per questo non siamo soli.
Lo so che l’ho già messa in qualche vecchio post, ma questa qui, stasera ci sta proprio bene.
Non esiste nessun manuale che parli del problema essenziale della manutenzione della motocicletta: tenere a quello che si fa. Questo è considerato di scarsa importanza, o viene dato per scontato. (“Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”)
Dicono che invecchiando si diventa più saggi. Dicono pure che, come il vino, invecchiando si migliora. Una bugia consolatoria talmente palese che non ha bisogno di ulteriori commenti: il vino invecchiato diventa aceto e noi da vecchi, siamo certamente peggio di noi da giovani. Io per esempio non mi trovo mica migliorato. Manco per niente. A calcetto non corro più come prima, sono meno veloce, meno resistente, meno potente. La testa dice una cosa, le gambe ne fanno un’altra. E meno male che invecchiano anche i miei compari del giovedì!
Ma anche sul discorso della saggezza avrei qualche dubbio. Ad esempio, sempre riferendomi al sottoscritto, mi accorgo di essere diventato molto più intollerante di un tempo. Cose che qualche anno fa non mi davano particolare fastidio, cose che quasi non notavo, adesso mi urtano i nervi. Non è mica segno di saggezza. No, no. Ed anzi, le ultime briciole di saggezza, legate probabilmente agli ultimi barlumi di giovinezza che albergano in un cinquantenne, sono proprio le resistenze interne che mi fanno evitare scenate senza senso, che mi fanno alzare il sopracciglio invece che la voce. Insomma, che evitano, per il momento, di trasformarmi in un vecchio brontolone e litigioso, esattamente come quei vecchi brontoloni e litigiosi che ho sempre detestato. Comunque, io vi ho avvertiti per tempo.
Una riprova di questo la ritrovo nelle piccolezze, perché è nelle piccolezze che si valutano le questioni. Ad esempio, nel modo di fare le cose. E’ evidente che ci sono infinite modalità di compiere qualsiasi gesto, dal più nobile al più banale, dal più importante a quello quotidiano. Ultimamente mi trovo (troppo) spesso a mettere attenzione al modo in cui le cose vengono fatte. E purtroppo mi trovo (troppo) spesso a pensare che la fretta, la disattenzione, la superficialità, ci porta a fare le cose a cazzo di cane, non esattamente nel modo più giusto in cui andrebbero fatte.
Non dico che dovremmo usare una stilografica per scrivere la lista della spesa o mettere il cappello da chef per fare una fettina in padella, però mi sembra che più andiamo avanti e più la modalità “organo riproduttivo di segugio” sia la regola e non l’eccezione del fare. Del resto l’usa e getta impera. Sembra (anzi, ne sono certo) che le cose siano pensate e realizzate già con una data di scadenza, fatte per non durare, né tanto meno per essere riparate. E non solo i vestiti di H&M (non me ne voglia la suddetta marca, ce ne sono anche di peggio, ma mi sembra quella più simbolica per indicare questo genere di cose) o i mobili di MondoCovenienza. Le cose che si leggono, i film che si vedono, la musica che si ascolta. E forse anche i sentimenti: del resto per diventare amici, basta un clik su facebook, il quale FB ci dà persino i consigli, proponendoci quelli che a suo avviso potrebbero essere amici nostri! Lo so, sembra un discorso nostalgico (e che volete, i cinquantanni si sentono), sembra la classica premessa per dire che invece una volta le cose erano meglio di oggi. Il classico discorso da vecchio brontolone appunto.
La realtà è che forse dobbiamo (perché uso il plurale? forse perché ho l’illusione di non pensarla solo io in questo modo?) semplicemente rivedere i parametri: la nostra vita si allunga, le distanze (quindi lo spazio e il tempo) si accorciano, le cose durano di meno. Forse è anche giusto (oltre che sano) cambiare unità di misura. Fosse semplice! Ma io non dico che un romanzo dev’essere per forza Guerra e Pace o che un’amicizia fatta oggi deve per forza durare tutta la vita. Non pretendo che il divano appena comprato duri per trent’anni o che una nuova canzone sia un capolavoro come Can’t find my Way Home. I capolavori escono fuori raramente, a volte anche una sola volta nella vita. Proprio per questo però a volte, al di là del cosa fai, è importante il come. Mangiare tutti i giorni caviale e champagne non è possibile e forse non sarebbe neanche gradevole. ma se la fettina in padella prima la condisci con aglio, rosmarino e aceto balsamico, se la metti su dopo che hai scaldato un po’ l’olio, se la fai cuocere senza bruciarla, alla fine è più buona. Bisogna tenerci a quello che si fa. In fondo anche i più grandi hanno scritto pezzi semplici, banali, orecchiabili. Ma allora, che almeno sia come Valerie.
Un giorno, sebbene i nostri ricordi siano una vela più lontana dell’orizzonte e il tuo ricordo sia una nave incagliata nella mia memoria, spunterà l’aurora per gridare con stupore vedendo i fratelli rossi all’orizzonte camminare gioiosi verso l’avvenire. (Ernesto Guevara)
C’è un qualcosa che ci appartiene dentro le strade che ci portano nei luoghi in cui ci sentiamo a casa. E’ come se la casa allargasse i suoi confini e cominciasse ad esserci molto prima di dov’è realmente. Un po’ come i ricordi. La memoria di un fatto comincia dai profumi, dai sapori, dai suoni che l’accompagnavano allora. Che quando risentiamo ci riportano indietro al momento in cui li abbiamo vissuti per la prima volta.
Le 5 e 30, Angelo sta alzando la serranda del bar, come ogni mattina. Una serranda pesante come i ricordi, che ogni mattina solleva sul cielo di Milano per provare a raccontarsi un futuro diverso. Raccontare il suo passato per spiegare, prima di tutto a se stesso, perché non doveva finire così. Delinea un invece, un come sarebbe dovuto essere. Che purtroppo non si è più realizzato.
Ed è quando non ritroviamo più i sapori, gli odori, i suoni della nostra memoria che cominciamo a dubitare dei fatti. Iniziamo a pensare che forse sono i nostri ricordi che sono fallaci, che in realtà ci stanno ingannando e che le cose non sono andate proprio come sembra a noi. E’ così che cominciamo a non trovare più la strada di casa.
Il primo ricordo arriva con Giovanni, che ogni mattina entra con la copia del Manifesto e comincia ad insultare un po’ tutti quanti. “Angelo, chi ce l’avrebbe detto eh? Fasci che si mascherano da comici! E comunisti che si mascherano da papi! Com’è che dicevamo? Impiccheremo l’ultimo Papa, con le budella dell’ultimo Re! Non si capisce davvero più nulla!”. La verità, caro Giovanni è che abbiamo perso quando abbiamo smesso di fare grandi sogni. Lottavamo per l’uguaglianza e ora ci vorremmo difendere da chi ha la pelle diversa dalla nostra. Lottavamo per la libertà e ora ci siamo abituati ad avere le strade piene di schiave. Volevamo abbattere lo stato ed ora ci accontenteremmo di non pagare le tasse.
Perché un fatto può essere interpretato in tanti modi. Tanti come può essere ricordato. Le spiegazioni però a volte servono poco. Non aiutano. Noi cerchiamo spiegazioni, cerchiamo ragioni, per trovare un senso, ma a volte più ragioni troviamo, più il senso ci sfugge. Rimane la rabbia per le nostre incapacità. Rimangono i rimpianti.
Poi entrano gli studenti e Angelo riesce finalmente a distrarsi, a non pensare. Il susseguirsi meccanico dei fatti impegna la mente e aiuta a concentrarsi sull’oggi. Ma basta una battuta, una voce più forte delle altre, una risata. Quanti anni avrai? Venti? Ventidue? Quanti ne aveva il mio Gabriele. Le barricate chiudono le strade, ma aprono le vie, questo pensavo allora. Mio padre partigiano mi regalò la voglia di libertà e il bisogno di impegnarmi per cambiare questo mondo marcio. Ed io invece cosa ti ho dato? Di tutti i sogni, di tutte le battaglie hai visto purtroppo solamente la parte finale, quando era rimasta solo la rabbia per la sconfitta.
Un errore rimane tale anche se lo vedi da lontano. Anche se questo lontano ha una distanza che non si misura in chilometri, ma in giorni o in anni. Un errore rimane tale anche se riusciamo a trovargli i motivi. Il tempo non accorcia la distanza, cancella i dettagli, con la pretesa di lasciare l’essenziale. Così però dimentica delle parti fondamentali, semplifica quando dovrebbe arricchire e così tradisce quello che fu.
Volevo evitarti i miei sbagli, volevo spianarti la strada perché avevo paura che ti saresti perso. Volevo darti tutto, ma non ti ho dato l’unica cosa che avrei davvero potuto regalarti, quella fiducia lucida ed incosciente che comunque sarebbe andata, noi ce l’avremmo fatta. E forse è per questo hai cercato dentro una siringa quello che non riuscivo a darti io.
“Buon giorno signor Angelo! Su con la vita, oggi voglio vederla sorridere, lo vede che bel sole che c’è fuori?” “Ciao principessa. Mi sei mancata in questi giorni. Ma sì, in fondo hai ragione tu, c’è il sole, ed è appena entrato nel mio bar!” Allora forse una speranza rimane. Se c’è ancora qualcuno che non si arrende alla realtà e ha il coraggio, la forza, l’incoscienza di provare a cambiare, allora forse non era tutto un errore.
Forse non troverò più la strada di casa, ma ancora c’è qualcuno che insegue i miei sogni. E anche se io non sono riuscito a viverli, questo non significa che fossero sbagliati.