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Premesse di felicità

Ci sono cascato di nuovo, cantava il simpatico (!) Achille Lauro. Eh sì, lo sappiamo, nonostante tutti i buoni propositi, le ricadute sono sempre dietro l’angolo. Nonostante le migliori intenzioni, nonostante le esperienze passate ti suggeriscano strade alternative, nonostante discese ardite e poi risalite, si torna spesso sui propri passi e quello che avevi dato come superato si ripresenta e si ripropone. Un po’ come il pollo con i peperoni.

Bisogna dire che qualche attenuante ce l’ho. Ma d’altra parte chi non ce l’ha? Dico sul serio. Ero… rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C’era il funerale di mia madre. Era crollata la casa. C’è stato un terremoto. Una tremenda inondazione. Le cavallette. Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!

La mia attenuante (e scusate se è poco) è stata la pandemia e la forzata clausura domestica. A quel punto avrei potuto impiegare il tempo frequentando un corso di taglio e cucito. Giardinaggio niente, avrei potuto dedicarmi all’astrofisica. Calcetto neanche a parlarne, avrei potuto riprendere in mano il Rocci provando finalmente a tradurre Senofonte come si deve. Avrei potuto approfittarne e ritirare fuori la collezione di francobolli, dedicarmi al modellismo, imparare il cinese. E invece no.

Invece ho deciso di rileggere, ritagliare e ricucire il blog, andando a ripescare i viaggi ermeneutici sul tema della felicità. E ne è venuto fuori questo

Non so voi, ma in quei folli mesi in cui sembrava stessimo vivendo una specie di esercitazione collettiva, tipo Grande Fratello, fra le paure e le incertezze, intrattenersi sul tema della felicità mi sembrava fosse un dilettevole (se non proprio utile) passatempo. Cosa ne è venuto fuori? Non saprei, fino a poco tempo fa non avevo idea di pubblicarlo, ma qualcuno lo ha letto e mi ha incoraggiato in questo senso. Non è un saggio, non è un romanzo, come dice il titolo, sono una serie di premesse (avrei voluto chiamarli “prolegomeni”, ma l’editore non è stato dello stesso avviso e alla fine mi ha convinto).

Premesse e non promesse, perché come scrivo lì, la felicità non si può promettere. Ci si può incamminare verso, ma non è detto che la si raggiunga. Premesse che sono quindi percorsi: indicazioni che vorrebbero accompagnare il lettore a trovare la propria strada. Come chi alza un braccio per indicare una direzione ad uno straniero di passaggio, per dare un’indicazione di viaggio. Perché in fondo, sempre di viaggi si tratta. Viaggi ermeneutici, ovviamente!

A breve qualche indicazione sulle presentazioni. In ogni caso già potete trovarlo sul sito portoseguro.it, su Amazon e sulla altre principali piattaforme di libri. Buona lettura!

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A proposito di figli, storie e camaleonti

La cosa più buffa che ti può capitare quando scrivi una storia è quando ti accorgi che ha preso una strada che tu non avevi previsto. Come se i personaggi andassero in una direzione scelta da loro, creando situazioni inaspettate. A me è capitato spesso. E’ come se io scrivendo gli avessi creato l’ambientazione, preparato la scena, ma poi loro autonomamente avessero deciso dove andare o cosa fare.

Questa cosa viene fuori in modo assolutamente chiaro quando poi qualcun altro legge quella storia. Perché ti accorgi che ognuno che la legge coglie sfumature a cui tu non avevi pensato, crea collegamenti che non avevi colto e trova significati nuovi. Che non erano esattamente quelli che tu volevi dire, ma hanno la stessa dignità dei tuoi. Perché, un po’ come i nostri figli, noi li mettiamo al mondo, gli diamo delle direttive, cerchiamo di metterci tutto il nostro impegno per passargli qualcosa che a noi sembra importante, ma poi la vita è la loro. Sono loro che devono camminare autonomamente.

Le nostre storie, come i nostri figli, in realtà non sono nostri. I significati che hanno sono i loro. Noi possiamo e anzi dobbiamo fare in modo che abbiano tutti gli strumenti per andare avanti, ma poi la strada che compieranno non dipende più da noi. E magari ci sorprenderanno, ci lasceranno confusi e perplessi come camaleonti dentro una scatola di smarties, perché prenderanno strade impreviste. Ma questa è la vita. E forse, per i figli come per le storie, la soddisfazione più bella è proprio sentir parlare di loro da altri. E ritrovarsi in quello che dicono di loro ed insieme rimanere sorpresi. Perdersi e ritrovarsi. Nelle storie, come nella vita.

 

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4 Storie (+ una) cromaticamente biancocelesti

Le 4 storie raccontate in questo romanzo sono in realtà un espediente, direi quasi una scusa, per raccontare la quinta storia, che corre parallela alle altre. Parallela, ma anche intersecante grazie a quei giochi possibili nel mondo della carta e la penna, nel quale lo spazio, ma soprattutto il tempo, possono rispondere ad altre regole rispetto a quelle della realtà. E quindi, mentre le prime 4 si svolgono in pochi mesi del 1999, l’altra inizia 50 anni prima e solamente alla fine si riunirà alle altre.

Le 4 storie sono raccontate tutte in prima persona, attraverso la voce degli 8 protagonisti che si alternano sulla scena come fossero tante telecamere puntate sulla realtà, che quindi vedono e raccontano ognuna dal suo punto di vista.

Il racconto nel suo insieme è una specie di biografia non autorizzata (il “Tommaso” protagonista mi somiglia più forse di quanto avrei voluto), ma non solo del sottoscritto. Come scrivevo nella prefazione, è il racconto di una generazione, quella dei figli di chi visse il 68 o forse meglio, dei fratelli minori di chi visse il 77. Una generazione di reflusso (non solo esofageo), disincantata, vaccinata contro i grandi ideali, ma allo stesso tempo (o forse proprio per questo) bisognosa di credere in qualcosa. Anche in qualcosa di frivolo, come forse (anzi certamente) può essere il calcio.

E infatti tutte le storie sono condite, avvolte, circondate dal biancoceleste. Perché il tifo per la Lazio non è un accessorio accidentale alla trama, ma  costituisce la metafora più immediata e calzante per descrivere vizi, virtù, caratteristiche di quei ragazzi dell’85, quindici anni dopo.

E meno male che ci sono le donne! Perché in fondo, queste quattro storie più una, sono un omaggio alle donne, che molto spesso hanno quel pizzico di creatività e soprattutto di voglia di rischiare, di rimettersi in gioco, che riesce a risolvere le situazioni.

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 Dalla 4 di copertina

Si può rovinare un matrimonio per andare dietro ad un Otto perfetto? Si può cadere in depressione perché si voleva cambiare il mondo, mentre ora si è più preoccupati della caduta dei capelli che di come va il Governo? Si possono lasciare marito e figlie per una canzone dei r.e.m.? E poi, cos’è peggio, vedersi sfumare l’obiettivo di una vita oppure raggiungerlo e scoprire che in realtà non è cambiato nulla?

Otto protagonisti, come fossero otto telecamere, che dal loro punto di osservazione raccontano queste quattro storie. Storie cromaticamente biancocelesti, perché il collante di tutto è un’insana, travolgente, immotivata ed irragionevole passione per la più antica squadra di calcio della capitale.

Un quinta storia di sottofondo, una storia d’altri tempi, lunga 50 anni, che lega tutte le altre.

Quattro storie, più una

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Al culmine del giorno ci sorprese l’Eclissi

Questo romanzo nacque da un esperimento o se vogliamo, da una scommessa.

La storia è abbastanza semplice: un uomo e una donna che si incontrano casualmente sul web e cominciano un dialogo via via più intenso che fa nascere un sentimento sempre più forte, fino chissà. In questo senso certo è una storia datata, scritta a cavallo del nuovo millennio, quando ancora gli incontri sul web erano agli albori, non esistevano i social network e anche le chat erano cose per addetti ai lavori. Oggi una storia così non avrebbe senso o comunque si svilupperebbe molto più velocemente e in forme e modi differenti.

La scommessa fu scriverlo a 4 mani con Letizia, un’amica conosciuta sul web, guarda caso in un sito di scrittori esordienti (esattamente questo http://www.danaelibri.it/rifugio/rifugio.asp.) Partimmo con un’idea, qualche suggestione e poche altre certezze. Da qui facemmo in modo che i due personaggi continuassero in maniera quasi autonoma. Gli costruimmo intorno i due mondi, i contesti su cui si muovevano, le storie che li avevano portati fino a quel punto, ma poi lasciammo che scrivessero loro la storia, lasciando a noi il compito di semplici portavoce.

Non so dare una valutazione obiettiva di cosa ne venne fuori. Però i giudizi furono lusinghieri e soprattutto, noi ci divertimmo un mondo a scriverlo, perché l’uno non sapeva cosa avrebbe scritto l’altro, non conosceva come sarebbe proseguita la storia e lo scopriva insieme, o meglio, attraverso il proprio personaggio.

Chiudo con un retroscena divertente, il commento di un amico. Proprio in quel periodo un altro nostro amico si stava separando dalla moglie dopo aver conosciuto una su internet.

“Questa è la differenza tra te e le persone normali. Lui conosce una su internet e se la porto a letto, tu ci scrivi un libro.”

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Dalla 4 di copertina.

Un uomo. Una donna. Due individui. Due solitudini. Due monitor. Attraverso cui lasciarsi spiare, per scivolare compiaciuti e curiosi nella maglie di una rete che, avviluppandoli, li rende quasi ciechi nei confronti del mondo che li ha circondati fino a quel momento.

Quella che si presumeva fosse la realtà, diventa cornice. Quello che fino a un attimo prima era pura possibilità, si concretizza nelle loro menti e pare addirittura possa diventare realtà. Quello che potrebbe essere solo un fenomeno astronomico diventa uno spartiacque, un rito di passaggio verso una nuova vita. O meglio, verso un nuovo modo di affrontare la vita. Perché un modo nuovo di comunicare può insegnare un nuovo modo di vedere, di sentire, di sognare.

Occhi che vedono come i miei, orecchie che sentono come le mie?” scrive Guido a Bianca. Ma le parole scritte, anche se inviate alla velocità di un battito di ciglia, possono dire così tanto?

L'Eclissi

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Quando c’è l’Alluvione tutti i topi vengono fuori

Per me c’è un misto di tenerezza e nostalgia nel commentare l’Alluvione. Lo scrissi di getto, in una settimana, cosa abbastanza rara per me, che invece tendo un po’ a prendermela comoda. Doveva essere scritto. Era una specie di terapia.

Stavano svendendo l’azienda in cui lavoravo, regalandola a gente senza scrupoli, spregevoli individui che si arricchivano senza meriti, deridendo e disprezzando le persone che lavoravano lì da una vita e che nel bene o nel male avevano guidato l’azienda fino a quel momento.

E’ il mercato bellezza! Liberalizzare, privatizzare, concorrenza, competitività…tutte stronzate. O meglio, tutte maschere, più o meno riuscite, per nascondere il mestiere più vecchio del mondo appena dopo la prostituzione. Il ladrocinio.

E dunque, proprio in mezzo all’alluvione, mentre sorci ripugnanti uscivano fuori da ogni anfratto, cercavo in qualche modo di rimanere a galla. Non avevo il fegato (o forse semplicemente non ero così arrabbiato) per tirare una molotov, e così scrissi quel racconto. Tragicomico, dovessi definirlo con un unico aggettivo. Un po’ paradossale. Non vero, ma certamente verosimile. Scrivere fu liberante, perché era come proiettare fuori di sé i desideri più reconditi e realizzarli, anche se solo su carta.

Non so come, non so perché, ma la terapia funzionò e a differenza del protagonista, riuscii a canalizzare la rabbia in modo che non diventasse, come per lui, autodistruttiva. Lo pubblicai qualche anno dopo, quando ero del tutto guarito, proiettato in un’altra realtà. E soprattutto in un’altra azienda, quindici anni dopo però posso dire che quel racconto mantiene intatta, purtroppo, la sua attualità. Anzi, per come stanno andando le cose forse si potrebbe quasi dire che più che un racconto potrebbe essere considerata una profezia.

E se questo è vero, allora speriamo che si realizzerà nella realtà anche il lieto fine del romanzo.

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Dalla 4 di copertina

Questo è il racconto di una rivolta. Con dei martiri, degli omicidi, un tentativo di regicidio e un quasi suicidio. Ma si sa, non si fanno rivolte senza morti, colpevoli o innocenti poco importa. Una rivolta sacrosanta, che riesce a coinvolgere anche coloro che sono ai margini della manifestazione: anche a costoro viene voglia di tirare un sasso

E’ un racconto tragico. Ma anche comico. Perché il comico si nasconde un po’ ovunque, basta saperlo cercare.

Così emerge la voglia di contrastare la tragedia (l’Alluvione) e tutte le sue conseguenze negative (i topi). Quella voglia che dà libero sfogo alla fantasia per inventare una soluzione diversa.

Quando c'è l'Alluvione tutti i topi vengono fuori