La Lazio, il Boss e una volpe

Per chi altri uno il 14 agosto lascerebbe il fresco dei monti per farsi 240 km tra andata e ritorno e ritrovarsi a sudare nel forno della capitale? Per chi altri si incazzerebbe al punto da rovinarsi il resto delle vacanze e rischierebbe un attaco di cuore nel momento della vittoria? E per chi si farebbe influenzare dalle mille e una superstizioni (come sono vestito, che percorso faccio con la macchina, quale strada prendo una volta a piedi, dove tengo il cellulare, quando devo accendermi la sigaretta e via discorrendo)? Insomma da chi altro mi farei condizionare la vita in modo del tutto irragionevole, illogico ed insensato?

Da nessuno, ovviamente. Ed il fatto che ne sia consapevole, da una parte mi fa sorridere, dall’altra mi dà il nervoso. Come quando perdi la testa per una che non ti si fila: da una parte ti compiaci nella languida speranza che si accorga di te, dall’altra maledici il giorno in cui hai incrociato i suoi occhi e ti sei perdutamente innamorato di lei. Ti chiedi perché, ti domandi cosa hai fatto di male, preferiresti essere coinvolto da qualche altra passione, il lavoro, il successo, i soldi, ma niente, niente riescono a distoglierti. Preferiresti non amare più, rimanere indifferente a quello che succede, ma non ce la fai, è più forte di te.

E così stanotte, rientrando fra i monti, con la musica del boss di sottofondo (a proposito, uno dei prossimi viaggi musicali devo assolutamente dedicarlo a lui), mi interrogavo sulla follia che è essere innamorato di una squadra di calcio. Di come, nel giro di pochi minuti, per l’ennesima volta, era riuscita a farmi passare dalla depressione profonda, all’esaltazione entusiastica. Ma che senso aveva essere così contento? In fondo non è che una partita. Ce ne saranno altre mille, ne vinceremo, ne perderemo, perché allora sto così? Perché sembra così importante?

E mentre sfumava Badlands e attaccava Racing in sthe Street, fra le curve e i tornanti ecco apparire una volpe che si pianta in mezzo alla strada, accecata dai fari. Arrivavo in velocità, che fai ti decidi a scansarti? Ce ne sono tante qui intorno, in fondo che importanza poteva avere, una volpe in più o meno? Ma in questa notte di euforia immotivata almeno un motivo di soddisfazione autentica ci deve stare: questo penso in quella frazione di secondo che serve a sterzare a destra proprio in tempo per evitarla.

Buon Ferragosto anche a te volpacchiotta e mi raccomando, tieniti alla larga dei lupi, che si sa, di loro non ci si può fidare!

No, m’arendo e tu chi dovresti da esse?

Trent’anni fa. E se in questo articolo vi ho raccontato un giorno in particolare, oggi parlo invece di un periodo. Generico e specifico insieme.

Ci sono due teorie, due filosofie, due impostazioni di vita diametralmente opposte. Un po’ come destra sinistra, doccia o bagno, mamma o papà, mare o montagna: chi ama i “ritorni al passato”, chi cerca gli amici delle elementari su FacciaLibro, chi vuole rincontrare pezzi delle sue vite precedenti e chi invece odia tutto ciò.

Alcuni dicono “Ma se non ci siamo più visti da trent’anni, ci sarà un motivo?” Logica stringente la loro, indubbiamente. Ma che come tutte le cose logiche e ragionevoli a me non convince. Ci possono essere cause occasionali o semplicemente casi della vita che ci allontanano. La vita è un treno in corsa, le situazioni cambiano, le cose e le persone sono in movimento. Eppure, alcune cose rimangono sempre uguali. Almeno per me. Sarò un’eccezione? Sarò un caso di scuola? Sarò semplicemente un uomo con poca fantasia? Può darsi. Però…

Però se mi fermo a riflettere, non posso non riconoscere che, se escludo i figli, sono poche le cose o le persone veramente fondamentali che la vita mi ha aggiunto in questi ultimi trent’anni (“ancora co ‘sti trent’anni? Ma che c’entra?” Tranquilli, ora ve lo spiego). Amo la stessa donna (o quasi: a voler essere pignoli lei arrivò giusto un anno dopo), i miei amici, le persone a cui sono più legato sono le stesse, leggo ancora Tex, sono un filosofo della minchioneria e la Lazio è in grado ancora di esaltarmi o di deprimermi. Uomo di poca fantasia, senza dubbio.

Fatto sta che trent’anni fa, in questo momento, se non ero ubriaco, probabilmente ero sui libri a studiare. Per la maturità. Altro fatto è che stasera uno dei miei migliori amici, l’unico che avrebbe potuto farlo, ha mandato una email a tutti (e quando dico tutti, significa proprio tutti. O quasi), dandoci un appuntamento nella nostra vecchia scuola per una serata “all together, again“.  Un po’ come una specie di “Compagni di scuola” o del più nobile “Il grande freddo” (ma sono sicuro che non sarà né l’uno, né l’altro).

E’ vero, le persone con cui ero più legato continuo a sentirle (spesso) e a vederle (molto meno di quanto vorrei). Ma sono proprio contento lo stesso, anche di vedere tutti gli altri. Fosse anche per una sera soltanto, saremo di nuovo tutti insieme. Sarò insieme alle persone con cui ho vissuto gli anni più belli della mia vita, quando il mondo era un quaderno bianco su cui scrivere, quando tutto sarebbe stato ancora possibile.

E il fatto di non avere rimpianti, il fatto di essere tutto sommato soddisfatto del percorso fatto da allora ad oggi, della storia scritta su quel quaderno, non toglie la nostalgia delle sensazioni che provavo allora. Non c’è contraddizione fra le due cose: possiamo essere pienamente realizzati, possiamo essere legittimamente orgogliosi di quello che abbiamo costruito e possiamo non avere alcun rimpianto per quello che poteva essere e non è stato. Ma nulla, nulla al mondo mi potrà impedire di sorridere sognante ed incantato, ripensando a quell’anno, a quel leggendario, straordinario, irripetibile, millenovecentottantacinque.

A questo punto avrei voluto chiudere con il video di “Compagni di scuola” quando Angelo Bernabucci non riesce a riconoscere il povero Fabris (No, m’arendo e tu chi dovresti da esse), ma youtube dice che il video non può essere visto nel nostro Paese per una questione di diritti (è un po’ anche di rovesci, della medaglia). Allora metto questa canzone, che lo stereo della macchina di allora ad un certo punto metteva su da solo, tanto la ascoltavo. Mentre la aspettavo sotto casa sua. Il boss mi prestava le parole e le emozioni. E se anche non andò come avrei voluto, fa lo stesso, perché come dicevo prima non è tempo di rimpianti. E’ tempo di ricordi. Belli, intesi, autentici, nostri. Che nessuno potrà mai portarci via.