Figli di una vecchia canzone

Ultimamente il mio giovin virgulto, tra pochi giorni diciottenne, ha scoperto Venditti. Invece di trapanarmi i timpani con cantanti inascoltabili, dai nomi improbabili e dalle voci sgraziate, in macchina ricerca i pezzi storici del buon vecchio Antonello. Con cui, fin da sempre ho un rapporto controverso: da una parte, come menestrello della parte giallorossa della capitale, non ho mai potuto digerirlo, dall’altra però sono cresciuto con le sue canzoni, conosco a memoria interi album, mi ricordo perfettamente quando uscirono.

Così, saranno queste canzoni che hanno accompagnato la mia adolescenza, sarà che lui sta frequentando il suo ultimo anno di liceo, stamattina quando l’ho lasciato davanti all’entrata della scuola, vedendo la solita folla di ragazzi che si attardavano prima di affrontare la giornata fra i banchi, mi è presa un’ondata di nostalgia. Avrei voluto parcheggiare e nascondermi in mezzo a loro per intrufolarmi dentro un’aula qualunque.

Soprattutto mi piacerebbe fargli capire che deve assaporare queste giornate fino in fondo, gustarsi ogni singola ora, perché al di là delle scocciature dei compiti, al di là delle ansie per le interrogazioni, questi sono giorni indimenticabili, con sensazioni che nessun altro contesto riuscirà anche lontanamente ad avvicinare. Dopo la scuola nasceranno tante amicizie, spesso anche più profonde di quelle nate fra i banchi di scuola. Troverà persone con più affinità, sceglierà quelle più vicine al suo modo di pensare. Perché in fondo i compagni di classe sono come i parenti, mica puoi sceglierteli! Te li ritrovi a 14 anni, appena più di bambino e cinque anni dopo li lasci appena meno che uomo. Ma quel percorso che hai fatto insieme, quel legame che ti ha unito, ti segna per tutta la vita.

Ed è per questo che trent’anni dopo ti ritrovi a capire che quel legame che c’era è rimasto inalterato. Che il tempo passato ha cambiato tantissime cose, che forse se quelle stesse persone le incontrassi oggi per la prima volta non ti direbbero e non ti darebbero nulla, ma invece sono loro, sono i tuoi amici, un pezzo di te e della tua storia, di quello che sei, di come e perché sei così e non in altro modo. Come scrivevo qualche tempo fa, sono stato felice sotto molti cieli, ma sicuramente mai più quanto fra i banchi di scuola.

Ed il rock passava lento sulle nostre discussioni
Diciotto anni son pochi, per promettersi il futuro
Ma tutto quel che voglio, dicevo, è solamente amore
Ed unità per noi che meritiamo un’altra vita
Violenta e tenera se vuoi
Nata sotto il segno, nata sotto il segno dei pesci

No, m’arendo e tu chi dovresti da esse?

Trent’anni fa. E se in questo articolo vi ho raccontato un giorno in particolare, oggi parlo invece di un periodo. Generico e specifico insieme.

Ci sono due teorie, due filosofie, due impostazioni di vita diametralmente opposte. Un po’ come destra sinistra, doccia o bagno, mamma o papà, mare o montagna: chi ama i “ritorni al passato”, chi cerca gli amici delle elementari su FacciaLibro, chi vuole rincontrare pezzi delle sue vite precedenti e chi invece odia tutto ciò.

Alcuni dicono “Ma se non ci siamo più visti da trent’anni, ci sarà un motivo?” Logica stringente la loro, indubbiamente. Ma che come tutte le cose logiche e ragionevoli a me non convince. Ci possono essere cause occasionali o semplicemente casi della vita che ci allontanano. La vita è un treno in corsa, le situazioni cambiano, le cose e le persone sono in movimento. Eppure, alcune cose rimangono sempre uguali. Almeno per me. Sarò un’eccezione? Sarò un caso di scuola? Sarò semplicemente un uomo con poca fantasia? Può darsi. Però…

Però se mi fermo a riflettere, non posso non riconoscere che, se escludo i figli, sono poche le cose o le persone veramente fondamentali che la vita mi ha aggiunto in questi ultimi trent’anni (“ancora co ‘sti trent’anni? Ma che c’entra?” Tranquilli, ora ve lo spiego). Amo la stessa donna (o quasi: a voler essere pignoli lei arrivò giusto un anno dopo), i miei amici, le persone a cui sono più legato sono le stesse, leggo ancora Tex, sono un filosofo della minchioneria e la Lazio è in grado ancora di esaltarmi o di deprimermi. Uomo di poca fantasia, senza dubbio.

Fatto sta che trent’anni fa, in questo momento, se non ero ubriaco, probabilmente ero sui libri a studiare. Per la maturità. Altro fatto è che stasera uno dei miei migliori amici, l’unico che avrebbe potuto farlo, ha mandato una email a tutti (e quando dico tutti, significa proprio tutti. O quasi), dandoci un appuntamento nella nostra vecchia scuola per una serata “all together, again“.  Un po’ come una specie di “Compagni di scuola” o del più nobile “Il grande freddo” (ma sono sicuro che non sarà né l’uno, né l’altro).

E’ vero, le persone con cui ero più legato continuo a sentirle (spesso) e a vederle (molto meno di quanto vorrei). Ma sono proprio contento lo stesso, anche di vedere tutti gli altri. Fosse anche per una sera soltanto, saremo di nuovo tutti insieme. Sarò insieme alle persone con cui ho vissuto gli anni più belli della mia vita, quando il mondo era un quaderno bianco su cui scrivere, quando tutto sarebbe stato ancora possibile.

E il fatto di non avere rimpianti, il fatto di essere tutto sommato soddisfatto del percorso fatto da allora ad oggi, della storia scritta su quel quaderno, non toglie la nostalgia delle sensazioni che provavo allora. Non c’è contraddizione fra le due cose: possiamo essere pienamente realizzati, possiamo essere legittimamente orgogliosi di quello che abbiamo costruito e possiamo non avere alcun rimpianto per quello che poteva essere e non è stato. Ma nulla, nulla al mondo mi potrà impedire di sorridere sognante ed incantato, ripensando a quell’anno, a quel leggendario, straordinario, irripetibile, millenovecentottantacinque.

A questo punto avrei voluto chiudere con il video di “Compagni di scuola” quando Angelo Bernabucci non riesce a riconoscere il povero Fabris (No, m’arendo e tu chi dovresti da esse), ma youtube dice che il video non può essere visto nel nostro Paese per una questione di diritti (è un po’ anche di rovesci, della medaglia). Allora metto questa canzone, che lo stereo della macchina di allora ad un certo punto metteva su da solo, tanto la ascoltavo. Mentre la aspettavo sotto casa sua. Il boss mi prestava le parole e le emozioni. E se anche non andò come avrei voluto, fa lo stesso, perché come dicevo prima non è tempo di rimpianti. E’ tempo di ricordi. Belli, intesi, autentici, nostri. Che nessuno potrà mai portarci via.