Quel che abbiamo, quel che siamo, quel che manca, quel che serve

Rispetto a quel che abbiamo, rispetto a quel che siamo, possiamo dire di essere ricchi. Nella media e con le dovute eccezioni, molto più ricchi di coloro che ci hanno preceduto. Dalle cose pratiche, all’istruzione, dalla salute, alle prospettive di vita, per le condizioni materiali e culturali in cui viviamo, possiamo ben dire, che vivere in quest’Italia del terzo millennio è molto più semplice e molto più comodo rispetto alle generazioni precedenti. Eppure ci manca sempre qualcosa. E questo è un bene, forse, anzi sicuramente, perché se avessimo tutto non avremmo più la voglia di cercare, di scoprire, di trovare cose nuove.

Ma tra tutte le cose che ci mancano, quali sono quelle che ci servono veramente? Torniamo alla premessa di prima. Siamo ricchi, dicevamo, molto più ricchi delle generazioni precedenti: cos’altro ci manca? Nulla o forse tutto. Probabilmente le stesse cose che mancavano in altre epoche. Per questo non bisognerebbe mai confondere ciò che ci manca da quello che veramente ci serve.

Io penso che dovremmo essere amici della nostra vita. Amici autentici, quelli che non pretendono che tu sia migliore di quello che sei. Quelli che ti conoscono e nonostante ciò restano tuoi amici, senza giudizio e senza riserve. Quegli amici che ti vogliono bene e che se c’è bisogno ti aspettano, magari per cantare insieme vecchie canzoni.

“Mi chiedevi che ti manca, una casa tu ce l’hai. Hai una donna, una famiglia, che ti tira fuori dai guai. Ma tutto quel che voglio pensavo, è solamente amore ed unità per noi, stretti in libera sorte, violenti e teneri se vuoi, figli di una vecchia canzone.”

Colpa, giustizia, perdono e memoria

Fa notizia la decisione della Francia che dopo oltre 40 anni, ha deciso di concedere l’estradizione per gli ex terroristi rifugiati lì e condannati da sentenze defintive. Ho letto diversi contributi che partendo da punti di vista differenti, danno letture anche opposte: secondo alcuni (direi la maggioranza) finalmente si è fatta giustizia. Anche se solamente una dozzina di ex terroristi saranno estradati, a fronte di oltre un centinaio di persone coinvolte negli anni, è un segnale importante nei confronti della giustizia e soprattutto delle vittime e dei loro familiari.

Qualcun altro ha invece espresso l’idea che a distanza di oltre quarant’anni dai fatti, si sia trattato di un accanimento inutile, un’inutile ritorsione politica: molte delle persone coinvolte sono ormai anziane, malate, difficilmente sconteranno in carcere la loro pena. Adriano Sofri, uno personalmente coinvolto in quelle vicende, scriveva appunto questo, sottolineando un aspetto interessante: in oltre quarant’anni nessuno di coloro che ha trovato rifugio in Francia si è mai macchiato di alcun crimine. E ci mancherebbe, qualcuno potrebbe dire! Invece non era così scontato.

In fondo il carcere, oltre al far pagare il debito che uno contrae con la società quando commette un crimine, dovrebbe avere come obiettivo il rendere innocui coloro che hanno fatto del male e non ultimo, cercare di redimerli, rendendo possibile un loro reinserimento nella società civile. L’asilo in Francia, garantito dalle norme volute da Mitterand a coloro che si erano macchiati di crimini politici, sembra (forse più di qualsiasi carcerazione) aver raggiunto questi due aspetti non secondari.

Certo resta il primo aspetto, non trascurabile. Come possono sentirsi i familiari delle vittime? Uno di loro in un’intervista sottolineava che appunto, incarcerare un vecchietto oggi non può ridare nulla di tutto quello che hanno perso, se non un senso di giustizia che viene finalmente rispettato. Tutti coloro che ho sentito dicono di cercare giustizia e non vendetta ed è bello sentirlo. Anche questo non è scontato perché vedere rimanere impuniti per anni crimini come questi, potrebbe scatenerebbe in chiunque un senso di rivalsa (e quindi di vendetta), figuriamoci in chi è personalmente coinvolto.

Ma se lo stato d’animo delle vittime è prevedibile, non altrettanto lo è quello dei carnefici. Si sono pentiti? Vivono nel rimorso degli orrori che hanno compiuto? Riconoscono che i caduti erano persone, padri, figli, fratelli e non solo rappresentanti di quello Stato che loro volevano combattere? O al contrario, continuano a pensare di essere stati semplicemente soldati in una guerra persa? Aver evitato una pena riconosciuta in modo definitivo, gli ha dato un senso di serena impunità o per tutti questi anni hanno vissuto ogni giorno con l’angoscia di essere prima o poi chiamati a rendere conto dei loro crimini?

Io ero bambino e poi adolescente, ma mi ricordo molto bene quegli anni, l’atmosfera che si respirava, il clima di scontro anche fra ragazzi, la sensazione (l’illusione?) di vivere delle contrapposizioni radicali: rossi e neri, buoni e cattivi, entrambi abilmente manovrati da chi voleva quel clima per portare avanti tutt’altri interessi. Oggi quando mi capita di passare davanti alle lapidi e ai murales dedicate ai ragazzi caduti in quella spirale d’odio, non vedo alcuna differenza fra gli uni e gli altri e invece continuo a chiedermi come possa essere successo, come si possa uccidere qualcuno perché ha un’idea differente dalla nostra.

Comunque si concluderà, sia per gli uni che per gli altri, penso sia giusto mettere una parola definitiva su quelle vicende. Al di là delle responsabilità, al di là della vendetta o del perdono, al di là dei rimorsi e dei rimpianti, vittime e carnefici sono entrambi stati travolti da eventi più grandi di loro e che fortunatamente sono conclusi da tempo. Chiudere quelle storie per fare memoria di quello che successe. Perché al di là di tutto, la cosa più importante è non dimenticare, per il rispetto che si deve a chi ha pagato con la vita e soprattutto perché non succeda mai più.

Compagno di scuola, compagno di niente
ti sei salvato dal fumo delle barricate?
Compagno di scuola, compagno per niente
ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?

Figli di una vecchia canzone

Ultimamente il mio giovin virgulto, tra pochi giorni diciottenne, ha scoperto Venditti. Invece di trapanarmi i timpani con cantanti inascoltabili, dai nomi improbabili e dalle voci sgraziate, in macchina ricerca i pezzi storici del buon vecchio Antonello. Con cui, fin da sempre ho un rapporto controverso: da una parte, come menestrello della parte giallorossa della capitale, non ho mai potuto digerirlo, dall’altra però sono cresciuto con le sue canzoni, conosco a memoria interi album, mi ricordo perfettamente quando uscirono.

Così, saranno queste canzoni che hanno accompagnato la mia adolescenza, sarà che lui sta frequentando il suo ultimo anno di liceo, stamattina quando l’ho lasciato davanti all’entrata della scuola, vedendo la solita folla di ragazzi che si attardavano prima di affrontare la giornata fra i banchi, mi è presa un’ondata di nostalgia. Avrei voluto parcheggiare e nascondermi in mezzo a loro per intrufolarmi dentro un’aula qualunque.

Soprattutto mi piacerebbe fargli capire che deve assaporare queste giornate fino in fondo, gustarsi ogni singola ora, perché al di là delle scocciature dei compiti, al di là delle ansie per le interrogazioni, questi sono giorni indimenticabili, con sensazioni che nessun altro contesto riuscirà anche lontanamente ad avvicinare. Dopo la scuola nasceranno tante amicizie, spesso anche più profonde di quelle nate fra i banchi di scuola. Troverà persone con più affinità, sceglierà quelle più vicine al suo modo di pensare. Perché in fondo i compagni di classe sono come i parenti, mica puoi sceglierteli! Te li ritrovi a 14 anni, appena più di bambino e cinque anni dopo li lasci appena meno che uomo. Ma quel percorso che hai fatto insieme, quel legame che ti ha unito, ti segna per tutta la vita.

Ed è per questo che trent’anni dopo ti ritrovi a capire che quel legame che c’era è rimasto inalterato. Che il tempo passato ha cambiato tantissime cose, che forse se quelle stesse persone le incontrassi oggi per la prima volta non ti direbbero e non ti darebbero nulla, ma invece sono loro, sono i tuoi amici, un pezzo di te e della tua storia, di quello che sei, di come e perché sei così e non in altro modo. Come scrivevo qualche tempo fa, sono stato felice sotto molti cieli, ma sicuramente mai più quanto fra i banchi di scuola.

Ed il rock passava lento sulle nostre discussioni
Diciotto anni son pochi, per promettersi il futuro
Ma tutto quel che voglio, dicevo, è solamente amore
Ed unità per noi che meritiamo un’altra vita
Violenta e tenera se vuoi
Nata sotto il segno, nata sotto il segno dei pesci

Scusa devo andare via

Liliana Segrè prossima presidente della Repubblica? Non avrebbe la sufficiente esperienza politica per un ruolo così delicato, dice qualcuno. Sarebbe l’ennesimo ammiccamento alle mode e all’emotività del momento, ho sentito dire a qualcun altro. Non è un figura istituzionalmente rappresentativa, hanno detto. E’ un personaggio di parte, che non può rappresentare unitariamente tutti gli italiani, ha commentato qualcun altro.

Non succederà purtroppo. E non certo per i motivi indicati sopra. Forse semplicemente perché non abbiamo sufficiente fantasia, perché la politica italiana non riesce più a farci sognare, circoscritta in beghe simil condominiali, chiusa nei personalismi e negli interessi privati che parlano esclusivamente alla pancia degli individui. Ma solo perché ancora non hanno trovato il linguaggio per rivolgersi a organi meno nobili, altrimenti sarebbero arrivati anche lì.

E poi forse, la verità più amara, la verità vera è che una come lei questa Italia qui non se la merita.

Questo è un giorno in cui la luna
si confonde con la strada, e va veloce.
La violenza del mattino lascia il posto
alla tristezza della sera
e San Lorenzo chiede ancora un’altra canzone d’amore.
Ma scusa devo andare via 
Roma, Roma dimmi chi sei.
Roma dimmi, dimmi, dimmi che vuoi.
Non vedi le mie mani,
le mie mani chiuse a chiave nelle tasche
Non la senti questa voce,
questa maledetta voce che non vuole uscire.
Ma dentro me soltanto, soltanto la voglia di un’altra canzone
Ma scusa devo andare via 
Roma, Roma dimmi chi sei.
Roma dimmi, dimmi, dimmi che vuoi
e San Lorenzo chiede la solita storia d’amore
Ma scusa devo andare via 
Roma, Roma dimmi chi sei
Roma dimmi, dimmi, dimmi che vuoi.

 

Quando verrà Natale, tutto il mondo cambierà

Buon Natale a tutti. Proprio a tutti.

Buon Natale agli sciocchi che hanno creduto alle favole. Tanti auguri ai furbi, che hanno pensato che esistessero delle scorciatoie, che bastassero quattro slogan ripetuti fino alla noia per risolvere tutti i problemi.

Buon Natale ai duri e puri, che con il loro cupio dissolvi, con quell’irrefrenabile tendenza ad autorovinarsi hanno distrutto Sansone e tutti i filistei. E noi con loro. Tanti auguri a quelli che sognano sempre l’ottimo e non si accontentano del buono, anzi lo disprezzano, perché nelle loro menti distorte non capiscono, banalmente, che spesso l’ottimo è il peggior nemico del buono.

Buon Natale ai nazisti dell’Illinois de noantri, che si sono sentiti autorizzati ad uscire dalle fogne, che hanno smesso di vergognarsi guardandosi allo specchio e forse sono persino arrivati a pensare di essere nel giusto. Tanti auguri ai cattolici che vanno a messa, ma se ne dimenticano nel segreto dell’urna.

Buon Natale a quelli del PD, che forse non avranno tutte le colpe del mondo, ma certamente hanno la responsabilità di aver fatto diventare realtà il peggior governo nella storia della Repubblica.

Buon Natale soprattutto a questi poveretti che arrivano qui convinti di aver raggiunto la terra promessa. Pensiamo solo un attimo cosa debba essere casa loro, per potersi sbagliare così.

Buon Natale a tutti, perché ognuno festeggia la nascita di un bambino venuto a portare salvezza e redenzione a tutti. E speriamo davvero che ce la porti lui, perché da soli, ne sono sempre più convinto, nessuna redenzione è possibile.

Il condottiero, il professore e la secchiona

Barbara luna rosso scudo, il re degli Unni guardava Roma. Uomo di poca fantasia, lui la scambiò per una stella. Quando gli uomini giunsero in collina aveva sciolto l’armatura. E fu per ignoranza o per sfortuna, che perse il treno, il treno per la luna.

Il primo ci mise cinque anni, il secondo due, la terza tre mesi.

C’era una volta il grande condottiero, ordine e disciplina. Parlava alla pancia della gente, risvegliava le loro paure, così da offrirgli poi la sua protezione. Ma poi arrivò la nevicata. Grande condottiero, perché non ci hai protetto? La gente si risvegliò. Come da un sogno, che era diventato un incubo, lungo 5 anni.

Poi arrivò il professore antipatico, quello che si divertiva a bocciare gli alunni somari. Ma anche quelli bravi. Anzi, soprattutto quelli bravi, perché nessuno doveva essere bravo come lui. Odiava tutti, nessuno escluso, nessuna eccezione, tutti uguali, tutti bocciati. Andate a studiare, non siete preparati, non siete all’altezza. Non mi capite e io me ne vado. E infatti dopo neanche due anni se ne andò.

Allora arrivò la secchiona. Aveva studiato, le sapeva tutte. O almeno così diceva. Era tutta seria, non dava confidenza. Non la dava a nessuno! O almeno, così diceva. In verità qualcuno lì per lì si accorse dei fili che aveva dietro la schiena. Ma fece finta di non vederli, perché se anche fosse stata una favola, era bello, almeno per un po’, far finta di crederci. Magari avrebbe anche potuto dura di più, se solo quei fili non si fossero ingarbugliati in quel modo, alla prima volata di vento. Ma lei che sapeva tutto, doveva saperlo però, che qui soffia il ponentino.

E il ponentino, cari miei, non lo ferma nessuno.

Quando i carri gli volsero le spalle Leone levò il calice al cielo. E fu per ignoranza o per sfortuna che questa stella figlio è ancora a Roma. Che questa stella figlio è ancora a Roma

Ritorno al futuro

Sotto la curva del cielo, in un applauso di stelle, ho salutato la mia gioventù, per ritornare bambino, procedendo in avanti.

Ma che cosa buffa i ricordi! Ho sempre pensato che l’interruttore migliore per riaccenderli fossero i profumi. Dicono che l’olfatto fa parte della parte più antica della cervice, quella più ancestrale, che sta prima della razionalità. In effetti è il nostro senso più animale, infatti i nostri amici a 4 zampe si orientano molto più con il naso che con la vista o l’udito. Poi ci sono le canzoni. Come scrivevo l’altro giorno, ascolto gli Elo e torno adolescente. Venditti è l’esame di maturità. Gli Eurithmics l’anno successivo. Potrei scrivere una colonna sonora della mia vita con le canzoni che ascoltavo mentre succedevano i fatti più importanti.

Con i luoghi sì, mi era già successo, ma mai in maniera così profonda, così estrema e totalizzante come mi è capitato ieri sera. Le scale non sono più quelle, i corridoi li hanno rifatti, la porta è totalmente diversa. Bellissima serata, gli amici di sempre finalmente di nuovo insieme, ricordi, battute, sono mesi che ne parliamo, eppure non ero mica preparato. Si apre quella porta e bam! doppio carpiato all’indietro. Non c’è più il passato, siamo tornati nel 1985, ho appena preso la patente e fra pochi giorni c’è l’esame di maturità. E’ stato un riflesso condizionato, siamo andati in automatico a sederci ai “nostri” posti. Dario da una parte, Silvia dall’altra, Cecilia davanti che si gira ogni tre minuti ad esorcizzare il tempo con quel ritornello “a Ro, che ore so?” E anzi, mi sono stupito di non trovare sotto il banco le mie cose, l’astuccio, i libri, il panino con la mortadella.

Che sono in fondo trent’anni? C’è chi si laurea, chi fa figli, chi gioca a pallone, chi fa ancora il cazzone. Che sono trent’anni? Va be’ qualche chiletto in più, qualche capello in meno, ma in fondo la sostanza è quella. Come la voglia di stare insieme. Con qualche cicatrice in più, con qualche certezza in meno, ma con il desiderio di risentirsi uniti, vicini come allora, per condividere i sogni e le paure, le cazzate e le speranze. Nessun “Fabbris” nella nostra classe, come temevo all’inizio di questa storia. Nessuno si è arreso perché non riusciva a riconoscere qualcuno. Ci siamo riconosciuti perché siamo l’evoluzione coerente di quelli che eravamo all’ora. E nonostante gli anni, le esperienze diverse, le strade percorse per arrivare fin qui, ti accorgi che i sentimenti più autentici, quelli più profondi, sono rimasti gli stessi. Proprio come l’emozione di ascoltare vecchie canzoni come questa

I torti, le ragioni e le cose della vita

Ci sedemmo dalla parte del torto, perché tutti gli altri posti erano occupati” (S. Beckett)

In effetti la realtà è esattamente come la dice Beckett. La parte della ragione ha sempre un sovraffollamento, una densità demografica persino superiore a quella delle carceri italiane. E proprio come nelle carceri non è che ci stai tanto comodo, ma sei costretto a starci.

La ragione ti costringe dalla sua parte con tutta la ragionevolezza delle sue argomentazioni e ti imprigiona con la consequenzialità dei suoi collegamenti causa effetto. Sono gli altri che non ti capiscono, che si approfittano di te e della tua buona fede. Sono gli altri che quando gli servi allora sì, ma poi invece. Sono gli altri che tradiscono le tue aspettative, che fuggono di fronte alle responsabilità.

“La ragione non sta mai da una parte sola”, “i torti e le ragioni si dividono”…in realtà questi sono solo modi di dire. La parte della ragione è un tiranno, non ammette dubbi o tentennamenti. La parte della ragione fagocita le regioni vicine, allarga il suo campo di azione. Ti fa invadere la Polonia a cuor leggero e al suono della Cavalcata delle Valchirie. Perché quando sei dalla sua parte, quando ti senti di farne parte, la sua musica ti avvolge e ti coinvolge, ti stordisce con il suo ritmo, con la melodia e alla fine non riesci più ad ascoltare altro.

Come dicevo qualche post addietro, chi sta dalla parte della ragione vanta dei crediti, più o meno esigibili, comunque sempre sacrosanti.

Io preferisco essere dalla parte del torto. Preferisco sentirmi in debito, ascoltare le ragioni degli altri e continuare a cantare le cose della vita. E se ho sbagliato a viverle, come cantava Venditti, non è finita. Non è mai finita. Tutt’al più significa che c’è ancora da imparare.

 

Ricambiare amore

Ma tutto quel che cerca e che vuole è solamente amore…

Fra i tanti errori che possiamo fare, c’è quello di pensare che ci debba sempre essere una reciprocità assoluta, una sincronia perfetta del dare e dell’avere. L’errore è pensare che ci sia una conseguenza logica fra un’azione che fai e quella che faranno altri in risposta. Ma non è così, non è quasi mai così.

Non è per bontà o per un generico e farisaico altruismo che dobbiamo pensare che non dobbiamo pretendere un ritorno. Non possiamo pretendere o neanche aspettarci indietro qualcosa, perché a volte (spesso? quasi sempre?) gli altri non sono proprio capaci di restituirci almeno una parte delle attenzioni, delle cure, dell’amore che siamo stati in grado di dare. Non è cattiveria. E’ questione di capacità. Come saper suonare il pianoforte o parlare il cinese. C’è chi è portato e lo impara solo ascoltando, c’è chi si impegna e con lo studio alla fine riesce e chi proprio è negato. Che ci vuoi fare?

Quache anno fa altrove scrivevo così…

Un giorno la mano destra e la mano sinistra decisero che era ora di tagliarsi le unghie. Cominciò la mano destra, che era quella più brava, quella più capace. E fece proprio un bel lavoro: tagliò e limò, pareggiò alla perfezione le unghie della mano sinistra seguendo con cura la forma arrotondata delle dita, rendendole tutte uniformi. Poi disse alla sinistra: “Vedi come ho fatto? Adesso tocca a te”. La sinistra prese in mano le forbici e… fece un disastro! Un’unghia era rimasta lunga, una mezza storta, un’altra era tanto corta quasi da far sanguinare il dito. Alla fine la destra, che aveva fatto un buon lavoro, era molto meno curata della sinistra, che invece era passata sulla sua compagna come un flagello divino.

Non c’è cattiveria nella mano sinistra. E’ semplicemente incapace. E per questo è inutile pretendere o semplicemente aspettarsi quello che non potrà mai dare. Forse è proprio sbagliato chiederle una cosa che sappiamo già in partenza non sarà capace di fare. In questo modo aumentiamo la nostra frustrazione per un attesa disattesa e anche il senso di colpa altrui, ammesso e non concesso che questo altro ce l’abbia. Ma il più delle volte è così.

Resterebbe da capire com’è che qualcuno è capace di imparare il cinese, di suonare il pianoforte, di tradurre in Italiano una guida sulla Route 66, e altri non sono nemmeno capace di tagliarsi le unghie. Possiamo stabilire con certezza che i primi siano meglio dei secondi? Che siano più bravi, più buoni o forse semplicemente più ricchi di talenti che altri non hanno? Resterebbe poi da stabilire chi campa meglio. Perché mica è detto cosa sia più soddisfacente, più realizzante: essere mano sinistra che riceve o essere destra che dona?

Ma soprattutto, tu faresti a cambio?