E’ la strada conosciuta, con i punti di riferimento, impressi nella mente, conosciuti come le tue tasche. Non ti spaventa il buio, la notte o il giorno, il sole o la pioggia, non conta nulla, non ha importanza, potresti continuare ad occhi chiusi. Conosci ogni momento, ogni passaggio, sai quel che c’è dopo. “Ancora, ancora una volta”. E’ la canzone che ti piace ascoltare e ancora e ancora: spingi il tasto replay e parte di nuovo, la prima nota e poi la voce, poi la chitarra, entra il basso lo sai, azzecchi l’attacco perché la sai a memoria, potresti cantarla e ricantarla, ancora, ancora una volta. E’ la tua storia che te lo chiede, sono le cose giuste che hai fatto, l’esperienza accumulata, quella che ti fa essere saggio, che ti fa cogliere la situazione, che ti mette in bocca le parole giuste, al momento giusto, nel tono giusto. Te lo chiede con dolcezza, te lo sussurra appena, suadente, femmina. “Ancora, ancora una volta”.
E sono gli errori, sono i vicoli ciechi, le svolte mancate, le parole sbagliate, i momenti inopportuni, i silenzi traditi, quelli che sai che fanno male, soprattutto dopo. Ma loro vogliono ferire, vogliono ferite aperte, vogliono sangue. E anche loro chiedono “ancora, ancora una volta”. E tu devi essere bravo a resistere, devi aspettare, devi solo aspettare perché sai che se passerà quel momento ce l’avrai fatta. Devi essere bravo a chiudere gli occhi e le orecchie, per poter chiudere la bocca e fermarti in tempo così da non fare quel passo in più. Per non versare quella goccia, per non spingere il coltello e non far uscire il sangue, il sangue che macchia e che sporca, la goccia che farà traboccare tutto il vaso. Anche se è lei. Sì, è lei, è proprio quella stronzissima goccia che vuole uscire, che sgomita, che spinge, che dice, anzi che urla, “ancora, ancora una volta”.
E allora in fretta, più in fretta, perché sta arrivando, la senti, la vuoi e nello stesso tempo la detesti, chiudi gli occhi e mandi giù, tutto d’un fiato. E brucia, stordisce e lascia senza fiato e grida “ancora, ancora una volta”. I vestiti pesano sulla pelle la incendiano e allora li togli, li strappi, via, via, in fretta, più in fretta. Come droga, come alcol, come il sesso. Conatus in suo esse perseverandi, ancora, ancora una volta, ancora una volta, ancora una volta, ancora una volta, ancora, ancora.
E’ questo il ritornello della nostalgia. E’ il sintomo della malattia del ritorno, da cui non c’è cura. Chi potrà salvarci? Perché se non sarai il mio salvatore, allora sarai la mia dannazione.