Giochi linguistici (in memoria di Tullio De Mauro)

In un’altra vita mi sarebbe piaciuto andare lassù nel Klondike, per diventare un cercatore di sogni d’oro. Ma forse sarebbe bastato essere un addetto alle pulizie, che riuscisse a lavare i denti così bene fino a schiarire le idee. Oppure vorrei essere un dietologo per dimagrire i discorsi, eliminando le parole ricche di grassi e di zuccheri superflui. O un ascensorista, così da mandare giù i bocconi amari tutti d’un colpo, senza passare dal via e ritirare le venti mila lire.

Però un giorno farò una grandissima partita a scacchi e riuscirò a dare scacco matto. Così matto da fermarmi ad un semaforo con la musica della macchina a tutto volume, scendere e improvvisare passi di danza al suono dei Beach Boys. Perché bisogna sempre cercare scomesse improbabili e obiettivi possibili, ma soprattutto è meglio aggiungere vita ai giorni che giorni alla vita.

Allora potrei ricaricare le batterie così da rimanere sempre collegato, prima di tutto con le realtà. Oppure potrei fare un corso di cucina, per imparare a elaborare idee originali. Certo la cosa migliore sarebbe diventare un nuotatore, per sapersi tenere a galla anche in un mare di guai. Anche se io preferisco le montagne: pensa che bello sarebbe diventare un maratoneta, per correre in salita lungo i più impervi percorsi mentali.

Peccato che in matematica non ero bravo, altrimenti all’università invece che filosofia avrei potuto fare architettura, così forse avrei saputo costruire un futuro diverso. Sicuramente non avrei potuto fare il poliziotto, anche se fare degli arresti cardiaci a volte poteva essere utile. Ma anche il giardiniere e curare le piantine, così da sapersi orientare anche senza navigatore: che poi perché il navigatore? Mica vado mai in barca. Mah!

Più di qualsiasi altra cosa però mi piacerebbe diventare un osservatore per guardare il mondo con gli occhi dei cani. Che forse non parlano, ma sicuramente un linguaggio ce l’hanno. Eccome se ce l’hanno.

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Ode cacofonica

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Monica era una donna laconica. Di lavoro faceva la fonica e aveva una faccia conica. Aveva una velocità supersonica, ma non era molto tonica, con una fame faranoica neanche avesse la peste bubbonica. Amava la musica polifonica, soprattutto quella radiofonica e suonava bene la fisarmonica.

Sembrava un po’ daltonica, perché aveva una casa canonica con una strana forma architettonica e in cima una bandiera nipponica che sventolava malinconica. Si trovava sulla costa ionica e aveva una piscina olimpionica.

Lì conobbe un uomo con una gran vena ironica, una tosse cronica e un’insana passione per l’elettronica. La loro relazione era molto poco platonica, così nacque una figlia.

Forse voi non ci crederete, ma la chiamarono Veronica.

(Il mio omaggio, un po’ minchione, anzi minchionico, alla più bella attrice nella storia del cinema italiano, anzi italionico)

Elogio della patata (con la scorza però eh!)

You like potato and I like potahto, You like tomato and I like tomahto, Potato, potahto, Tomato, tomahto. Let’s call the whole thing off.

La parola è ricca. Molto spesso è dura come un muro. Un muro molto spesso, contro cui vai a sbattere. Perché poi c’è il battere ed il levare. Ma se levi la parola che ti resta? Un distinto saluto o un saluto d’istinto, un attimo fatto d’istanti, che a volte ci lasciano distanti. Insomma ha ragione la mia amica Gloria (perché lo fai? per la gloria) che dobbiamo saper cogliere le sfumature, le tante faccie ed i mille volti, che più li rivolti, più trovi una svolta. Forse una volta era così, ma ora chissà, chi lo dice? Chi va giù, perché solo un giudice ce lo può dire.

La parola e i suoi mille significati, le metafore e le allegorie, che anche chi è allergico riesce ad apprezzare. Perché poter parlare non ha prezzo: poter esprimere, come fosse una spremuta, il pensiero con i suoi tanti rimandi e i suoi segreti mondi. Nei sagrati delle chiese e nelle vie più profane, dove donne diafane e giovani mulatti, si incontrano sui letti. E sono letti diletti, non di fiume, letti e riletti, ma sempre più ricchi. Perché, come diciamo a Roma, non ci fai mica micchi.

Non ci fai micchi e non rimaniamo secchi, perché la ricchezza della parola ci lascia sempre interdetti. Invero l’anno scorso avevo fatto un discorso e non lo dico per scherzo, non era poi così scarso, anche se dovevi andare al di là della scorza. Sarà vero? Chi lo sa, ma se lo dice la comunicazioni interna (interna? interna a che? meglio non indagare), allora ci dobbiamo proprio credere.

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