La storia racconta storie

Non è una novità, più o meno l’abbiamo sempre saputo, che quella che studiamo a scuola è la storia raccontata dai vincitori. Poi ci sono storiografie alternative che cercano di far emergere altre narrazioni: i nativi americani sterminati dall’avanzata degli europei, la strage silenziosa degli armeni, la verità dietro al colonialismo europeo in Africa. Ma anche a casa nostra, i filoborbonici che leggono la storia dell’unità d’Italia come una conquista del nord verso il sud, i nostalgici di Salò che difendono l’indifendibile.

Ormai da anni si è consolidata questa impostazione relativista della storiografia, che vuole mettere in luce punti di vista e quindi ricostruzioni diverse da quelle ufficiali. Ancora di più. Queste narrazioni diverse portano avanti una teoria della verità direi più drastica: non esiste un’unica verità, perché a seconda di come la racconti la realtà può diventare tutt’altra cosa rispetto a quella che credevi in un primo momento. Gli aggressori possono diventare liberatori, gli estremisti si confondo con i martiri, i migranti possono essere raccontati come invasori.

Ma se questo vale per la storia con la S maiuscola, quella che studiamo nei libri, vale anche per le storie più semplici, quelle che coinvolgono ognuno di noi personalmente e nell’interazione con gli altri. Qual è la vera storia della nostra famiglia? Le cose sono andate veramente come ce le hanno raccontate? Spesso queste narrazioni vengono fuori da un ricordo condiviso, quindi se anche inizialmente ci sono stati punti di vista differenti, con il tempo si sono mischiati fra loro, fino a consolidare una storia che possiamo considerare ufficiale, che alla fine diamo per scontata. A volte invece succede che il ramo materno viva le situazioni in un certo modo, che non è esattamente uguale a quello paterno. E allora nascono storie differenti, che possono addirittura andare a confliggere fra loro e noi possiamo essere sballottati e tirati per la giacca da una parte e dall’altra, così da entrare in uno dei due schieramenti.

La storia racconta storie e allo stesso modo tante storie raccontano la storia. Anche la nostra personalissima.Se rivediamo indietro gli anni passati, tramite i ricordi possiamo creare una narrazione di quello che ci è successo. Ma siamo certi che quella sia la storia autentica? Non sarà, come dice De Gregori, che tendiamo a confondere gli alibi e le ragioni e a costruirci la storia che ci fa più comodo? I ricordi e la nostalgia del passato sono spesso cattivi consiglieri, così come i rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. E così diventa facile riscrivere la storia, raccontarla come più ci fa comodo, mentre invece servirebbe un po’ più di sincerità. Soprattutto con noi stessi.

Mentre tu sei l’assurdo in persona e ti vedi già vecchio e scadente, raccontare a tutta la gente del tuo falso incidente…

La fata, Pinocchio e mangiafuoco

C’è solo un fiore in quella stanza
E tu ti muovi con pazienza
La medicina è amara ma
Tu già lo sai che la berrà

Mentre ieri nel nostro Paese, dall’inizio dell’anno, sono salite a 19 le donne vittime di femminicio (lo scorso anno furono 75, negli ultimi vent’anni 3344. Che significa che all’incirca da vent’anni a questa parte un giorno sì e un giorno no, una donna viene uccisa, quasi sempre fra le mura domestiche, da persone conviventi), Beppe Grillo si è lanciato in un’accorata difesa del figlio accusato di stupro e violenza di gruppo nei confronti di una sua coetanea. Arrestate me ha detto il comico/politico, si vede dal video che non c’è violenza e poi perché denunciare dopo 8 giorni?

E forse è per vendetta
E forse è per paura
O solo per pazzia
Ma da sempre tu sei quella che paga di più
Se vuoi volare ti tirano giù
E se comincia la caccia alle streghe
La strega sei tu

Ho due figli, una femmina ed un maschio, all’incirca coetanei dei protagonisti di questa vicenda e francamente non invidio Grillo, né tantomeno il papà di quella povera ragazza. A dirla tutta, non so neanche se sia peggio essere padre di una vittima o di un carnefice, quindi il Grillo genitore posso anche arrivare a comprenderlo. Se il suo fosse stato lo sfogo istintivo di chi vorrebbe difendere chi ama. Dopo di ché però bisognerebbe fermarsi e ragionare. E magari tacere. O chiedere scusa.

E insegui sogni da bambina
E chiedi amore e sei sincera
Non fai magie, né trucchi, ma
Nessuno ormai ci crederà

A volte le bugie (che diciamo prima di tutto a noi stessi) sono necessarie per continuare ad andare avanti. Di fronte al fallimento di una vita, di fronte al male assoluto, ci raccontiamo una realtà parallela, alternativa, che ci rende sopportabile il presente (e a volte anche il futuro). A volte più queste bugie sono grandi, più abbiamo bisogno di crederci e in fondo chi più di un politico è bravo a raccontare bugie? Forse un comico. Che però da un pezzo ormai ha smesso di far ridere. Il rischio allora è che da Pinocchio, ti trasformi in Mangiafuoco.

C’è chi ti esalta, chi ti adula
C’è chi ti espone anche in vetrina
Si dice amore, però no
Chiamarlo amore non si può
Si dice amore, però no
Chiamarlo amore non si può

Feltri, feltrini, censura e libertà

Voglio dire anche io la mia su questa polemica nata fra l’ex presidente della Camera Laura Boldrini ed il direttore dell’Huffington Post, Mattia Feltri. La Boldrini ha un blog sull’Huffington e in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne aveva scritto un post nel quale, fra le altre cose, criticava Vittorio Feltri (padre di Mattia), per un suo articolo in cui metteva in dubbio il ruolo di vittima di quella ragazza stuprata dall’imprenditore Genovese.

Si chiama victim blaming. Ed è parte, grande, del problema, rispetto a cui il ruolo dell’informazione è centrale. E mi riferisco polemicamente a quei giornali che fanno di misoginia e sessismo la propria cifra. Cosa dire del resto dell’intervento di Feltri su Libero, in cui si attribuiva la responsabilità dello stupro non all’imprenditore Genovese ma alla ragazza diciottenne vittima?

Il Feltri figlio chiama la Boldrini e gli chiede, per motivi di opportunità, di togliere “l’apprezzamento spiacevole” riferito al padre, altrimenti non avrebbe pubblicato il post. A quel punto la Boldrini rende pubblica la vicenda e pubblica il pezzo su Il Manifesto. Feltri figlio si giustifica dicendo che i Blog sono “ospiti” di Huffington e in quanto tali devono “sapersi comportare” e comunque, senza dover dare ulteriori spiegazioni è facoltà del Direttore della testata decidere cosa pubblicare e cosa no.

Chi mi conosce sa che da sempre sono l’uomo della mediazione al punto di averne fatto un abito personale prima ancora che professionale. Sono convinto che qualsiasi posizione possa essere arricchita se viene mediata da un punto di vista diverso: conciliare prospettive differenti porta a crescere, a maturare, ad aprire gli orizzonti. Ma nello stesso tempo sono altrettanto convinto che ci siano dei principi non negoziabili. La violenza sulle donne fa più vittime del cancro, degli incidenti stradali, di qualsiasi pandemia passata, presente e futura. Contrastarla non è negoziabile, non può esserci un punto di vista diverso da un’opposizione assoluta. Non esistono alibi, non esistono attenuanti, non sono ammissibili giustificazioni. Come il razzismo, come qualsiasi violenza o sopraffazione del forte contro il debole. Che ci sia gente che scriva sul giornale o esprima pubblicamente opinioni differenti è semplicemente spregevole, vergognoso, delinquenziale (d’altra parte Vittorio Feltri dall’estate scorsa è stato finalmente cacciato dall’ordine dei giornalisti).

Ma al di là dei contenuti della vicenda, ha ragione Feltri figlio o la Boldrini? Nessuno o forse meglio tutti e due. Che un direttore possa a suo insindacabile giudizio, decidere se pubblicare o meno un articolo, penso sia una regola di qualsiasi testata (anche se è chiaramente esplicitato che Huffington Post non è responsabile di quanto pubblicato nei Blog che ospita). E’ poi nella libertà di chi ci scrive continuare ad essere ospitato lì, oppure cambiare aria. Ancora di più, è libertà dei lettori decidere se continuare a dare fiducia ad una testata che decide di censurare un giornalista per motivi strettamente personali.

Ma soprattutto, senza voler fare come la volpe che disprezza l’uva a cui non può arrivare, capite perché Viaggi Ermeneutici non chiede ospitalità a nessuno e se ne sta bello tranquillo a casa sua?

Ogni cosa ha il suo prezzo, ma nessuno saprà quanto costa la mia libertà

La Repubblica Federale della Felicità

Se esistesse un luogo della felicità non potrebbe che essere una Repubblica Federale. Repubblica, perché nessuno può essere padrone della felicità, né della propria, né di quella degli altri; federale, perché una repubblica del genere dovrebbe riuscire a mettere insieme regioni spazio temporali diverse, che non potrebbero mai essere ridotte ad una unità.

Nella mia personale repubblica dovrebbero federarsi regioni molto distanti ed eterogenee fra loro: ci sarebbe la regione delle diverse età dei miei figli, solcate dai fiumi che hanno segnato il passaggio da un’età ad un’altra. In quelle valli mi piacerebbe fermarmi a lungo per non perdermi neanche la più piccola sfumatura, anche se poi la voglia di passare da una all’altra mi farebbe andare avanti. Lì vicino, confinante con questa, ci sarebbe la regione delle carezze di mia madre, dove mi fermerei per fumare un’altra sigaretta con lei, spettegolando un po’, parlando di futilità e di cose serie, ridendo un po’ di questo, un po’ di quello e un po’ di noi.

Nella federazione non mancherebbe la regione delle promesse mantenute, quelle fatte agli altri e quelle fatte a me stesso, gli impegni rispettati e le imprese ben riuscite, i goal segnati il giovedì, i libri scritti e quelli da scrivere. Lì in mezzo scorrerebbe il fiume delle cose perdute e poi ritrovate, che andrebbe a finire nel lago dei sorrisi regalati. In quella stessa regione ci sarebbero i ricordi delle cose dimenticate e le speranze dei sogni irrealizzabili.

Ovviamente nel giro da una regione all’altra sarebbe al mio fianco la compagna della mia vita. Ci sarebbero però zone in cui penso mi troverei da solo, perché la felicità si vive insieme, ma nasce quando sei solo. In una sorta di grande raccordo anulare tutt’intorno alla repubblica ci sarebbe la zona della musica, che da lì riuscirebbe a risuonare in ogni luogo.

Ci sarebbe la regione dei libri e fumetti e lì passerei moltissimo tempo, mentre in un’altra ci sarebbero i viaggi fatti e di quelli da fare. Le regioni non avrebbero confini fra loro e i cani potrebbero correre liberi da una all’altra. I miei cani, ma anche quelli degli altri, quelli vissuti, amati, ma anche quelli incontrati per strada, da una carezza e via.

E ti prendono in giro
se continui a cercarla
ma non darti per vinto perché
chi ci ha già rinunciato
e ti ride alle spalle
forse è ancora piu pazzo di te.

 

#MeToo o dell’Araba Fenice

Se una ragazza, vuole di sera andare sola per strada, non lo può fare, non è corretto che non sia accompagnata. Andare sola per la città e non c’è niente di male, ma una ragazza chissà perché, questo non lo può fare. Andare sola, per la città, mi sembra un fatto normale, ma una ragazza, chissà perché questo non lo può fare. E’ un incantesimo strano, che la colpisce da sempre, mentre il duemila, non è più tanto lontano. Tutte le sere rinchiusa in casa, ma questa volta ha deciso e vuole andare per la città sola col suo sorriso. Sola per strada col suo sorriso e chi può farle del male se ci saranno mille ragazze che la vorranno imitare…(Edoardo Bennato)

Così cantava oltre trent’anni fa il buon Edoardo. E sarà perché sono nato e cresciuto in una famiglia matriarcale, dove le donne erano (ma forse dovrei dire sono) le depositarie ultime delle scelte e delle decisioni. Sarà che – come dice una persona che mi conosce abbastanza bene – la mia parte femminile è abbastanza consistente. Sarà che io ho paura del sangue che mi esce se per caso mi faccio un taglietto la mattina con il rasoio, mentre voi – come un’Araba Fenice che risorge dalle proprie ceneri – avete una volta al mese un’emorragia e ogni volta ne uscite indenni e più agguerrite di prima.

Saranno queste e molte altre cose, ma io continuo a rimanere senza parole di fronte a quello che si legge. Che parecchi uomini pensino alle donne come una loro proprietà o semplicemente come una “cosa” di cui disporre a proprio piacimento non è una novità. Ma non può passare ancora come un’ovvietà, come una cosa inevitabile, vecchia come il mondo, come il fatto che la pioggia bagna. Come scrive prima e meglio di me la bravissima Povna, sottolineare che la pioggia bagna, anche poco, anche involontariamente (forse), ma sempre, in ogni occasione, dev’essere un imperativo categorico. Dev’essere la madre di tutte le guerre, perché è probabilmente la causa e l’origine di tutte le altre guerre.

Non a caso parlo della madre di tutte le guerre. Perché fino a prova contraria, ognuno di noi ha avuto una madre. E allora, amiche, sorelle, compagne di strada e di avventura, ricordiamoci noi maschietti, ma soprattutto voi, che tutto nasce da lì. Perché l’uomo di oggi, è il bambino di ieri. E ogni bambino diventa uomo in base a quello che ha visto, sentito, interiorizzato, a quello che gli stava intorno. Se volete uscire per strada sole con il vostro sorriso, dipende da quante ragazze vorranno farlo. Noi possiamo aiutarvi certo, possiamo darvi una mano, ma il grosso dipende da voi.

Le ragazze fanno grandi sogni (e qui d’altra parte siamo noi)

“Le ragazze fanno grandi sogni, forse peccano d’ingenuità, ma l’audacia le riscatta sempre, non le fa crollare mai.”

In fondo è così, non serve girarci troppo intorno. Non è nemmeno una questione di merito forse. O forse sì. Non te lo insegnano a scuola, non lo si impara sui libri. O forse invece sì.

Puoi giudicare le persone dai soldi che hanno. Dalla loro cultura. Dal potere che gestiscono. Puoi valutarle dai successi o da quello che sono riuscite a costruire. Puoi evitare di giudicarle, che forse (anzi, senza forse) sarebbe la cosa migliore da fare. Oppure puoi valutarle in base ai sogni che fanno, sulle loro aspirazioni, in base agli obiettivi che si prefiggono.

Perché in fondo non è poi così importante la sconfitta o la vittoria: anche se ce la mettiamo tutta, anche se ci alleniamo per ore, per giorni o settimane, anche se proviamo a superare noi stessi e i nostri limiti, a volte la vittoria o la sconfitta non dipende da noi. Quello che invece dipende sempre da noi e solo da noi, è a quale gare partecipare, per quale obiettivo partecipare.

Così magari, scartabellando fra vecchie carte, esce fuori da un cassetto un sogno vecchio di venticinque anni. Eccolo qui, intatto, integro, inalterato. Tre aggettivi che iniziano con in. Allora ne aggiungo un altro: incredibile. Ora come allora ti chiedi, perché no? Ti chiedi perché avevi deciso di chiuderlo lì dentro e di lasciarlo lì a poltrire. Ti sorprendi ad immaginare cosa sarebbe successo se avessi provato a seguirlo, dove saresti ora e come sarebbe la tua vita.

E anche se non rinneghi nulla, anche se tutti i sogni e gli obiettivi scelti allora e perseguiti in questi anni continuano ad avere la loro importanza, devi ammettere che anche quel sogno non era poi male. A dirla tutta, non era affatto male.

E qui d’altra parte siamo noi, incerti ed affannati siamo noi, sicuri e controllati siamo noi, convinti e indaffarati siamo noi che non ne veniamo mai a capo. Mai a capo.

Ode cacofonica

vitti_monica

Monica era una donna laconica. Di lavoro faceva la fonica e aveva una faccia conica. Aveva una velocità supersonica, ma non era molto tonica, con una fame faranoica neanche avesse la peste bubbonica. Amava la musica polifonica, soprattutto quella radiofonica e suonava bene la fisarmonica.

Sembrava un po’ daltonica, perché aveva una casa canonica con una strana forma architettonica e in cima una bandiera nipponica che sventolava malinconica. Si trovava sulla costa ionica e aveva una piscina olimpionica.

Lì conobbe un uomo con una gran vena ironica, una tosse cronica e un’insana passione per l’elettronica. La loro relazione era molto poco platonica, così nacque una figlia.

Forse voi non ci crederete, ma la chiamarono Veronica.

(Il mio omaggio, un po’ minchione, anzi minchionico, alla più bella attrice nella storia del cinema italiano, anzi italionico)

E vissero tutti felici e contenti

Le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono. Perché questo i bambini lo sanno già. Le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti (Gilbert Keith Chesterton)

Poi ad un certo punto si cresce e non si crede più nelle favole. Di solito allora succede che non si crede più nemmeno che i draghi possano essere sconfitti: si comincia a credere che i draghi siano invincibili, che probabilmente sia inutile anche combatterli, che convenga piuttosto arrendersi e farci amicizia. allora si esce dalla favola e ci si arrende alla realtà.

In quella realtà in cui non ci sono principesse da salvare, mulini a vento da sfidare, burattini senza fili, ragazze ninja che si mascherano da uomini, orride bestie che diventano uomini bellissimi, lupi cattivi e nonne buone (da mangiare), streghe da sconfiggere, gatti che suonano il jazz, coccodrilli che mangiano sveglie e lepri con il panciotto.

Ma invece bisogna tornare a crederci alle favole. Alla morale della favola, che poi altro non è che la favola della morale. Seguendo la seconda stella a destra alla fine il drago sarà sconfitto. Alla fine “e poi vissero felici e contenti”. E  se non siamo felici e contenti vuol dire semplicemente che ancora non siamo alla fine.

 

Perché scrivo post così minchioni

Si è vero, sono io il più bravo, si è vero, sono io il più bravo, nessuno è bravo come me! Si è vero, sono io il più saggio, sono io il più intelligente e vuoi sentire come canto bene.

Come spesso gli capita il mio amico Zeus (quando non scrive di musica al cui ascolto preferirei di gran lunga essere chiuso in ascensore con uno che soffre di aerofagia), con questo post, pone una questione centrale, una domanda minchiona, ma allo stesso tempo nevralgica sulla sanità mentale di chi scrive su un blog.

Non credo a quelli che dicono di scrivere per se stessi. Come diceva Eco “l’unica cosa che scriviamo per noi stessi è la lista della spesa per il supermercato“. Tutto il resto lo mettiamo in comune, lo tiriamo fuori e lo rendiamo pubblico. Ci fa piacere che qualcuno lo legga, lo commenti, lo trovi bello? Se non è così, evidentemente, abbiamo qualche problema (che poi, in realtà già il ritenere di scrivere qualcosa di bello, qualcosa che qualcun’altro trova interessante, di per sé nasconde a suo volta qualche problema). Scrivere è un modo di esprimersi, di mettere in gioco se stessi, come dipingere, suonare, cucinare, amare. Lo si fa solo per se stessi? Perché mai? Oddio, non sto dicendo che le attività onanistiche siano prive di soddisfazione, però, insomma di solito ci si diverte di più in compagnia. Sulla questione specifica avevo già scritto qui e non penso ci sia tanto da aggiungere.

Tornando alla domanda di Zeus, come ho già scritto altre volte, il blog nasce dal mio profilo Facebook ed è un legame che non si è interrotto, né ho intenzione di interrompere: sono due facce della stessa medaglia, anzi la faccia è una sola ed è la mia. Vi piace? Sono contento. Non vi piace? Me ne farò una ragione. Non scriverò di più, né di meno per questo. Scrivo quello che mi passa per la capa. Siano minchiate (molto spesso) o cose più seriose, comunque riflettono il mio stato d’animo. Ho scritto post per scaricare la rabbia o per dare spazio alla gioia. Li ho scritti per una persona che sapevo li avrebbe letti, per dirgli qualcosa che solo lei avrebbe capito. E ho scritto cose per qualcuno che non li avrebbe mai letti. Ma io avevo bisogno di scriverli. Ho scritto storie che mi frullavano per la mente, che erano nate e sarebbe morte lì, ma mi dispiaceva, perché erano storie che pensavo valesse la pena raccontare. Molto spesso al termine dei post metto una canzone, che nella mia mente dovrebbe fare da sottofondo alla lettura, dandogli il giusto accompagnamento, il tono, il colore, il sentimento che avevo mentre la scrivevo.

Riguardo gli altri blog. WordPress mi dice che seguo 323 blog…ma neanche se non avessi nulla da fare tutto il giorno potrei seguirli tutti! Alcuni me li perdo per strada, altri non capisco neanche più perché avevo scelto di seguirli. Ma alcuni li amo! Ci trovo sempre spunti, riflessioni, immagini, assonanze che mi piacciono quasi a prescindere. Lo confesso, verso alcuni sono un everything likers e manco me ne pento (perché dovrei). E infatti con molti di questi non potevo limitarmi al blog e sono nate belle amicizie anche al di fuori di qui. A volte li leggo dal blackberry e quindi commentare diventa complicato, a volte ci ritorno dopo anche solo per leggere i commenti altrui.

Non ho risposto all’alternativa posta da Zeus. Non sono il Re dei un’isola deserta, non perché non sia Re (delle minchiate), ma perché non vorrei che il blog fosse un’isola, tanto meno deserta. Ma non credo neanche nel blog sociale. Questo è il mio blog, è una traccia di me: per questo (come ho fatto anche stavolta) spesso richiamo post precedenti. C’è un filo logico (magari di una logica minchiona), che dovrebbe legare i post, creando un collegamento, una coerenza di fondo. Sono assolutamente graditi i commenti e i contributi di tutti coloro che pensano di avere qualcosa da dire qua sopra, ma non lo condividerei con nessuno (infatti faccio spesso richiami ad altri blog e amo farlo perché mi piace sempre dare consigli non richiesti, ma non ho mai ribloggato articoli altrui qua dentro).

Nietzsche prima di uscire totalmente fuori di testa (ma già sulla buona strada per farlo) scrisse il famoso Ecce Homo: un libello in cui si scagliava contro tutto e tutti, in cui il terzo paragrafo si intitola “Perché scrivo libri così belli“. Ecco, se un giorno doveste leggere un post con quel titolo, abbiate pazienza e ricordatemi per come ero prima. Non fiori, ma minchiate a fin di bene.

Nel covo dei pirati

Nel covo dei pirati c’è poco da scherzare
chi non si arruola finisce in fondo al mare.
Finanche i più convinti, finanche i più decisi
a denti stretti si sono tutti arresi.

Eccoli i pirati, i cattivi pensieri, oscuri e malvagi che attraversano la mente. Possiamo non dargli confidenza, come in metropolitana, quando sale il bullo di turno. Possiamo continuare a leggere, fingendo noncuranza, ignorando il loro sguardo provocatorio su di noi. Possiamo sperare che scendano alla prossima fermata, che spariscano in fondo al vagone, che se ne stiano in un angolo senza disturbare più di tanto.

Tu invece sei la sola che va così sicura
sul trampolino di Capitan Uncino
Ma dimmi come fai a non aver paura
o sei incosciente oppure sai che è un sogno
che non dura! Come sei brava a raccontare
ad inventarti quelle avventure
sembrano vere, che fantasia che hai!

Possiamo sperare che la loro presenza nella nostra vita sia fugace e ininfluente, che domani non vi sia più traccia di loro e che il sole torni a splendere. Un ricordo senza memoria, ecco il massimo che possiamo concedere loro.

Continua il tuo racconto, mi sembra di vederti
al punto giusto lui arriverà a salvarti.
Tutte le tue avventure son belle da sognare
però nei sogni non ti puoi rifugiare.
Non vedi il tempo corre e non lo puoi fermare
diventi grande e ti vogliono cambiare.
e questo ti spaventa, i grandi sono strani
fanno paura più dei pescecani.
Ma proprio adesso ti vuoi fermare
non ti interessa di far vedere se
È proprio vero che non ti arrendi mai!

Spesso hai provato a spiegare agli altri come si affrontano i pirati. Dall’alto della tua forza apparente o della tua reale faccia tosta, hai indicato la strada per sconfiggerli. Qualche volta ci sei riuscito, qualche volta no. Ma ce l’hai sempre messa tutta, perché a volte è più facile dare ascolto ad un estraneo, piuttosto che a se stessi.

Nel covo dei pirati c’è poco da scherzare,
chi non si arruola finisce in fondo al mare
Ma tu con i pirati già sai cosa fare
è un tuo vantaggio e non ci rinunciare!

Tu già lo sai cosa fare
è come nei sogni, è come nelle avventure
ma il principe azzurro stavolta forse non viene
e contro i pirati dovrai lottare davvero!

Sei inutile, ed è inutile provare a cambiare le cose. C’è sempre un tornaconto, non esiste la spontaneità. Anche la più grande generosità è una maschera dell’egoismo. Non puoi spiegarti, nessuno ti può capire, perché non c’è niente da capire e niente da spiegare. Ti illudi di vivere insieme, ma si muore da soli.

Ma ormai già lo sai dai pirati cosa ti puoi aspettare?
Ti potranno insultare, minacciare, in fondo è il loro mestiere!
Ti faranno i versi, la boccacce, ti faranno le facce scure!
E’ per questo che si allenano davanti allo specchio
quasi tutte le sere! Ma lo fanno per cercare di vincere le
Loro stesse paure!

Mentre tu facevi finta di pensare ad altro quelli sussurravano il loro veleno. Ma non c’è antidoto. Li hai sempre ignorati, non gli hai dato peso, hai fatto finta che non ci fossero. Non gli hai mai rivolto la parola. Hai finto di non ascoltare, li hai lasciati entrare ed uscire come se tu non fossi lì, come se non stessero parlando con te. Il coraggio di combatterli non ti è mai mancato. Perché ci sono battaglie che vale la pena combattere, anche se sai che difficilmente riuscirai a vincere.

Ormai già lo sai dai pirati cosa ti puoi aspettare?
Ma è proprio questo il tuo vantaggio e non ci rinunciare!
Ormai già lo sai dai pirati cosa ti puoi aspettare?

Peter Pan