La mossa del supereroe

Nessuno ti aveva detto che sarebbe stato semplice. Ma nemmeno ti avevano detto che sarebbe stato così faticoso. Altrimenti pigro come sei avresti cambiato idea. O avresti chiesto aiuto. Invece te la devi cavare da solo, perché nessuno può aiutarti. Ma tu non hai bisogno di nessuno. Solo di te stesso. Solo della fiducia in te stesso. La stella è lì, aspetta solo te per essere raggiunta. Qual è la prossima mossa?

La mossa del supereroe.

C’è uno studio scientifico che dimostra che se tieni questa posizione da supereroe per 5 minuti prima di un colloquio o una presentazione importante o un lavoro difficile, non solo ti sentirai più sicuro, ma andrà sensibilmente meglio.”

“Davvero?”
“Davvero. Lo senti?”
“Siamo supereroi”
“Siamo supereroi”

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Ora assumete la posizione. Mani sui fianchi, petto in fuori, sguardo in alto, fissate la vostra stella.

Tu sei la mia persona

In fondo si tratta semplicemente di credere in qualcosa che non si vede. Le storie che raccontiamo, quelle che scriviamo, le storie in cui vogliamo credere e quelle che inventiamo di sana pianta. Tutte le storie sono eteree e impalpabili, ma non per questo non sono reali. Anzi, sono assolutamente reali. Dicono che l’amico, la persona che ti vuole bene, è quella che ti apre gli occhi, quella che ti sta vicino e ti aiuta a scegliere bene. E sì, forse è così. Ma l’essenziale è altro.

L’essenziale è avere la speranza di farcela. Nessuno ne ha la certezza, tranne forse quei gran culi che vincono le lotterie. Ma se non hai in tasca un biglietto vincente o un sei al superenalotto, se non vivi nelle favole, ma nella realtà, allora devi solo avere la forza per sperare. E questa sì, certo, ce l’hai dentro, la costruisci negli anni, compiacendoti delle vittorie e rialzandoti dopo le sconfitte, ma non basta. Non può bastare. Devi avere anche qualcuno che la condivida con te. Devi avere qualcuno che ci creda con te.

E non è nemmeno un discorso di verità o bugia. Non conta davvero se pensi seriamente che sia così o invece hai forti dubbi. No, non è quello. Ciò che resta, alla fine della storia, è che tu riesca a sostenere questa speranza, a dargli forza, a farla crescere, a spingerla in avanti quando da sola non ce la fa. A soffiargli vento se c’è bonaccia, in modo che le vele riprendano forma, a dargli una spinta se il motore si è inceppato, così da farlo ripartire. Non si tratta di credere nelle favole. La realtà è molto più brutta della favole. E’ molto più triste e drammatica. Ma anche molto più ironica. Molto, molto più ironica. Per questo si tratta semplicemente di credere che possiamo farcela. E di avere qualcuno che ci aiuti e ci sostenga in questa speranza.

Per questo forse un amico normale non ti basta mica. E nemmeno l’amore ti basta, perché forse non è la persona amata che riesce a fare questo. Non si può fare tutto e non si può essere tutto nella vita degli altri. Per questo devi trovare la tua persona.

 

 

Grey’s Vergata parte seconda

(da leggere – preferibilmente – dopo aver letto la prima nota con lo stesso titolo)

Dovendo proseguire il discorso iniziato con l’altra nota, potrei cominciare con un “E invece…”

E invece non è proprio così.

Non sono poi così male organizzati.

Anzi, diciamola tutta. Le cose sembra proprio che funzioni come si deve.

Chi l’avrebbe mai detto?

45 giorni dopo, chilometri e chilometri passati sul Raccordo Anulare in macchina sotto al sole, panini su panini mangiati in piedi di corsa solo per poter fare due chiacchiere con lui, mi debbo ricredere.

Ma a farmi ricredere non è stata la pulizia delle stanze o la precisione delle visite e dei controlli. Non è stata nemmeno la professionalità dei dottori o la disponibilità degli infermieri.

No. A farmi ricredere è stata una dottoressa con le crocks rosse, i jeans sdruciti, una voce da contralto, l’aria sempre stanca e un sorriso contagioso.

Una dottoressa che non solo gli ha dato la terapia giusta. Ha passato del tempo con lui.

Non solo gli ha controllato i valori delle analisi. Gli ha sempre regalato un sorriso.

Non solo è stata a sentirlo. Gli ha raccontato la sua vita.

Insomma non ha solo curato papà. Si è presa cura di lui.

Come dice il poeta, la differenza salta agli occhi!

E improvvisamente mi ha colto questo pensiero.

Noi costruiamo case, facciamo quadrare i conti, affrontiamo cause in tribunale, scriviamo articoli sui giornali, insegniamo latino o matematica, consegniamo lettere, coltiviamo grano o vendiamo salumi.

Chi fa il dottore salve delle vite.

Ognuno di noi ha delle soddisfazioni o delle delusioni nel lavoro.

I dottori fanno uscire con i propri piedi gente che entra da loro seduta, quando ve bene.

E quando va male li lascia andar via sdraiati.

E’ una banalità, me ne rendo conto. Ma forse è così banale che ce lo scordiamo.

Quindi amici cari, la prossima volta che saremo orgogliosi o giustamente compiaciuti con noi stessi per un buon risultato lavorativo, ricordiamoci sempre che non abbiamo salvato nessuno.

E quando saremo incazzati, depressi o distrutti perché un risultato non è stato raggiunto (ve lo dice uno che questa settimana ha visto…la mia fine sul tuo viso), ricordiamoci che c’è chi deve sopportare il peso di qualcuno che non c’è più.

E infine, visto che ho letto che Patrick Dempsey lascerà Grey’s Anatomy, io un salto a Tor Vergata glielo consiglio.

Lì c’è una dottoressa molto, ma molto meglio di Meredith!

Grey’s Vergata

A Seattle piove. Spesso. E fa pure freddo mi sa.

A Roma c’è il sole. Quasi sempre. E comincia a fare caldo.

Le cose positive però si fermano qui.

Al Seattle Grace arrivano le ambulanza piene di malati che vengono accolti direttamente sul piazzale da medici e infermieri che in quattro e quatr’otto li visitano, li ricoverano e li curano senza dargli tempo neanche di capire dove sono.

Papà è stato sei giorni all’astanteria del Pronto Soccorso di Tor Vergata, in mezzo a tossici, malati di mente e delinquenti con guardie di scorta al seguito. Poi finalmente gli hanno dato un letto in un reparto.

Al Seattle Grace i medici hanno a disposizione macchinari perfetti, sono in contatto con tutti gli ospedali degli Stati Uniti. Le stanze dei pazienti sono fantasmagoriche, piene di confort per i malati e gli ospiti.

A Tor Vergata, nella stanza che bontà loro sono riusciti a tirar fuori, durante la prima settimana c’era la serranda rotta e il telecomando della tv funzionava quando gli pareva a lui.

Al Seattle Grace i parenti dei malati parlano tranquillamente con il capo Webber, responsabile medico dell’ospedale.

A Tor Vergata se riesci a parlare con uno specializzando di turno che forse, fra gli altri, segue il paziente che interessa a te, ti sembra di aver vinto a Win for Life!

I medici del Seattle Grace sono belli, bellissimi! E quando non sono belli come Meredith o Shephard, sono tipi che hanno fatto almeno una guerra in Iraq (Owen e la Altman), oppure hanno personalità spiccate come Cristina Yang.

I medici di Tor Vergata ce la mettono tutta, questo non gli si può negare.

Insomma, cari dottori che devo dirvi? Siete disorganizzati, sotto dimensionati, probabilmente anche mal pagati, pretendere che siate cortesi e disponibili forse è troppo. Speriamo almeno sappiate fare il vostro lavoro.

Forse avrò visto troppi episodi di Grey’s Anatomy. Però, osservandovi in questi giorni un dubbio mi assale: ma non sarà che, rispetto a loro, trombate troppo poco?