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Peccati di armocromia

Non avrei voluto tornare sugli eventi calcistici recenti, anche perché perdere un derby non fa mai piacere. Qui nella capitale i risultati sportivi scarseggiano e quindi il dominio cittadino resta spesso l’unica soddisfazione che le nostre due squadre riescono a darci. Di conseguenza il peso di una sconfitta o di una vittoria è esageratamente maggiore rispetto ad altre città, dove al contrario i traguardi sono più alti e gli obiettivi più elevati.

Non a caso dico esageratamente perché poi insieme al sano sfottò, ormai da anni, attorno ai derby si concentrano tutte le peggiori situazioni legate al calcio: episodi di razzismo, ma soprattutto di violenza che sono incomprensibili ed ingiustificabili sotto tutti i punti di vista. Quale romanista non ha un amico laziale e viceversa? Nulla può giustificare la violenza, figuriamoci per una gara di calcio. Calcio che, se ti fermi per un attimo a pensare razionalmente allo sproposito di soldi che fa girare, ai privilegi che garantisce, alle sperequazioni su cui si basa, al Sistema (nella peggiore accezione del termine) che lo muove, bisognerebbe chiedersi come faccia a muovere ancora l’interesse di tanta gente.

Ma proprio la rivalità cittadina è una delle poche cose che continua a farmi appassionare a questo sport, che ormai tutto è tranne sport. Il gusto di confrontarsi con l’amico di sempre, gli scherzi e le prese in giro, restano davvero fra le poche che danno senso ad una cosa che in realtà non ce l’ha. E quindi veniamo a quello che è successo sabato dopo la partita.

L’autore del goal della Roma, onesto gregario che diventa eroe per un giorno, festeggia a fine partita sventolando una bandiera datagli dai suoi tifosi, sotto la curva festante. Una bandiera con i colori dei rivali e l’effige di un topo. Sventola, sventola, qualcuno gli avrà detto che forse non era proprio la cosa più elegante da fare e quindi nella successiva intervista, meglio di uno Scajola qualsiasi, si è subito prodigato a dire che lui non sapeva, non voleva, nessuna offesa, me l’hanno data i tifosi, non avevo visto cos’era.

Ripeto, lo sfottò è il condimento essenziale dei derby. Ci sta tutto: l’ironia, la presa in giro, persino le offese (magari eviterei di tirare in ballo i morti, ma poi ognuno si regoli come vuole). E’ lo stesso discorso della satira: il politicamente corretto riserviamolo alle cose serie. Facciamoci una risata sopra, oggi sei incudine, domani sarai martello. Quindi va bene la bandiera o quello che ti pare. Avrei evitato le scuse, perché non dovute, non volute, non apprezzate e autentiche come una moneta da tre euro.

In quella rivalità di cui sopra ognuno concentra nella squadra avversaria tutto ciò che ritiene negativo, tutto quello che non gli piace: voi coatti, voi burini, noi nati prima, noi unici veri romani, e potrei continuare per ore. La semplificazione del noi e voi, dei buoni e cattivi è automatica in una realtà con due facce contrapposte ed insieme inseparabili come questa. Poi, ripeto, fra i miei migliori amici, fin da bambino, ci sono romanisti e a parte vedere il derby insieme, non rinuncerei mai a stare insieme una serata con loro.

Però se nella credenza vedo due bicchieri giallo e rosso vicini (tipo quelli di plastica di Ikea), io li devo separare. O quando ci sono i panni stesi, se ci sono due mollette o qualsiasi altra cosa che metta insieme quei due colori, via via per carità. E’ una questione estetica, che tracima nell’etica: quell’accostamento per me è raccapricciante, come il gesso sulla lavagna, il sale nel caffè, una scoreggia in ascensore. Quindi quello che mi domando è come vi viene di sventolare una bandiera con i colori di “quegli altri”? Non vi fanno male gli occhi? Non avete un senso di repulsione, di fastidio a livello fisico? O forse, sotto sotto, anche se non lo ammettereste mai, riconoscete che i nostri colori, i colori del cielo e del mare, sono i più belli che esistano?

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Metasemantica Sarriana

E così anche il Comandante Sarri ha dovuto archipattarsi alla situazione. Proprio lui che affistellava gli altri con un eloquio sdareddo, che non lasciava mai sostiri o malgiurisdi, si è dovuto mastrappare venendo meno ai grandi sogni. I giocatori da parte loro si sono subito affistellati a sdolgiornare la loro posizione, forse scantesi che un domani qualcuno potesse asdordinare proprio a loro l’accaduto. E in parte è così. Così come in parte la responsabilità è pure nell’ostigaria che Sarri ha sempre messo nelle scelte. Ma lui è malverscio, si sapeva, pensare di ordinizzarlo era pura pancrasia!

In ogni caso sappiamo tutti chi è il vero e quasi unico distorgabile di quanto successo: l’immanordabile Lotito, che passa pure per concleso, come se non fosse contento di risparmiare un po di sderenghi e ricominciare con qualche altro maltorvisato. Ora si parla di Tudor. Certo, visto mai si scegliesse un caripante col DNA laziale!

Noi comunque lo accoglieremo con la solita sdarenga bentornista e l’entropismo che non ci manca, perché in fin dei conti, hai voglia a dire che è solo un torgio e che le cose sdruse sono altre, ma cos’è che ci fa sdremare il cuore, cos’è che allonia o sdirupa le nostre giornate, se non le sorti della nostra beneamata? E quindi, che sarà sarà, in alto i cuori fratelli biancocelesti, che prima o poi l’astragante ci sorriderà.

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La potenza della narrazione. 1/Quel gran genio di Jose Mourinho

I lettori sono personaggi immaginari creati dalla fantasia degli scrittori (Achille Campanile)

La civiltà nasce quando gli uomini non si limitano più a vivere, procacciandosi il cibo e cercando di riprodursi, ma cominciano a raccontare delle storie. Quando vivere la realtà non gli basta più, ma hanno il bisogno di creare una realtà diversa, interpretando quello che è successo, immaginando quello che accadrà. Cambiano i mezzi, ma non gli obiettivi: i racconti orali intorno al fuoco, i primi scritti nei papiri e poi i libri nelle biblioteche, il cinema, i film, le serie sulle piattaforme digitali, di fondo sono la stessa cosa. La realtà così com’è non è sufficiente: come esseri umani abbiamo la necessità di raccontare delle storie. Persino il Figlio di Dio venuto sulla terra si è espresso attraverso le parabole. Oggi magari avrebbe fatto dei video su tik tok.

Ed anche nella forma più semplice, ogni racconto non si limita a descrivere oggettivamente quello che succede: non esiste cronaca che non sia interpretazione dei fatti. E come diceva allegoricamente Achille Campanile, ogni racconto è fatto per qualcuno a cui è rivolto. Dalle favole (perfette metafore della realtà) ai racconti più impegnati, chi crea la storia si immagina anche l’interlocutore e plasma il suo racconto sulla base di questo. Per questo dice bene Umberto Eco, che l’unica cosa che scriviamo per noi stessi è la lista della spesa.

E chi sono i narratori migliori che travalicano il tempo e restano a futura memoria? Quelli capaci di racconti straordinari, che non si limitano a descrivere, ma creano realtà. Dante, Shakespeare, Tolkien solo per citare gli scrittori, ma potremmo continuare citando registi o autori di canzoni, perché in ogni campo si può applicare questo principio. Anche nel calcio. E qui senza dubbio dobbiamo toglierci il cappello e riconoscere l’assoluta grandezza di Josè Mourinho.

Che al di là delle capacità come allenatore (26 titoli vinti in carriera dal Portogallo, all’Inghilterra e all’Italia non lasciano dubbi) ha delle straordinarie doti di narratore, di creatore di storie. Prima di essere un allenatore infatti Mou è un personaggio: non si limita a spiegare ai giocatori schemi o tattiche, lui diventa il simbolo della sua squadra, ne incarna lo spirito. Ed in questa narrazione è il condottiero di un popolo, divide i buoni dai cattivi, individua i nemici, si prefissa il lieto fine, l’Obiettivo finale verso cui andare dritti, senza indugi.

Si dice che la storia sia scritta dai vincitori. “The Winner takes it all“, dicono gli inglesi. Non c’è posto per chi perde. Forse nella realtà, ma con la potenza della narrazione si riesce ad andare oltre, si riescono a creare dei miti e delle leggende destinate a durare nei secoli. C’è il signor Taylor un arbitro inglese (figlio della perfida Albione, riferimento culturale perfetto!) che improvvisamente diventa il Nemico (chissà poi perché un arbitro inglese dovrebbe avercela contro una squadra italiana, per favorire una spagnola). Ci sono episodi della partita volutamente tralasciati (un goal a favore probabilmente viziata da un fallo, un rigore tolto agli avversari) ed altri insistentemente sottolineati (un possibile rigore non dato, un’espulsione negata). C’è una lotteria dei rigori inspiegabilmente caduta nel dimenticatoio. Tutto per poter dire il giorno dopo, noi questa finale l’abbiamo vinta!

Ora il capolavoro finale. Con un’uscita di scena che viene già raccontata non come la certificazione del suo fallimento, piuttosto come il tradimento degli amici, altro grande archetipo di ogni narrazione (già si sussurra i nomi dei calciatori che gli avrebbero remato contro). Così non si ricorderà che questo è il quarto esonero negli ultimi quattro incarichi avuti. Né tantomeno che grazie a questi esoneri è riuscito a guadagnare 96 (NOVANTASEI) milioni di euro senza lavorare. Il tutto per far sì che la narrazione che ne viene fuori sia quella dell’eroe vittima del destino cinico e baro, di nemici infidi che riescono a vincere solo con l’inganno, di amici che lo pugnalano alle spalle. L’eroe sconfitto, ma mai domo, che vince anche se ha perso.

Un genio assoluto.

P.S. Per la cronaca, il vituperato Taylor è stato eletto da una giuria di esperti fra i migliori arbitri europei del 2023. Ma anche questo è un dettaglio che la storia dimenticherà.

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Il mio amico Vincenzo

Anche Vincenzo. Il più piccolo, il cucciolo della compagnia, genio e sregolatezza. Apparentemente indolente, sempre con quell’andatura leggera, quasi a camminare sulle punte, a danzare sul campo di calcio come sulla vita.

Io sono convinto di una cosa, sarà paradossale, sarà una semplificazione della realtà, ma io ci credo: si gioca a pallone, come si è nella vita. C’è quello determinato, quello che con la tigna sopperisce alle scarse doti tecniche; c’è quello che sembra tranquillo e poi fa entrate da assassino; quello che punta solo sull’estetica, con poca sostanza, l’egoista nasto per il goal e quello che gode a far segnare gli altri. D’altra parte il calcio è la nostra metafora della vita, perché non dovrebbe essere così?

E quindi, anche se ci siamo parlati una sola volta, per strada, due minuti, qualche anno fa in via degli Scipioni e tu non eri più il cigno che incantava i miei pomeriggi allo stadio, io penso di conoscerti. Ho l’assurda pretesa di sapere com’eri. Genio e sregolatezza dicevamo, imprevedibile come un dribling, spiritoso come un tunnel, magari un po’ superficiale come una punizione buttata via senza convinzione. Uno con cui non era difficile diventare amici, perché sapevi sempre dove trovarlo, in campo, come nella vita: tu c’eri sempre, nella buona, come nella cattiva sorte, ci sei sempre stato.

Qualcuno dice che non si debba mai sfidare il destino. Andare in paradiso a dispetto dei santi può portare conseguenze imprevedibili, molto spesso negative. Ed effettivamente è così: raggiungere un obiettivo contro tutto e contro tutti può portare molte soddisfazioni, ma spesso sul medio e soprattutto sul lungo periodo, gli effetti che determina sfuggono alle nostre previsioni.

Quella banda di pazzi che circa cinquant’anni fa vinse lo scudetto, il primo scudetto nella storia della Lazio, sembra ricadere in pieno questa previsione. Una squadra nata dal nulla, con gli scarti di altri, che un tragico destino ha falcidiato nei modi più imprevedibili. Ma io non credo che sia così. Ed anzi, se vogliamo restare nelle metafore, Vincenzino se n’è andato il primo luglio, il primo giorno del calciomercato: forse il CT del paradiso aveva bisogno di genio e sregolatezza e tu non potevi far aspettare ancora Giorgio, Pino, Luciano, il mister Tommaso e tutti gli altri.

“Dagli aquilotti, nun te poi sbaja’. Su c’è er maestro, che ce sta a guarda’”

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Non avrei voluto parlare di calcio

Soprattutto non avrei voluto parlare dell’ennesima finale persa dai cugini. Non sono dell’umore giusto per ironizzare. E poi, fra loro ci sono degli amici fraterni che non è bello veder soffrire. Qualcuno di loro aveva a stento superato quello che successe il 30 maggio di 39 anni fa: vincere questa non poteva certo ripagarli, ma certo perdere nuovamente ai rigori, riapre ferite antiche.

Il calcio è crudele, meritocratico solo fino a un certo punto e ama ripetere percorsi già compiuti. La tradizione ha il suo peso, così come la scaramanzia, o la casualità di un pallone che entra o esce per pochi centimetri. Per questo lo amiamo e per questo ci fa perdere il sonno, in modi spesso esagerati, immotivati, irragionevoli. La vittoria ti manda in estasi, ma anche la sconfitta ha una sua retorica e un suo fascino crudele.

E’ per questo che se escludiamo Malagò e il suo aereo dei vip, Damiano e i suoi capelli tinti, il padre di Marta che non va alla laurea della figlia, “andiamo a Budapest Beppe”, Alberto Rimedio, il pulman rimasto in garage, i tatuaggi che non si cancellano facilmente, Barigelli e la sua Gazzetta, gli Igli della Lypa, la faccia di Mangiante, i maxi schermi e “er sordaut”, Mou che arringa e istiga il grande popolo credulone, debbo confessare che un pochino mi dispiace. Ma solo un pochino.

Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo. Il calcio è molto, molto di più. (Bill Shankly)

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Serbo un ricordo

Un ricordo di più di vent’anni fa. Il ricordo di un sentimento, di uno stato d’animo, di un sogno che finalmente avrebbe potuto realizzarsi. C’era questo calciatore, neanche troppo simpatico, aveva giocato nella Roma e già per questo mi aveva lasciato sospettoso. Era un difensore, neanche troppo bravo a difendere, lento, spesso in affanno contro attaccanti veloci. Ma con un sinistro divino. Capace di disegnare traiettorie impossibili, di vedere quello che gli altri potevano solo immaginare. Il pallone che si alzava, superava la barriera e poi scendeva in picchiata, “voli imprevedibili ed ascese velocissime“, come fosse radiocomandato, finiva inevitabilmente sotto l’incrocio dei pali a gonfiare la rete

Il ricordo che voglio serbare dentro di me risale ad una domenica pomeriggio, proprio di questo periodo. 13 dicembre 1998, il giorno prima c’era stato il battesimo di mia figlia, quel giorno allo stadio c’era Lazio Sampdoria. Il sinistro di Sinisa quel giorno era particolarmente caldo: tre goal su punizione, tutti in un unica partita, un record allora e tutt’ora imbattuto. Con mio fratello e il nostro inseparabile compagno di stadio quel giorno, insieme a quelle traiettorie impossibili, avevamo visto la possibilità di un sogno che si poteva realizzare.

Non lo sapevo allora, ma nel giro di qualche mese, il ritorno di un male che sembrava sconfitto si sarebbe portato in cielo la mia mamma e nello stesso tempo la Lazio avrebbe buttato al vento lo scudetto. Ma quel 13 dicembre eravamo entusiasti e increduli di fronte alle parabole visionarie tracciate dal suo sinistro magico: lo scudetto non era più un miraggio irraggiungibile, ma un sogno che poteva diventare realtà.

Non voglio santificarlo ora che non c’è più. Era una persona difficile, un personaggio scomodo, pieno di contraddizioni: con la mamma croata e il papà serbo, capace di giocare nella Roma e nella Lazio, di allenare l’Inter e il Milan, di inneggiare alla tigre Arkan, assassino di innocenti e di dare del negro a Vieirà (“lui mi aveva dato dello zingaro, ma io non mi vergogno di essere zingaro, è lui che si vergogna di essere negro”).

Il suo modo di affrontare la malattia è stato esemplare e probabilmente di esempio per quanti stanno affrontando lo stesso percorso. Ho letto in giro che è stato sconfitto nella partita con il cancro. Da laziale sono abituato alla sconfitta, ma Sinisa non ha perso affatto. La morte l’ha trovato vivo, nonostante la malattia. Per questo ha vinto lui. Perché, pur sembrando sconfitti, quelli come lui vincono alla fine. Infatti, il sogno scudetto svanito in quel triste 99, grazie anche alle sue punizioni, si realizzò l’anno dopo, quando forse nessuno ci credeva più. Ciao Sinisa, indomito guerriero, persona autentica in un mondo di personaggi.

Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo. Il calcio è molto, molto di più.
(Bill Shankly)

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La Lazio, il Boss e una volpe

Per chi altri uno il 14 agosto lascerebbe il fresco dei monti per farsi 240 km tra andata e ritorno e ritrovarsi a sudare nel forno della capitale? Per chi altri si incazzerebbe al punto da rovinarsi il resto delle vacanze e rischierebbe un attaco di cuore nel momento della vittoria? E per chi si farebbe influenzare dalle mille e una superstizioni (come sono vestito, che percorso faccio con la macchina, quale strada prendo una volta a piedi, dove tengo il cellulare, quando devo accendermi la sigaretta e via discorrendo)? Insomma da chi altro mi farei condizionare la vita in modo del tutto irragionevole, illogico ed insensato?

Da nessuno, ovviamente. Ed il fatto che ne sia consapevole, da una parte mi fa sorridere, dall’altra mi dà il nervoso. Come quando perdi la testa per una che non ti si fila: da una parte ti compiaci nella languida speranza che si accorga di te, dall’altra maledici il giorno in cui hai incrociato i suoi occhi e ti sei perdutamente innamorato di lei. Ti chiedi perché, ti domandi cosa hai fatto di male, preferiresti essere coinvolto da qualche altra passione, il lavoro, il successo, i soldi, ma niente, niente riescono a distoglierti. Preferiresti non amare più, rimanere indifferente a quello che succede, ma non ce la fai, è più forte di te.

E così stanotte, rientrando fra i monti, con la musica del boss di sottofondo (a proposito, uno dei prossimi viaggi musicali devo assolutamente dedicarlo a lui), mi interrogavo sulla follia che è essere innamorato di una squadra di calcio. Di come, nel giro di pochi minuti, per l’ennesima volta, era riuscita a farmi passare dalla depressione profonda, all’esaltazione entusiastica. Ma che senso aveva essere così contento? In fondo non è che una partita. Ce ne saranno altre mille, ne vinceremo, ne perderemo, perché allora sto così? Perché sembra così importante?

E mentre sfumava Badlands e attaccava Racing in sthe Street, fra le curve e i tornanti ecco apparire una volpe che si pianta in mezzo alla strada, accecata dai fari. Arrivavo in velocità, che fai ti decidi a scansarti? Ce ne sono tante qui intorno, in fondo che importanza poteva avere, una volpe in più o meno? Ma in questa notte di euforia immotivata almeno un motivo di soddisfazione autentica ci deve stare: questo penso in quella frazione di secondo che serve a sterzare a destra proprio in tempo per evitarla.

Buon Ferragosto anche a te volpacchiotta e mi raccomando, tieniti alla larga dei lupi, che si sa, di loro non ci si può fidare!

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Abbiamo bisogno di eroi?

Ieri sera ho visto con piacere un docufilm (termine bizzarro, una via di mezzo tra un film e un documentario) sugli azzurri vincitori del Mondiale spagnolo, esattamente 40 anni fa. Correva l’estate dei miei 16 anni, con Miguel Bosè che cantava i Bravi ragazzi (tutti poeti noi del 66, come modificavamo la canzone a nostro uso e consumo) e i primi amori sul lungomare fra Anzio e Lavinio. Ma ancor prima di aver rivisto quelle immagini, come penso tanti della mia stessa età, sarei in grado di raccontare perfettamente ognuna di quelle partite della nazionale.

Ricordo esattamente dov’ero e con chi vedevo le partite, le ansie prima di ogni incontro e i festeggiamenti dopo. Ricordo lo scetticismo e le cattiverie giornalistiche che accompagnarono le prime gare, salvo poi mutarsi rapidamente nella santificazione dei giocatori: la corsa a salire sul carro dei vincitori è sempre stato uno degli sport più praticati, in qualsiasi epoca. Ricordo che qualche lupacchiotto giallorosso (come sempre, i figli stupidi di Roma) tifava Brasile perché c’era Falcao e quel cattivone di Bearzot non aveva convocato Pruzzo. Ricordo mia mamma felicemente sbronza dopo la finale, a sventolare una bandiera sulla litoranea, affollata di macchine festanti.

Nel servizio della Rai condotto da un grande Marco Giallini, ritornavano tutte queste cose e si inquadrava quella manifestazione nello scenario del Paese dell’epoca, sottolineando le difficoltà economiche e sociali in cui ci trovavamo. “Abbiamo bisogno di eroi” ha detto Giallini alla fine del documentario, perché quella vittoria può considerarsi come il riscatto dell’Italia, che proprio in quel gruppo di ragazzi era riuscita a ricompattarsi, a ritrovare uno spirito unitario dopo i veleni del periodo di piombo. La cosa mi ha fatto pensare, perché in realtà non sono molto d’accordo con questa ricostruzione.

In realtà nell’82, almeno dai miei ricordi, c’era un’altra atmosfera nel Paese. Gli anni duri, Moro, Ustica, la stazione di Bologna, erano ormai alle spalle. Ovviamente ancora c’erano degli strascichi, le BR facevano ancora paura, ma l’aria era cambiata, eravamo già andati avanti. Non c’è paragone con l’oggi. Siamo appena usciti da una pandemia mondiale, siamo nel pieno di una guerra dentro i confini dell’Europa e dentro una crisi economica che è ben lontana dall’essere superata. E siamo pure fuori dal mondiale, quindi nessun eroe potrà salvarci. Ma neanche risollevarci il morale.

E poi, seppure non ci avessero eliminati prima ancora di partecipare, con i problemi che abbiamo e il disincanto diffuso, a cosa sarebbe servita un’ipotetica vittoria al mondiale di calcio? E’ vero, sono il primo ad essere convinto che “il calcio è la cosa più importante fra le cose meno importanti“, può essere terapeutico (la Lazio continua ad essere il termometro del mio umore non solo domenicale). Ma nonostante tutta la retorica di cui possiamo caricarlo, davvero stavolta non credo che ci avrebbe potuto salvare. Forse, proprio come successe oltre 40 anni fa, dovremo sbrigarcela da soli. Ripartiremo anche senza eroi: ce la facemmo allora e ce la faremo adesso.

Loro arriveranno dopo e magari ci regaleranno un altro mondiale.

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Noi e la perfida Albione

Ecco perché vincerete voi

Giocheremo la finale a Wembley, il tempio del calcio, la storia, la tradizione. D’altra parte questo gioco l’avete inventato voi.

Avete vinto la Champions League e non poteva essere altrimenti perché in finale avevate portato addirittura due squadre. Ormai da anni i vostri club dominano in qualsiasi competizione europa.

Avete avuto i Beatles, i Rolling Stones, i Queen, i Genesis, i Pink Floyd, gli ELO, i Supertramp, gli Oasis, gli Smith, i Cure, i Clash, i Kasabian, i Muse, i Mumford & Son e Elton John. Dice, ma che c’entra la musica? Lascia fare, la musica c’entra sempre.

Siete una nazionale multietnica, in squadra di inglesi doc ce ne saranno 3 o 4, gli altri sono tutti della seconda generazione, sono giovani, sfrontati e hanno fame di successi.

54 anni fa eravate diventati campioni del mondo, nella finale di Wembley, con un goal palesemente irregolare. C’era la Regina Elisabetta al trono e l’Italia aveva un governo di larghe intese.

Ecco perché vinceremo noi.

E’ vero, il calcio l’avete inventato voi, ma come ricordava giustamente Luciano De Crescenzo, “quando voi vivevate ancora sugli alberi e vi dipingevate la faccia, noi eravamo già froci”.

Sì, avete vinto la Champions, ma siete usciti dall’Europa. Non è che qualcuno vi ha cacciati, avete votato e a maggioranza siete voluti uscire. Mo che volete?

E’ vero, avete i Beatles, i Rolling Stones e compagnia cantando, ma non avete il bidè. Mi dispiace, ma io difficoltà a dare credito a gente che non si fa il bidè.

Sì, siete una bella squadra, siete multietnici, ma in porta avete una specie di pupazzo gnappo e in difesa fate abbastanza ridere. Se Ciruzzo si sveglia, non c’è partita.

54 anni, c’era la Regina Elisabetta al trono e l’Italia aveva un governo di larghe intese, ma avevate vinto la finale rubando la partita ai tedeschi. Ai tedeschi! Pensate di riuscire rubarla anche a noi? Rubarla. A noi. Sicuri, sicuri?

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Il giorno in cui smisi di fumare

Roma, maggio 2026

Ti ricordi quando mi dicevano “perché ti sei fissato con questa difesa a 4! Cambia ogni tanto!” Oppure quelli pronti a criticare “perché sostituisci sempre chi è ammonito?” e quegli altri invece che mi rimproveravano qualche acquisto “fai giocare sempre gli stessi, fai qualche cambio ogni tanto”. Meno male che sono andato dritto per la mia strada.

Perché a me non mi basta vincere, a vincere sono buoni tutti. Mi piacciono le iperboli, le idee che viaggiano sulle gambe degli uomini e quando il pallone disegna sul campo quello che hai per la testa, mi sembra di essere dentro una poesia di Bukowsky.

E’ stata dura, ma non mi sono arreso, neanche quando mi rinfacciavano il credo politico. Che poi pure Maestrelli era di sinistra, ma questi son pischelli, magari neanche sanno chi è Maestrelli. Certo forse pure io potevo evitare di andare sotto la curva con il pugno alzato, ma ero troppo felice, avevamo appena vinto il derby. Contro quell’antipatico di portoghese poi, giusto in tempo prima che lo cacciassero…che gusto!

Come questa sigaretta. La devo assaporare per bene, fino al filtro. Quando uno fa una promessa è quella, anche se solo con se stesso: avevo detto, se vinco lo scudetto qui basta, smetto di fumare. Che mi diceva la testa! Forse non ci credevo neanche io. Oppure invece proprio al contrario: ero sicuro! Ed ero anche sicuro che quello sarebbe stato il miglior modo di smettere. D’altra parte i numeri erano dalla nostra parte: 74, 00, 26 succede ogni ventisei anni. Adesso però è ora. Ultimi 90 minuti, andiamo a scrivere la storia.

(Originally published su https://sulpratoverdevola.biancocelesti.org/)