Non avrei voluto tornare sugli eventi calcistici recenti, anche perché perdere un derby non fa mai piacere. Qui nella capitale i risultati sportivi scarseggiano e quindi il dominio cittadino resta spesso l’unica soddisfazione che le nostre due squadre riescono a darci. Di conseguenza il peso di una sconfitta o di una vittoria è esageratamente maggiore rispetto ad altre città, dove al contrario i traguardi sono più alti e gli obiettivi più elevati.
Non a caso dico esageratamente perché poi insieme al sano sfottò, ormai da anni, attorno ai derby si concentrano tutte le peggiori situazioni legate al calcio: episodi di razzismo, ma soprattutto di violenza che sono incomprensibili ed ingiustificabili sotto tutti i punti di vista. Quale romanista non ha un amico laziale e viceversa? Nulla può giustificare la violenza, figuriamoci per una gara di calcio. Calcio che, se ti fermi per un attimo a pensare razionalmente allo sproposito di soldi che fa girare, ai privilegi che garantisce, alle sperequazioni su cui si basa, al Sistema (nella peggiore accezione del termine) che lo muove, bisognerebbe chiedersi come faccia a muovere ancora l’interesse di tanta gente.
Ma proprio la rivalità cittadina è una delle poche cose che continua a farmi appassionare a questo sport, che ormai tutto è tranne sport. Il gusto di confrontarsi con l’amico di sempre, gli scherzi e le prese in giro, restano davvero fra le poche che danno senso ad una cosa che in realtà non ce l’ha. E quindi veniamo a quello che è successo sabato dopo la partita.
L’autore del goal della Roma, onesto gregario che diventa eroe per un giorno, festeggia a fine partita sventolando una bandiera datagli dai suoi tifosi, sotto la curva festante. Una bandiera con i colori dei rivali e l’effige di un topo. Sventola, sventola, qualcuno gli avrà detto che forse non era proprio la cosa più elegante da fare e quindi nella successiva intervista, meglio di uno Scajola qualsiasi, si è subito prodigato a dire che lui non sapeva, non voleva, nessuna offesa, me l’hanno data i tifosi, non avevo visto cos’era.
Ripeto, lo sfottò è il condimento essenziale dei derby. Ci sta tutto: l’ironia, la presa in giro, persino le offese (magari eviterei di tirare in ballo i morti, ma poi ognuno si regoli come vuole). E’ lo stesso discorso della satira: il politicamente corretto riserviamolo alle cose serie. Facciamoci una risata sopra, oggi sei incudine, domani sarai martello. Quindi va bene la bandiera o quello che ti pare. Avrei evitato le scuse, perché non dovute, non volute, non apprezzate e autentiche come una moneta da tre euro.
In quella rivalità di cui sopra ognuno concentra nella squadra avversaria tutto ciò che ritiene negativo, tutto quello che non gli piace: voi coatti, voi burini, noi nati prima, noi unici veri romani, e potrei continuare per ore. La semplificazione del noi e voi, dei buoni e cattivi è automatica in una realtà con due facce contrapposte ed insieme inseparabili come questa. Poi, ripeto, fra i miei migliori amici, fin da bambino, ci sono romanisti e a parte vedere il derby insieme, non rinuncerei mai a stare insieme una serata con loro.
Però se nella credenza vedo due bicchieri giallo e rosso vicini (tipo quelli di plastica di Ikea), io li devo separare. O quando ci sono i panni stesi, se ci sono due mollette o qualsiasi altra cosa che metta insieme quei due colori, via via per carità. E’ una questione estetica, che tracima nell’etica: quell’accostamento per me è raccapricciante, come il gesso sulla lavagna, il sale nel caffè, una scoreggia in ascensore. Quindi quello che mi domando è come vi viene di sventolare una bandiera con i colori di “quegli altri”? Non vi fanno male gli occhi? Non avete un senso di repulsione, di fastidio a livello fisico? O forse, sotto sotto, anche se non lo ammettereste mai, riconoscete che i nostri colori, i colori del cielo e del mare, sono i più belli che esistano?









