Razzista a chi?

Chi frequenta da un po’ questo luogo virtuale sa come la penso riguardo le differenze razziali e soprattutto riguardo chi si lascia condizionare dal colore della pelle o dal credo religioso di qualcuno. Per chi fosse capitato qui per caso, lascio parlare il mio amico Jake

Odio i pregiudizi e ho una bassissima considerazione di chi si lascia condizionare da idee preconcette, da paure insensate o da valutazioni aprioristiche che non tengono conto della effettiva realtà di chi ci sta di fronte.

Premessa necessaria per spiegare come mi sono sentito ieri sera quando, parlando con l’Amministratore di condominio, sono venuto a sapere chi verrà ad abitare nel piano sotto a noi, nell’appartamento lasciato vuoto dopo la dipartita di una coppia di simpatici vecchietti. Domenica pomeriggio avevamo visto una ditta di traslochi che aveva appoggiato nell’androne dei materassi: qualcuno diceva quindici, altri venti, ma insomma una quantità davvero insolita. L’appartamento, affittato da una ditta edile il cui responsabile è il nipote dei precedenti proprietari, verrà abitato da otto (qualcuno dice dieci) operai egiziani, che lavorano appunto in questa ditta.

Mentre assimilavo questa informazione gli altri condomini urlavano allo scandalo, minacciavano ricorsi ai vigili, alla guardia di finanza ai Power Ranger ed io ho cominciato ad immaginare i prossimi mesi, l’odore di spezie che dalla loro cucina fluttuerà per le scale, l’aroma di cumino che pervaderà l’androne e stazionerà nell’ascensore, i canti e le feste notturne durante il Ramadan, mia figlia che torna a casa in tarda notte vestita come si vestono le belle fanciulle ventenni e quindi mi sono ricordato quello che diceva Bergonzoni. Non mi fa tanto paura il razzismo in sé, quanto il razzismo in me.

Razzista a chi?

Davanti al forno del mio amico Matteo/Johnny Deep che vi avevo già presentato qui , c’è una signora di chiara origine gitana, seduta in terra che chiede un po’ di compassione e qualche spicciolo al via vai di persone che entrano ed escono dal forno. Una di quelle donne con un’età indefinita fra i trenta e i cinquant’anni. A volte sta con lei un bambino piccolo: sarà il figlio, un nipote? Chi lo sa. Comunque è una figura ormai integrata nel quadro complessivo del quartiere, un volto noto. Con quel viso sorridente, quel salutare tutti quelli che passano.

L’altro giorno una signora del palazzo le si è avvicinata e le ha chiesto se invece di stare lì fuori non le andasse di andare da lei ad aiutarla in casa, nelle pulizie e stirando qualche camicia. “E che vengo a fare la schiava a casa tua?

Mentre me lo raccontava, quasi a volersi scusare, mi diceva “non vorrei averla umiliata…forse nella sua cultura è una cosa offensiva“. Io le volevo dire, “be’ certo, invece stare seduta in terra tutto il giorno a chiedere l’elemosina dev’essere proprio una cosa che ti riempe la vita di soddisfazioni“, ma già ero di malumore perché la Lazio non ha vinto e non volevo essere troppo polemico e così ho risposto solo “chissà“.

A volte però, penso proprio che non ce la possiamo fare.

Io, noi, tutti

Stasera mi va di raccontare una vecchia storia. Spesso ci vogliamo sentire simili agli altri, ci vogliamo omologare, quasi per forza, per non sentirci esclusi. A volte, al contrario, ci piace marcare le differenze. Pensarci diversi ci aiuta a sentirci migliori. Ma a volte non è così semplice stabilirlo in modo netto e somiglianze e differenze rischiano di confondersi.

C’era una volta un uomo che odiava il razzismo.

Disprezzava i razzisti e non perdeva occasione per prenderli in giro, per sottolineare tutto il suo disprezzo verso le loro idee. “Odio i nazisti dell’Illinois” era una delle sue citazioni preferite. Perché lui credeva fermamente che l’uguaglianza fra gli uomini fosse un principio assoluto ed universale. Era profondamente convinto che tutti gli uomini avevano gli stessi diritti senza alcuna differenza di sesso, di razza, di religione. Così aveva cresciuto i propri figli.

Persino a livello grammaticale non sopportava il modo di dire “noi altri”, che presupponeva sempre un “voi altri”, quasi a voler sottolineare l’estraneità del “voi” rispetto al “noi”.

Un giorno nella sua città ci fu un delitto orrendo: un uomo e sua figlia di pochi mesi, furono barbaramente uccisi. Il nostro uomo, come sempre, partecipò allo sdegno generale. Provò molta pena per quell’uomo ucciso ed il fatto che fosse straniero non aggiunse e non tolse nulla a quel sentimento. Pensare che una bimba di pochi mesi potesse morire così, per pochi soldi era orribile, intollerabile.

Gli assassini furono presto individuati: erano stati ripresi da alcune telecamere e avevano lasciato tracce di dna sulla refurtiva. Anche loro erano stranieri. Quando lo seppe il nostro uomo, per un attimo tirò un sospiro di sollievo. Fu solamente un istante. Quel breve lasso di tempo in cui le emozioni arrivano prima dei ragionamenti. Come la luce prima del suono. Un momento soltanto. Quell’uomo capì che c’era ancora molta strada da fare.